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La danza dei contrari

di Adela Gjata
  Tutto per bene
Data di pubblicazione su web 08/11/2012  

In proscenio, sulla sinistra, domina la tomba monumentale di Silvia Lori, alta oltre sette metri, uno di quei cimeli architettonici di forte impatto visivo che denotano la cifra stilistica delle regie di Gabriele Lavia. Luogo emblematico della vicenda personale di Martino Lori, vedovo legatissimo all’unica figlia Palma e alla memoria della moglie defunta di cui visita la tomba ogni santo giorno, da sedici anni. Le certezze di Lori crollano l’indomani del matrimonio di Palma, quando scopre di aver vissuto gli ultimi diciannove anni in totale menzogna, venerando una donna che l’aveva tradito con il suo caro amico e superiore, il senatore Salvo Manfroni, che è, per giunta, il vero padre della ragazza. Crudeltà pirandelliana.

Gabriele Lavia si misura con uno dei testi più drammatici ed enigmatici di Pirandello firmandone la regia e assumendo – come di consueto – il ruolo di protagonista. Tutto per bene, ricavato dall’omonima novella pirandelliana del 1906, fu rappresentata per la prima volta dalla compagnia di Ruggero Ruggeri il 2 maggio 1920, epoca alla quale fa riferimento la scenografia di Alessandro Camera – artefice della suggestiva selva di fari dei precedenti Masnadieri –, ispirata all’estetica astratta e lineare del Neoplasticimo olandese di inizio Novecento. Camera utilizza un unico spazio per raccontare tre luoghi diversi: l’iniziale salotto di casa Lori diventa nel secondo atto la ricca e opulenta dimora del marchese Gualdi con il grande divano in capitonné il lampadario Jugendstil e una radio del 1924, per prendere infine le sembianze dello studio del senatore Manfroni sovrastato dall’imponente scrivania lignea centrale. Lo spazio scenico non obbedisce a logiche di ambientazione realistica pur rispecchiando l’altolocato habitat borghese; gli oggetti oltrepassano la funzione di ‘arredo’ per evocare le dinamiche psicologiche dei personaggi. Dentro questo contenitore insieme astratto e claustrofobico si sviluppano i temi dell'inganno, della convenzione e del perbenismo ipocrita; sul marmoreo pavimento a scacchiera si aggira con passi lenti e pensosi l’ignaro Martino Lori (Gabriele Lavia), l’altezzosa e prolissa Sig.ra Barbetti (Daniela Poggi), l’austera Palma Lori (Lucia Lavia), l’autorevole Salvo Manfroni (Gianni De Lellis) e i suoi fastidiosi inservienti, caricature servizievoli  del potere, rappresentanti di un registro buffo e leggero che tinge d’ironia il racconto scenico. 
 


Gianni De Lellis e Lucia Lavia (© Serafino Amato) 
 

Gli elementi della messa in scena, dalla musiche di Giordano Corapi ai tagli di luce di Giovanni Santolomazza ai contrappunti recitativi, concorrono a creare una realtà metafisica, quasi spettrale, con tinte di giallo che avvolgono la vicenda di un’aura misteriosa. Sullo sfondo lampi e tuoni, lontani e vicinissimi, illuminano continuamente a giorno l’ampia altissima vetrata di fondo, che sembra rimpicciolire ulteriormente il minuto Martino Lori. Strano è il matrimonio di Palma, appena diciannovenne, con lo squattrinato marchese Flavio Gualdi: nozze combinate da Manfroni per assicurare alla figlia il titolo nobiliare. Nozze senza festa e senza ospiti. Solo un vestito bianco e una dozzina di vasi traboccanti di fiori candidi ne recano notizia. Bizzarra è anche l’inaspettata visita della Signora Barbetti, nonna materna di Palma – personaggio enigmatico che appare nel primo tempo per poi scomparire nel nulla –, donna ricchissima e dissoluta per aver abbandonato marito (il celebre fisico Agliani) e figlia, sposando un altro uomo. Questo primo atto introduttivo è segnato da comportamenti oscuri, apparizioni fulminee e conversazioni inutili che ben esprimono la quotidianità del povero Lori, circondato dalla solitudine e dal disprezzo. Alla partenza degli sposi rimane una desolazione dal sapore cechoviano, infinitamente malinconica, con Lori e la governante che, avvolti da una luce soffusa, raccolgono gli abbandonati fiori nuziali.

Lucia e Gabriele Lavia (© Serafino Amato) 

Lavia utilizza come chiave di lettura del testo la teoria del «sentimento del contrario», più volte esposta – come è noto – dallo stesso Pirandello. A partire dal binomio apparenza-interiorità: gli eleganti costumi di Andrea Viotti e gli interni raffinati di Camera sono la patina di una società corrotta che nulla concede alla verità dei sentimenti. Niente è ciò che appare nelle commedie del drammaturgo siciliano; i suoi personaggi, spiega Lavia nelle note di regia, si comportano secondo una logica contraria alla sensibilità comune. Ne diventa metafora sottile il leitmotiv della danza a ritroso, nella quale gli attori si muovono lentamente, con passi aerei, quasi a voler sospendere l’attimo fuggente di un pensiero, raggelando la scena in un’atmosfera onirica. L’estetica del contrario moltiplica, inoltre, le domande sulla verità dei personaggi. Lori è un uomo vile e meschino che ha asceso i gradini della carriera approfittando dell’autorevole amante della moglie, oppure è un povero sfortunato travolto da una crudele menzogna? Silvia è la “moglie-santa” veramente pentita dopo il tradimento, oppure “l’amante-puttana” che perdura nel doppio gioco fino alla fine? E ancora: Palma è veramente figlia di Salvo Manfroni?

                          Gabriele Lavia (© Serafino Amato)


La metamorfosi del protagonista dall'incoscienza alla coscienza inizia nel secondo atto con la confessione di Palma: scena madre dell’intero spettacolo intrisa di slanci emotivi degna dei recitativi "grandattoriali" ottocenteschi, che Lavia esaspera con pianti, singhiozzi, parole spezzate e scoppi di dolorosa ira. La verità si scopre solo al buio e così sarà anche per Lori che vede capovolgere tutte le prospettive della sua esistenza dentro una scena cupa attraversata da un esile squarcio di luce. Martino Lori scende negli abissi della verità per poi emergere nella superficie della normalità; nasce, traumaticamente, da un’improvvisa coscienza del nulla, nel quale la sua intera vita si è vanificata. Capisce che nessuna vendetta potrà rimediare al crollo delle illusioni, la soluzione meno dolorosa è quella di riappropriarsi dell’amore della figlia, salvando le apparenze. Non resta per Lori che riprendere, e consapevolmente, la "commedia": recitata fin allora senza saperlo. Il sipario cala sull'amara conclusione del "tutto per bene" secondo la morale vigente del "pulitamente, come usa fra gente per bene".
                                                   

La prova convince per la coerenza interpretativa, la cura dell’insieme e l’ottima concertazione di tempi, ritmi e suoni. Lavia ha saputo addentrarsi nelle viscere della drammaturgia pirandelliana cogliendone la dolente linfa vitale, regalando uno spettacolo in penombra, ma nello stesso tempo intenso e invasivo. Sicuramente una delle migliori regie dell’ultimo "mattatore".



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© Serafino Amato 

 
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