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Il rosso e il nero

di Giacomo Villa
  Piazza d'Italia
Data di pubblicazione su web 18/02/2011  

A dispetto delle varie piazze “italiane”, vere o fittizie, mediatiche o reali, piene o vuote (di senso), quella teatrale di Marco Baliani ha la sostanza e il merito di portare alla luce quasi cento anni della storia italiana, dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra, attraverso le molteplici storie degli abitanti di un borgo della Toscana. La materia narrativa, che parte laddove finiva La Repubblica di un solo giorno, è tratta da Piazza d’Italia, romanzo che Antonio Tabucchi scrisse nel 1973. Lo scrittore e il regista, di pari passo, seguono le vicende dei rappresentanti di una famiglia di fede garibaldina, attraverso le genealogie e le generazioni: dal patriarca garibaldino Plinio, combattente a Roma e Calatafimi, ai figli Quarto, Volturno, morto soldato in Africa, Anita e Garibaldo fino ai loro discendenti. Una famiglia che assiste ai rivolgimenti storici, dall’unità d’Italia al fascismo, dagli sforzi e dai sacrifici del dopoguerra alle contestazioni e alle lotte operaie degli anni Sessanta. Vicende private e pubbliche trovano l’unità non tanto di luogo (né, evidentemente, di tempo) ma d’azione in quel racconto corale, epico che lo stesso regista ha voluto trasportare dal romanzo alla scena.


Gli artifici narrativi della pagina di Tabucchi, in quell’infittirsi di brevissime, lapidarie storie, che si nutrono di poche righe, che corrono parallele e vengono poi finalmente ad unirsi, passano integralmente nella drammaturgia, curata da Maria Maglietta. Di qui il senso di frammentarietà, di frettolosa e caotica successione, di veri e propri tableaux vivants più che di scene: il corpo di Garibaldo che viene portato via sul carro di legno, il ritorno di Volturno in una cassetta piombata, sotto lo sguardo tenero e atterrito della madre Esterina (una eccellente Daria Deflorian), i turbamenti del giovane Melchiorre, futuro capo della guardia fascista, figlio di Ottorino e di Anita. A volte si ha l'impressione che le scene non siano accordate bene tra di loro, che scorrano, oltre che troppo velocemente, quasi in un'asettica e impersonale resa scenica dei piccoli e grandi eventi, tragedie e piccole soddisfazioni dei protagonisti. Ma è una scelta registica, quella di aver voluto conservare il tempo della narrazione trasponendolo tout court in quello della finzione. E che Baliani voglia non tanto rimaner fedele al testo di Tabucchi, quanto piuttosto suggerire nello spettatore l’idea di trovarsi di fronte ad una narrazione, scenica ma pur sempre narrazione, lo si capisce bene anche dal tipo di recitazione che impone agli attori: declamata, volutamente antinaturalistica, che segue i tempi del racconto, che spiega i fatti antecedenti e successivi, riducendosi quasi ad una serie di soliloqui; gli attori raramente dialogano tra loro, guardandosi in faccia.


Per il resto, c'è tutta l'intensità del racconto, con trovate felici specialmente nei momenti comici, come la confessione del giovane Ottorino (il poliedrico Simone Faloppa) o l'intermezzo amaro delle marionette figuranti giovani fascisti che picchiano a morte il venditore “matto” del borgo; accanto alla moderna scenografia, occupata da un prisma centrale rotante, che permette cambiamenti di scena e di ambientazione, c'è la cura e la valorizzazione degli oggetti, eccezionali in tutta la loro robustezza fiera e triste di cose consunte, siano sedie, tavoli, vanghe, rastrelli o cesti. Fino alla ricercata rappresentazione cromatica di scene e personaggi: la monocromia di un vecchio film in bianco e nero, quale è quello che si racconta in scena, è rotta soltanto dall'irrompere di due colori dominanti, il rosso e il nero: rosso come il colore del fazzoletto al collo del garibaldino, di quello dell'antifascista Gavure, come la camicia dell'operaio Garibaldo, morto durante alcuni scontri fuori dalla fabbrica (un energico Gabriele Duma); nero come la tonaca dell'ambiguo prete del borgo, come quella del seminarista Ottorino, morto suicida o come l'uniforme del figlio Melchiorre, ufficiale fascista. Se il rosso è il colore della rivolta e del sangue, quasi il simbolo della famiglia, il nero è il simbolo della sconfitta, prima che delle idee (non sembra sia questa lettura politica ad interessare il regista) della morte delle illusioni e dei progetti di vita personali.


È quello che succede in una piazza, tanto reale quanto simbolica, è la storia, non quella con la “s” maiuscola, ma quella silenziosa, che miete vinti e vincitori, è l'alternanza tra voce singola e collettiva, tra narratore singolo e scene d'insieme, è l'amaro pensiero del regista e narratore quello che emerge su tutto, è la polvere che resta e che divora le statue di chi si avvicenda al potere, oltre ai ricordi e alle speranze dei protagonisti. Con buona pace dello spirito della rivoluzione.

Piazza d'Italia
cast cast & credits
 



 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 


Il regista Marco Baliani





 

 
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