Lultimo, pregevole annale della rivista «Kronika Zamkowa. Roczniki / The Castle Chronicles», competentemente curato da Jacek Zukowski e Agnieszka Zukowska, opportunamente riporta lattenzione degli studiosi su un capitolo centrale della storia dello spettacolo europeo, a oggi solo in parte indagato: quello del mecenatismo teatrale e musicale della famiglia Vasa e, in particolare, di Ladislao Sigismund (1595-1648) (figg. 1-2), figlio di Sigismondo III e di Anna dAustria, eletto nel 1610 Zar di Russia – con un incarico più formale che effettivo – e nel 1632 re di Polonia con il nome di Ladislao IV. La pubblicazione anticipa le celebrazioni organizzate in Polonia per il quattrocentesimo anniversario del Grand Tour europeo del principe polacco (1624-1625), che culmineranno in una attesa mostra che sarà ospitata dal Castello Reale di Varsavia tra il dicembre 2024 e il febbraio 2025. Lesposizione sarà dedicata al teatro di corte che, inaugurato tra il 1627 e il 1628, fu attivo fino al 1648 e ospitò opere in musica, balletti, compagnie di comici dellArte, nonché le esibizioni di numerosi attori inglesi, tra cui John Green, Arend Ärschen, Robert Reynolds, William Roe. Lattenzione ai legami artistici e teatrali tra Italia e Polonia è relativamente recente. Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso vennero pubblicati i pioneristici contributi di Julian Lewanski, Karolina Ana Szweykowska, Targosz-Kretowa, Tadeus Witczak, Paolo Fabbri, Federico Ghisi, Irene Mamczarz, Sergio Marinotti, Anna Panicali, Oreste Ruggeri e Gian Ludovico Domenico Zannini, ma occorre attendere il nuovo secolo e gli studi di Alina Zórawska-Witkowska, Barbara Przybyszewska-Jarmińska e Juliusz A. Chrościcki per una più organica trattazione. Un filone di ricerche rinnovato dalla recente pubblicazione dellannale 2021 di «Kronika Zamkowa. Roczniki / The Castle Chronicles», che ha il merito di raccoglie interventi di studiosi di diversa provenienza (Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Spagna, Svizzera e Italia) e di presentare ricerche inedite sul mecenatismo teatrale del principe polacco. Il volume si pone dunque come un imprescindibile punto di partenza per future ricerche sui processi di disseminazione e codificazione del modello performativo del teatro, della danza e dellopera in musica italiana in Polonia, anche in relazione alle altre capitali europee dello spettacolo di Antico Regime. Fin da bambino il principe Ladislao ebbe uneducazione umanistica di impronta europea, favorita dalla madre Anna – figlia dellarciduca Carlo II dAustria e nipote dellimperatore Ferdinando I –, prematuramente scomparsa il 10 febbraio 1598, dalle dame di compagnia della regina, a cominciare da Urszula Meierin, che diventerà uno dei personaggi più influenti della corte polacca, e dalla seconda moglie di Sigismondo III, Costanza dAsburgo, sorella della prima moglie, sposata il 2 ottobre 1605. Un episodio, questultimo, accortamente messo in evidenza in una delle ventiquattro tele che nel 1612 decorarono la navata della fiorentina basilica di San Lorenzo, apparata a lutto per le esequie di Margherita dAustria, regina consorte di Spagna e Portogallo, moglie di Filippo III e sorella di Anna e di Costanza, nonché di Maria Maddalena, granduchessa di Toscana. Il tema conduttore dellintero allestimento – progettato dallAccademia del Disegno ed eseguito sotto la direzione di Giulio Parigi – fu la rappresentazione del trionfo delle virtù spirituali della sovrana e delle sue azioni in favore della diffusione del cristianesimo. Il ciclo la celebrava, a fianco del consorte, in difesa della Spagna contro gli eretici, nella guerra contro i protestanti, nel sostegno alla costruzione di conventi ed edifici religiosi e nellattenta promozione di vincoli matrimoniali tra le dinastie impegnate nella lotta contro leresia, tra cui i Vasa. Il monocromo in cui Lambasciatore di Sigismondo di Polonia ringrazia Margherita dAustria per aver favorito le nozze con sua sorella Costanza, opera di Matteo Rosselli, attesta anche lo stretto legame – non ancora pienamente indagato – tra la Casa dAsburgo, la corona di Spagna, la monarchia polacca e i Medici. Un rapporto familiare e diplomatico già sapientemente coltivato da Sigismondo III anche sul piano culturale. Il Vasa si contraddistinse infatti come munifico mecenate nei confronti di artisti e musicisti stranieri, molti dei quali italiani. Tra questi Luca Marenzio, che tra il 1596 e il 1598 era stato assunto come maestro della Cappella Reale. La passione per larte e per la musica fu trasmessa da Sigismondo al figlio Ladislao, come dimostra il dipinto di un anonimo pittore di Anversa conservato presso le collezioni del Castello Reale di Varsavia, che raffigura lo studio di Ladislao Sigismund Vasa con una serie di opere darte da lui acquistate tra il 1624 e il 1625 in occasione del suo Grand Tour in Europa che toccò la Francia, i Paesi Bassi, i territori dellImpero e lItalia (fig. 3). Molti degli oggetti presenti nel quadro sono chiaramente identificabili, come i due ritratti del principe, il Sileno ubriaco e la Madonna con bambino in una ghirlanda di fiori di Rubens, la riproduzione in bronzo del Ratto delle Sabine di Giambologna e lincisione con Tobia e langelo di Hendrick Goudt. Per quanto riguarda il monocromo in alto a destra è stato ipotizzato che possa trattarsi di una scenografia, forse un bozzetto preparatorio per lultimo atto de La Regina SantOrsola di Andrea Salvadori, musicata da Marco da Gagliano e sontuosamente rappresentata con balli di Agnolo Ricci il 28 gennaio 1625 nel Teatro Mediceo degli Uffizi alla presenza del principe polacco (fig. 4). Per lallestimento venne «chiamato il Signore Giulio Parigi ingegniere di Loro Altezze Serenissime, et a lui impostogli le prospettive, le nugole et le machine». Lo scenografo, adeguandosi alle esigenze del libretto, adottò una soluzione inedita per la tradizione teatrale fiorentina e rappresentò simultaneamente laccampamento degli infedeli e le mura della città cristiana (fig. 5). La scelta assecondava la «drammaturgia di macchine» che era da tempo uno dei tratti caratterizzanti della spettacolarità medicea, che prevedeva il sapiente “riuso” di un patrimonio scenotecnico a questa altezza cronologica ormai ampiamente collaudato. Nel corso dellopera venne così riproposta la buontalentiana citta di Dite-Inferno (fig. 6): La scena si rappresenta appresso le mura di Colonia Agrippina: vedesi da una parte un tempio con lidolo di Marte, e dallaltra un bastione, che si sporge in fuora dal resto delle mura: nella lontananza apparisce la città di Colonia, il fiume Reno, e più oltre la campagna dove sono attendati glUnni: apresi nella prima scena dellatto primo, una voragine, dove si vede in un lago di fiamme seder Lucifero sopra unIdra, e fatto il concilio de demoni contro SantOrsola, si riserra. Il coro principale, che divide glatti è di Cristiani inglesi prigioni deglUnni. Nellultimo atto, dopo la distruzione del tempio di Marte – «qui per lorrenda bestemmia cade un fulmine sopra il Re, e la terra linghiotte, cade ancora fulminato il tempio di Marte, e lidolo va in pezzi» (fig. 7) –, SantOrsola e il coro delle Vergini comparvero sulle tradizionali macchine-nuvole (fig. 4): Qui per applauso della vittoria fu ballato da nobilissimi cavalieri della Corte di Toscana, rappresentando parte di loro, soldati romani, e parte nobili di Colonia. Cangiossi di poi la scena in bellissimo Paradiso dove in mezzo alle sue Sante Vergini, et tra i cori di SS. Martiri fu vista trionfare S. Orsola. Osservando le incisioni che illustrano il libretto, la grisaille che si intravede nella Wunderkammer del castello di Varsavia (fig. 8) sembra riprendere un particolare del tempio (fig. 9) raffigurato nella scena finale con il Trionfo di S. Orsola in cielo e ballo di romani vincitori (fig. 4) – culmine dello spettacolo – e dunque essere attribuita a Giulio Parigi. Le somiglianze con il tempio sulla destra sono evidenti, anche se nel dipinto larco risulta decorato con inserti quale il bucranio, che rimandano allantico, e arricchito con suggestioni che potrebbero derivare dal teatro Olimpico di Vicenza, visitato da Ladislao Sigismund Vasa durante il suo Grand Tour. In particolare la vittoria priva di ali, reggente un lauro e adagiata sullarchivolto richiama quella analoga, in questo caso alata, presente sullarco della ianua regia del teatro palladiano (fig. 10). Nel quadro la mancanza delle ali è un inequivocabile segno di vittoria duratura, un omaggio che ben si confaceva al principe polacco, che nel 1621, dopo la battaglia di Chocim, si era guadagnato lappellativo di “difensore della Fede”. Anche la posizione della grisalle allinterno del quadro, in linea con la riproduzione in bronzo con il ratto delle Sabine, non è casuale e sembra conferma lorigine fiorentina del monocromo. La decisione di omaggiare il principe con un particolare tratto dallultimo atto de La regina SantOrsola, oltre a nascondere un più profondo messaggio politico, risponde alla passione di Ladislao Sigismund Vasa per lopera in musica. Una passione affinata durante il soggiorno in Italia, dove ebbe occasione di assistere a numerosi spettacoli a Venezia, Mantova, Bologna, Firenze, Roma e Napoli. Per altro, lopera di Salvadori, che con La Regina SantOrsola aveva inaugurato un nuovo filone del melodramma di soggetto sacro, dovette incontrare particolarmente i gusti del Vasa che nel 1637, in occasione delle nozze con larciduchessa Cecilia Renata dAsburgo, figlia dellimperatore Ferdinando II, farà mettere in scena nel Castello Reale di Varsavia un dramma per musica di argomento agiografico: la Santa Cecilia di Virgilio Puccitelli. Rientrato in patria nel 1625, il principe promosse e finanziò lattività dei teatri di Varsavia e di Vilna. Imbevuto di sogni italiani, per la buona riuscita degli spettacoli Ladislao si rivolse ad artisti e maestranze italiane, tra cui Puccitelli che, assunto con la carica di segretario reale, aveva il compito di sovrintendere alle attività del teatro di corte, comporre drammi musicali, favole pastorali, introduzioni e intermedi per balletti – poi musicati dal maestro della Cappella Reale, il viterbese Marco Scacchi –, reclutare i cantanti e far arrivare dallItalia i tessuti necessari per le scene e i costumi. Determinante fu anche la presenza a corte dellarchitetto-scenografo Agostino Locci detto il Romano, un professionista dello spettacolo che, al pari di Puccitelli, non risulta ancora pienamente apprezzato dalla storiografia italiana e non solo. Tornando allo sguardo europeo della rivista, il teatro ospitò anche numerosi attori inglesi. Non a caso i primi due saggi dellAnnale sono dedicati al teatro elisabettiano e giacobino. In apertura Richard Dutton (Very Well Liked”: Sir Henry Herbert and Professional Drama at the Courts of James I and Charles I, pp. 7-31) offre una lettura originale dellOffice-book di Sir Henry Herbert che, in qualità di Master of the Revels di Giacomo I e Carlo I, supervisionò lattività teatrale londinese dal 1623 alla chiusura dei teatri nel 1642. Il documento, assieme al Diario di Philip Henslowe, è considerato tra le principali fonti per lo spettacolo inglese della prima età moderna, ma fino ad oggi è stato utilizzato quasi esclusivamente per indagare le modalità di censura dei testi. Mentre sono state trascurate le preziose indicazioni – spesso uniche – che fornisce sui repertori delle compagnie e sulle opere selezionate per la corte, sui gusti del pubblico e sulla partecipazione dei membri della famiglia reale agli spettacoli. Esso permette inoltre, come indicato da Dutton, di meglio comprendere alcuni degli aspetti economici del teatro di corte. John Mucciolo (Hospitality and Shakespeares “The Tempest”: Traces of Homers “Odyssey” and Virgils “Aeneid”, pp. 33-50), partendo dallannosa questione dellinfluenza dellEneide e dellOdissea nella Tempesta di Shakespeare, evidenzia la comune osservanza dei temi dellospitalità, del corteggiamento, del fidanzamento e del matrimonio dinastico. Tematiche che bene si adattavano alloccasione celebrativa in cui la drammaturgia shakespeariana venne riproposta a corte: recitata una prima volta il 1° novembre 1611 dai Kings Men nella Banqueting House di Whitehall Palace, la Tempesta venne infatti replicata nel 1613 in occasione dei festeggiamenti per le nozze della principessa Elisabetta Stuart con lElettore palatino del Reno Federico V. Sapientemente Marine-Claude Canova-Green, in “Dancing Queen”: The Court Ballets of Anne of Austria, Queen of France (1615-1635) (pp. 55-75), si inserisce nel proficuo filone di studi sul mecenatismo delle regine consorti e sul loro ruolo nellideazione e nellorganizzazione di spettacoli come momento di affermazione della propria autorità e influenza politica. Una tradizione apparentemente portata avanti anche da Anna dAustria, accortamente educata fin dallinfanzia a interpretare un ruolo ufficiale allinterno di una ritualità in cui la danza era vista come unarte comportamentale che insegnava il controllo del corpo, sviluppandone lagilità e la grazia, ma anche come un mezzo di autopromozione. Danzare davanti alla corte contribuiva a creare unindispensabile aura di magnificenza attorno alle sovrane, in particolare in occasione dei cosiddetti ballets de la Reine. E in effetti le testimonianze relative alle esibizioni della Delfina ne sottolineano la particolare bellezza ed eleganza. Ma davvero la figlia di Filippo III di Spagna, che a soli quindici anni giunse in un paese che viene visto come a lei ostile, riuscì ad avere un ruolo nellorganizzazione di quegli spettacoli che la videro protagonista? Fino a che punto riuscì a imprimere le proprie preferenze culturali? Quale ruolo ebbe nellaffermazione di un meticciato artistico che portò alla predilezione, presso la corte francese, della moda alla spagnola? Sono queste alcune delle domande da cui parte Canova-Green nellindagare la partecipazione della sovrana ai balli organizzati a corte tra il 1615 e il 1635, per giungere alla conclusione che, salvo poche eccezioni, il messaggio veicolato era quello di una dovuta e pretesa sottomissione al re e alla corona di Francia. Un messaggio che celava una ben più ampia speranza coltivata dai francesi: quella della sottomissione della Spagna – di cui Anna era un simbolo – alla Francia. Ladies First? Some Thoughts on a Tournament Presented to Prince Ladislas Sigismund (Florence, 10 February 1625) (pp.77-95) di Tim Carter apre una serie di saggi dedicati al viaggio in Italia di Ladislao Sigismund Vasa (1624-1625). Il principe polacco soggiornò a Firenze nel gennaio-febbraio 1625, omaggiato dalla corte e dalle principali famiglie legate ai Medici con una lunga serie di intrattenimenti, tra cui la già ricordata Regina SantOrsola di Salvadori. Lorganizzazione degli spettacoli dovette rispettare un cerimoniale particolarmente complesso, in parte giustificato dalla contemporanea presenza in città del cardinale Ludovico Ludovisi (23-31 gennaio), del principe Niccolò dEste (29 gennaio-12 febbraio) e dellambasciatore del duca di Mantova Francesco Suardo (2-6 febbraio). Dopo una lunga digressione sul protocollo, Carter si sofferma sulla barriera La Precedenza delle dame (10 febbraio 1625) collegandola alla particolare situazione politica della città che, dopo la morte di Cosimo II e data la giovane età di Ferdinando II, era governata dallArciduchessa Maria Maddalena dAustria e dalla Granduchessa Cristina di Lorena in una dualità di poteri non di rado in conflitto tra loro. Un aspetto interessante e sicuramente da approfondire ulteriormente, soprattutto alla luce dei fondanti studi di Sara Mamone e Anna Maria Testaverde, questultima ricordata solo per il contributo su Epica spettacolare ed etica dinastica alla corte medicea nel secolo XVII e di cui si ignora, ad esempio, lo scritto dedicato a La liberazione di Ruggiero dallisola di Alcina, messa in scena nella villa di Poggio Imperiale proprio in occasione della visita di Ladislao del 1625. Prima di giungere a Firenze il principe polacco aveva soggiornato a Napoli. I nuovi documenti rintracciati da Elisa Spataro, in parte registrati nel saggio In Honour of the Polish Prince: The Festivities of the Duke of Alba in Naples and Ladislas Sigismunds Stay at the Medici Court (1625) (pp. 97-118), forniscono inedite informazioni sulla visita di Ladislao alla città partenopea e sugli spettacoli equestri organizzati dal duca di Alba. Tra le fonti individuate anche lepistolario dellagente toscano Vincenzo Vettori, a cui il 16 dicembre 1624 la corte fiorentina chiedeva, tramite il segretario Dimurgo Lambardi, puntuali relazioni sulle «belle feste fatte per la venuta del Serenissimo Principe di Pollonia». In particolare Vettori avrebbe dovuto soffermarsi «con la solita sua diligenza» su tutti quei dettagli che avrebbero permesso ai Medici di superare in magnificenza le celebrazioni napoletane: La quale avviserà anche, se la suddetta festa si faccia con cavalli di pezza, se sieno Corsieri, o Saltatori, se il Balletto sia galoppando, o trottando, o in altra maniera, et insomma vorrebbe sua Altezza essere avvisata di ogni minuzia, et puntualità, et del numero anche de Cavalieri et dogni altra cosa. Richiesta prontamente accolta dallagente, che pochi giorni dopo rassicurava «in confidenza» il firmatario della missiva: Alligata viene la relatione delle feste che qua si preparano al Principe di Pollonia, con discorso sopra tutte quelle particolarità che Vostra Signoria richieda et con aggiunta anco della spesa delli habiti et quel più che io ho giudicato poter giovare il saperli per trapassarlo. Una cosa le aggiungo fra lei, et me in confidenza che ancor che costà facesser male, dove che faran benissimo ben lo so io che altre volte mi vi son trovato a massime nelle feste delle nozze dellArciduchessa Nostra Signora: non farebber tanto male che qua non sia per farsi peggio in quanto allopera, perché non solamente nel provarsi han fatto cose da ridere ma, quel che è più, entron nella festa forse la terza parte di cavalieri tanto giovani, et inesperti che vedo bisogna che simbroglino, che più? Ce ne son molti che da che si pubblicò il doversi far feste, da quella hora et non prima si son messi a cavallo et vergognandosi tra di loro si fidono più tosto di un forestiero, et vengon mattina e sera in un mio cortile grande et serrato ad imparare. Che riuscita possin fare questi tali in pubblico lo lascio considerare a Vostra Signoria et in summa il numero et la mostra saran le più riguardevoli cose. La prestigiosa visita dellospite illustre era per Firenze una importante occasione di promozione, ma il primato non poteva stabilirsi che per comparazione. Nella gara di prestigio con le altre Case regnanti limperativo era dunque quello di “trapassare” («giovare il saperli per trapassarlo») e per farlo era necessario cercare di conoscere le strategie allestitorie dei rivali mantenendo la più riservata segretezza nei preparativi. Sapere senza far sapere. Nel frattempo anche la corte di Mantova si stava preparando ad accogliere il principe, che sarebbe giunto in città verso la fine del febbraio 1625, e dunque dopo il soggiorno in Toscana. Per loccasione il duca Ferdinando I impalcò un articolato programma di eventi, nonostante il difficile momento attraversato dalla corte. Se infatti apparentemente i Gonzaga erano impegnati nel riordino delle proprie collezioni artistiche, la famiglia era economicamente indebolita e prossima a un irreversibile declino politico. Nel 1627 il ramo mantovano si sarebbe estinto e il titolo ducale sarebbe passato al ramo francese dei Gonzaga-Nevers. Nonostante ciò vennero messe in campo tutte le risorse artistiche e musicali a disposizione, come dimostrano le poche fonti note. In Ladislas of Polands Visit to Mantua (1625): Music in Open and Enclosed Spaces (pp. 119-139) Paola Besutti le incrocia con nuove testimonianze, arrivando a individuare gli spazi utilizzati durante la visita e a chiarire il ruolo degli artisti impegnati. Tra questi Nicolò Sebregondi. Le parallele ricognizioni condotte da Carlo Togliani (“Un ingenere mantovano”: La “Galatea” Warsaw Staging (1628) in the Light of Documents in the Italian Archives, pp. 141-159) presso lArchivio di Stato di Mantova hanno permesso di individuare nuovi documenti che hanno spinto lautore a riconoscere in lui – e non in Giovan Battista Bertazzolo, come a lungo è stato creduto – lanonimo «ingegnere mantovano» ricordato in una lettera del Nunzio Antonio Santa Croce al Cardinale Francesco Barberini per aver realizzato le scenografie per La Galatea rappresentata a Varsavia nel 1628: Il Serenissimo Principe Vladislao fece settimana passata rappresentare in musica la favola pescatoria di Galatea, con intermedi apparenti, macchine e cose simili avendo a questo effetto condotto in Polonia un ingegnere mantovano. Vintervennero Maestà e Ser[enissimi] Principi con molto loro gusto e maggior dei Polacchi per esser a loro cosa peregrina. Una conferma del ruolo chiave delle maestranze italiche nella nascita del teatro musicale polacco, come emerge anche da alcune ricerche condotte da Marco Bizzarini sul teatro del Castello Reale di Varsavia (Beyond the Court Theatre: Rethinking the Origins of Early Opera Houses in Italy with Reference to the Musical Stage of Ladislas IV, pp. 161-177). Inaugurato nel 1637, in concomitanza con le fiorentine Nozze degli Dèi e con la prima stagione lirica pubblica veneziana, il teatro voluto da Ladislao Vasa viene messo in relazione con le sale operistiche italiane per dimostrare che fu progettato secondo le più aggiornate teorie architettoniche. Daltro canto è noto quanto la secentesca gestione impresariale, fondata sul profitto e inaugurata con la messa in scena dellAndromeda di Benedetto Ferrari e Francesco Mannelli al teatro San Cassiano (già stanza dei comici professionisti) durante il carnevale 1637, sia stata decisiva per laffermazione della sala allitaliana e per la diffusione dellopera in musica in Europa già nella prima metà del Seicento. Nonostante ciò in molti studi sul teatro musicale persistono diffidenze lessicali e ontologiche legate allutilizzo del termine “opera”. Soprattutto da quando, agli inizi del XX secolo, Robert Haas, Edward J. Dent e Donald J. Grout, basandosi sulla lettura di un campione di libretti, dichiararono marginale la diffusione del vocabolo a favore di altre definizioni come favola in musica o dramma per musica. Non concorda Daniel Martín Sáez, che in Origins and Consolidation of the Term “Opera”: From Italy to the Holy Roman Empire, England, France, and Spain (pp. 179-196) collega il termine al latino opus, ampiamente usato in musica nei secoli XVI e XVII e coniugato in vari modi prima di diventare il nome di un genere. Secondo lo studioso la sua diffusione fu più capillare di quanto fino ad oggi ritenuto e le tante varianti attestate servono a dimostrare tutta la vitalità del nascente melodramma. Quello che si afferma tra corte, accademia e mercato agli inizi del XVII secolo è un teatro musicale in cui le macchine svolgono un ruolo fondamentale. Nate dalla sapienza degli scenografi e dalla progettualità degli apparatori, impegnati a dare vita ai grandi miti del passato, esse assunsero nel teatro di corte un valore mitopoietico che fu alla base della loro fortuna. Poche quelle giunte fino a noi. Rimangono le insostituibili testimonianze iconografiche – scenografie, frontespizi, schizzi progettuali – che, se lette alla luce di altre fonti, soprattutto trattatistiche, permettono di ricostruirne il funzionamento e lutilizzo nella rappresentazione del potere e il ruolo svolto nelleconomia generale dellopera. Va in questa direzione lo scritto di Annette Kappeler Merveilleux et Mathématique: Theatre Machines and Their Dual Iconographical Representation (pp. 197-214) in cui, se opportunamente viene approfondito uno specifico caso di studio, quello dello spettacolo di corte francese, si sente la scarsa conoscenza degli studi italiani sullargomento. Frank Mohler, in The “Miraculous” Early Modern Scenic Change in Court Theatres and the Venetian Public Opera (pp. 215-234), propone alcune interessanti ricostruzioni grafiche dei sistemi per i cambi di scena utilizzati nel XVII secolo nei teatri pubblici veneziani e in quelli di corte. Il punto di partenza sono i noti trattati di Serlio e Sabbatini, il meno conosciuto Codex iconographicus 401, conservato alla Bayerische Staatsbibliothek di Monaco, recentemente scoperto da Hole Rößler e attribuito in modo convincente a Joseph Furttenbach il Vecchio, gli scritti di Danti e del Vignola, le descrizioni degli spettacoli. Lo studioso arriva a rivalutare il ruolo degli architetti-scenografi di area emiliana Francesco Guitti e Alfonso Rivarola detto il Chenda. Cristina Grazioli (Looking for the Light: Researching Stage Lighting in Renaissance and Baroque Eras, pp. 235-254) affronta il tema della luce come elemento connaturato al teatro e necessario alla concezione unitaria dello spettacolo. Se tradizionalmente la “rivoluzione” della luce in scena viene individuata nella diffusione degli impianti elettrici alla fine dellOttocento, essa riveste un ruolo fondamentale anche nei secoli precedenti. Valga come esempio il passo dellOrlando furioso in cui Bradamante, «non men che fiera in arme, in viso bella», ormai dentro la Rocca di Tristano, si libera dellarmatura e rivela ai presenti la propria identità: Quale al cader de le cortine suole
parer fra mille lampade la scena,
darchi e di più duna superba mole,
doro e di statue e di pitture piena;
o come suol fuor de la nube il sole
scoprir la faccia limpida e serena:
così lelmo levandosi dal viso,
mostrò la donna aprisse il paradiso (O.F., XXXII, LXXX) Le influenze del coevo teatro sono evidenti. Grazioli auspica per il futuro una maggiore attenzione storiografica su un ambito di studi ancora in gran parte da definire. Un compito per il quale occorre preliminarmente delineare adeguati strumenti metodologici, a partire dallindividuazione delle molteplici tipologie di fonti utilizzabili, non solo di ambito strettamente teatrale, e una terminologia soddisfacente, a partire dalla stessa definizione della materia, che adeguandosi all“assolo” della voce Illuminotecnica dellEnciclopedia dello spettacolo, non ha mai pensato di legittimarsi con un termine che ne evidenziasse anche le concezioni teoriche. In conclusione Teresa Chirico presenta alcuni degli esiti delle sue ricerche sul palazzo romano della Cancelleria, che fu abitato dai cardinali e vicecancellieri Francesco Barberini e Pietro Ottoboni, entrambi importanti mecenati. Nuovi documenti rintracciati dalla studiosa alla Biblioteca Apostolica Vaticana forniscono informazioni sugli spazi del palazzo che furono trasformati dai due prelati per ospitare opere in musica. In particolare, alla fine del 1640, Francesco Barberini ordinò la ristrutturazione di una rimessa per le carrozze per far rappresentare La Genoinda ovvero L'innocenza difesa (1641) di Giulio Rospigliosi; successivamente Pietro Ottoboni utilizzò lo stesso spazio per allestire il suo primo teatro. Al tempo dei Barberini alcuni eventi musicali furono probabilmente ospitati anche in un salone del primo piano della Cancelleria, poi destinato dallOttoboni allesecuzione di oratorî che prevedevano lutilizzo di unapposita macchineria. Nello stesso edificio risiedevano diversi interpreti al servizio dei due cardinali. Quanto qui esposto conferma la piena aderenza della cultura di Ladislao IV al “secolo cantante” di matrice italiana e rende sempre più auspicabile una miglior conoscenza dellassunzione del modello performativo italiano nellimmenso territorio governato dai Vasa (Svezia, Polonia, Lituania e Russia, fig. 11). La storiografia per noi più consueta prende in considerazione quasi esclusivamente la vicenda svedese, anche per la conversione al cattolicesimo della figlia di Gustavo II Adolfo, Cristina, appartenente ad un ramo della famiglia, e il suo successivo radicamento nella sede romana. Risulta invece più che opportuna una revisione delle gerarchie riassegnando alla Polonia, almeno fino alla metà del XVIII secolo, quel ruolo centrale che la fece protagonista della vita culturale dei paesi del Nord.
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