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Gianni Cicali

Il buffo in vestaglia e il libretto documento. Napoli XVIII secolo.
Con brevi riflessioni semiserie sull’I.A.

Data di pubblicazione su web 19/06/2023
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Il titolo di questo breve saggio, Il buffo in vestaglia, lo devo a Franco Piperno, il massimo studioso di buffi e intermezzi.[1] In un piccolo convegno alla Georgetown University di Washington su Pergolesi (organizzato insieme al collega Anthony DelDonna),[2] Piperno, molto generosamente, citò il mio buffo in vestaglia e invitò ad aggiungerlo alla nomenclatura del ruolo di un attore-cantante come il basso comico Gioacchino Corrado, attivo quasi esclusivamente a Napoli nel Settecento ma di natali bolognesi. Corrado fu il primo interprete di Uberto negli intermezzi La Serva Padrona di Pergolesi e G. A. Federico del 1733 (Napoli, Teatro S. Bartolomeo). Piperno nelle sue profonde ricognizioni sui buffi si sofferma molto sulle loro cifre performative senza tralasciare il cantante (ma d’ora in poi userò solo il termine “attore” o “attrice”). Alla magnanimità di Piperno verso questa mia piccola addizione “nomenclativa” riguardo al “guardaroba drammaturgico” di un buffo settecentesco devo aggiungere la matrice metodologica di Siro Ferrone che individua negli attori la pietra d’angolo fondante gli studi teatrali, oltre la sua ricerca dei “fossili” performativi racchiusi o piuttosto “rapiti” nei testi dagli attori-autori del Cinque-Seicento.[3] Torna utilissimo, oltre a quello di Piperno, il rigoroso approccio “ingegneristico” ai libretti, per così dire, di Anna Laura Bellina, oltre ai siti web con i melodrammi di Metastasio e Goldoni da lei ideati e scrupolosamente curati.[4]

Prima di arrivare alle vestaglie di Gioacchino Corrado sono necessarie, forse, alcune riflessioni particolarmente contemporanee e preliminari. Alle condivise caratteristiche morfologiche dei libretti (cioè strutture metastasiane messe in commedia) si aggiungano le cosiddette tre unità che, pur venendo da lunghe riflessioni ancora vive nel Settecento, nella pratica conferivano, a mio avviso, una sorta di concentrazione necessaria e dinamica, “catastrofica” e accelerata (con gags) allo sviluppo drammaturgico, impulso ideale per le operine buffe. Ora, se si inseriscono questi e altri dati in un programma come Chat GPT (in particolare l’ultima versione Chat GPT 4), probabilmente qualcosa di decente verrebbe fuori e forse i librettisti seriali settecenteschi, con tutte le loro regole e i loro patterns drammaturgici e ruolistici, ne sarebbero stati contentissimi, se ne avessero avuto il monopolio! In fondo, i librettisti comici erano dei software umani che creavano, assemblavano, riassemblavano, e pure riarrangiavano lavori altrui in maniera para-metastasiana. Una produttività strenuamente seriale applicata al comico (anche in dialetto) che attingeva a una moltitudine di fonti che potevano andare da Boccaccio a Lope De Vega raggiungendo emblematicamente Molière, che va in “pellegrinaggio” a Napoli, Siena e altrove.

Le centinaia di formule (anche di drammaturgia musicale) e parole riproposte incessantemente (spassetto, idolo mio, tigre ircana ecc.) possono essere brillantemente replicate da un’intelligenza artificiale e forse, dato il suo quasi illimitato potenziale, verrebbero fuori dei testi interessanti. Anche i ruoli quantificati potrebbero essere riprodotti: tot scene e arie alla prima donna, tot scene e arie in dialetto per il primo buffo napoletano e così via. Questo per il testo. Ma già pensando ai ruoli le cose si complicano per la “signora Chat GPT” (suona un po’ come la sig.ra Chauchat di Thomas Mann), perché implicano gli attori e non si limitano alle parti a loro destinate.

Infatti, se si guarda ai tanti dati nel Sartori,[5] spesso si trova l’avvertenza che le arie di un tal libretto presentato con nuova musica sono state adattate per l’occasione al cast e ai suoi ruoli, elemento che resta nel testo e conferisce al medesimo uno status unico di documento su molteplici livelli, status fornito dagli attori e dalle attrici e dai loro bauli, ma anche a volte legato a esigenze impresariali e ruolistiche. Inoltre, in libretti come ad esempio la Vennegna del 1747 di Pietro Trinchera (uno dei protagonisti di questo breve saggio) troviamo cancellature e nuove indicazioni per il primo buffo (da Nicola Pellegrino a Nicola Losi) scritte a margine della locandina librettistica, traccia dello spettacolo e della fluidità del cast poco prima della rappresentazione.

Nell’era dell’I.A. gli attori e le attrici sono dunque i salvatori del concetto di originalità umana del librettista e del testo? Forse sì visto che molto altro può essere (in teoria) replicato tecnologicamente e variato all’infinito lasciando poco all’umano “classico” (e infatti in America ci sono tesi di dottorato sul post-umano e all’Università di Utrecht danno un certificato internazionale specialistico in Glossario Postumano).[6] Goldoni diceva che, soprattutto nell’opera comica, il contributo degli attori-cantanti era fondamentale tanto che un cattivo libretto poteva essere salvato dalla buona recitazione e uno eccellente fatto cadere da un cast mediocre[7] e dunque la locandina librettistica non solo fornisce un dato, ma rappresenta anche l’evidenza oggettiva di una imprescindibile congiunzione e coniugazione tra autore, compositore e interprete di cui il libretto è documento.

Per tirare la somma di quanto detto finora, con il sostegno autorevole di Goldoni, si può dire che il libretto “tradizionale” diventa inimitabile tecnologicamente grazie al contributo del cast e grazie alla collaborazione “necessaria” tra poeta, compositore e interpreti. Anche le musiche erano notoriamente sottoposte ad adattamenti, arrangiamenti, ripetizioni di modelli et similia e teatri e teatrini fornivano un “paesaggio scenico” condiviso. Forse può sembrare che siamo lontani dalla vestaglia di Gioacchino Corrado, ma a mio avviso questa riflessione contemporanea andava espressa anche perché consente di vedere quali sono certe strutture necessarie. Stesso discorso per il teatro “di prosa” ma in grado sensibilmente minore rispetto a queste operine.

Il contesto napoletano, di cui mi occupo qui, era un bacino operistico chiuso dove si contendevano il mercato comico un certo numero di notai-librettisti,[8] a volte anche impresari, un certo numero di compositori e un certo numero di attori tra il teatro dei Fiorentini, il Nuovo e la Pace (e il San Bartolomeo per certi intermezzi importanti come la Serva padrona). Notevole spesso il ruolo del concerto e del concertatore-librettista o impresario-concertatore, di cui probabilmente tracce “consuntive” insieme alle “cifre” degli interpreti restano in filigrana nel testo per la performance.[9] La comicità, accompagnata da appropriata e codificata drammaturgia musicale, scaturiva dalla recitazione degli interpreti maggiori non di rado beniamini del pubblico trattati con rispetto, e nel caso di Corrado e altri anche membri della Cappella reale. Le intersezioni tra la commedia per musica napoletana con la coeva commedia dell’Arte sono state sottolineate fin dall’Ottocento e a volte le evidenziano in maniera stilizzata e canonica i poeti stessi nei loro libretti.[10]

Quello che qui s’intende sottolineare è piuttosto quanto del proprium dell’attore resta in alcuni testi. La prima didascalia della Serva padrona prescrive:

 

Uberto non interamente vestito e Vespone di lui servo, poi Serpina

 

Oltre al buffo in vestaglia con servo e servetta attorno, un’altra parola è il «cioccolatte» richiesto con insistenza durante la prima scena da Corrado/Uberto. Nella Simpatia del sangue (Napoli, Teatro Nuovo), melodramma comico di Trinchera di quattro anni (1737) successivo agli intermezzi di Pergolesi, il ruolo del protagonista buffo Don Petronio era interpretato da Corrado, non a caso proprio di Bologna. Accanto al protagonista la servetta, con cui Petronio dà vita a una scena nel secondo atto in cui Nina (Caterina de Gennaro) irretisce il padrone a scopo matrimoniale alludendo così alla trama ideata da Federico. Inoltre, il buffo è presentato mezzo svestito mentre si fa radere in veste da camera, e la vestizione frettolosa all’arrivo della giovane promessa sposa (I, 6) dà luogo a una scenetta comica. Anche Don Titta, altro primo buffo ma napoletano (Giovanni Romaniello, un interprete esperto per Saddumene e Tullio), viene presentato in vestaglia. Piccole tracce di un gusto proveniente dalla Serva padrona si riscontrano anche in battute evocanti usi alla moda come il citato cioccolatte.

Quindi, come spesso accadeva e accadrà, Corrado si porta dietro il personaggio di Pergolesi-Federico con cui evidentemente voleva identificarsi. D’altro canto, oltre alle vestaglie penso, secoli dopo e nel cinema, alle tende della drammaturgia “bertiniana”, per cui mia madre chiamava la divina «quella che prima o poi si attacca a una tenda». Corrado aveva, nell’entrare in scena mezzo svestito e in attesa del cioccolatte, una cifra desiderata che replica a fine carriera allontanandosi così dal buffo truffaldino e dai mille volti degli intermezzi Livietta e Tracollo (1734, libretto di Tommaso Mariani, musica di Giovan Battista Pergolesi). Il saggio e abile autore si mette al servizio dell’attore ma pure del proprio lavoro, che segue così la moda di un successo locale e l’appeal di una star come Corrado. Se le tende della Bertini rimangono sulla pellicola, le vestaglie e gli abiti da polacca o indovino di Corrado restano nei libretti di Federico, Mariani e Trinchera che diventano documenti di un immaginario, di un sistema drammaturgico e di un armamentario da “buffi” nel contesto teatrale della Napoli del Settecento. Purtroppo non sono sopravvissute le musiche della Simpatia del sangue, ma in questi casi contano i recitativi e il corpo dell’interprete sedimentati nel testo poetico (e in fondo erano commedie per musica con parti in toscano e il resto in dialetto) piuttosto che le arie o i duetti a fine scena, anche se spesso quelli erano tra i momenti più graditi (e forse riproducibili e cantabili, come “ariette/canzonette”).

Dunque il libretto di queste operine diventa documento non solo di una replica letteraria di modelli drammaturgici di successo ma anche di usi drammaturgico-attoriali dell’interprete. Un libretto-documento sia esplicito nei suoi dati testuali e para-testuali, sia implicito per ciò che concerne prassi e costumi performativi dei buffi o provenienti da varie tradizioni poi cristallizzatesi. Il problema dunque non è tanto prima la musica e poi le parole (o viceversa), quanto prima l’attore e poi il testo (o viceversa), problema che si protrarrà per anni. Si devono eleggere, tuttavia, poeti che lavoravano a stretto contatto con i loro interpreti. Oltre al citato Gennarantonio Federico, in ambito partenopeo devo menzionare almeno Francesco Antonio Tullio, il cosiddetto padre della commedia per musica napoletana, “don” Bernardo Saddumene-Bermudes, il “mio” povero Trinchera, Tommaso Mariani (forse romano) e Antonio Palomba (apprezzato concertatore e notaio) e ovviamente altri, ma non molti. A questi autori si affiancava una serie di interpreti buffi: Laura Monti, Marianna Monti, Simone de Falco (specializzato nel ruolo locale di vecchia), Giuseppe Casaccia, Antonio Catalano, i fratelli D’Ambrosio (uno capitano, l’altro vecchia), Nicola Losi, Nicola Pellegrino (in tournée a Siena nel 1754 dove recita insieme alle sorelle Lepri come seconde donne),[11] Domenico De Amicis (non napoletano), Girolamo Piano (basso e pure lui nella cappella reale e a volte in coppia col Corrado) e molti altri, a volte “monumentalizzati” nelle locandine librettistiche coi loro “titoli” e protettori. Gli interpreti appena elencati hanno lavorato anche con il citato Pietro Trinchera, notaio e drammaturgo morto in carcere a Napoli nel 1755 e molto attivo nel periodo di formazione del canone comico locale precedente l’ipertrofia produttiva (con altrettante ipertrofiche addizioni ruolistiche) del secondo Settecento, dovuta anche all’apertura del teatro del Fondo di Separazione nel 1779 che s’inseriva tra i teatri del competitivo circuito commerciale di Napoli.

Tra gli interpreti del ruolo di vecchia più interessanti c’erano senza dubbio Simone De Falco, chiamato con rispetto Don Simone, e Carmene D’Ambruosio.

Nei libretti restano i loro ammiccamenti al pubblico (precipitato di un qualche lazzo) in battute che svelano e giocano con la natura maschile dei ruoli di vecchia. È il caso de Lo Corrivo (1736, Napoli, Teatro della Pace, libretto di P. Trinchera, musica di Giovan Gualberto Brunetti «celebre Masto de Cappella»). Il Capitano (l’altro D’Ambrosio, Giacomo), che alla fine deve rassegnarsi a sposare Pordenza, mentre accetta la mano della vecchia megera dice che è unghiuta e punge:

 

   PORDENZA Te piglia.
   CAPITANO Comme pogne, che si gatta!
   PORDENZA Non stregnere fa chiano
   CAPITANO Atta de craje comme si dellecata. 
   (Lo Corrivo, III, scena ultima)

 

Lo scambio, oltre al “sottinteso” sul sesso dell’interprete nel ruolo di vecchia, cioè l’artiglio di Pordenza/Carmene D’Ambrosio, permette ai due attori libertà di azione comica legata al gesto, all’espressione vocale, alla strizzata d’occhio rivolta al pubblico (ed erano pure fratelli e mi fanno pensare ai Giuffrè). Il micro-lazzo è una cellula emblematica del legame fra scrittura, attore e pubblico presente nella drammaturgia buffa e di come certi gesti (forse già parte di una cifra comica dell’attore) siano rimasti imprigionati in queste operine.

Sempre di Trinchera, La Rosa (1738, Napoli, Teatro Nuovo, ignoto il compositore), mostra “Don” Simone De Falco interagire come vecchia con la figlia della finzione, che riceve delle congratulazioni materne. De Falco abbraccia la figlia e la “stringe” tanto forte che lei se ne lamenta. Anche in questo caso l’autore dà modo all’interprete di ammiccare al pubblico: De Falco/Palomma abbraccia Rosa (Antonia Spina) e col gesto sedimentato nella battuta Don Simone poteva ben strizzare insieme all’attrice anche l’occhio al pubblico che ben sapeva che era un uomo che abbracciava la (forse bella e giovane) prima donna:

 

PALOMMA Figlia, ca tu nne miette ammore nfaccia, / Saputa mia te viena, e mamma abbraccia.
ROSA Non mme stregne accossì, ca mme faje male.
PALOMMA Quanto quanto sì cara figlia bella, / Te sientete chess’auta lezzioncella [segue aria] (La Rosa, I, 9).

 

Dai tempi della pazzia d’Isabella, le scene di follia offrivano, come nell’archetipo andreiniano, la possibilità di sfoggiare doti performative e costumi. E molte pazzie si vedono nell’opera comica napoletana. Desidero citarne una interessante e “multi-ruolistica”: La Donna di tutti i caratteri (1762, Napoli, Teatro Fiorentini, musica di Pietro Guglielmi). Qui l’autore, il citato notaio-librettista-concertatore Antonio Palomba, offre a Marianna Monti (prima buffa) la possibilità di presentarsi con vari “abiti drammaturgici” e dunque virtuosistici (inclusa la follia simulata) e il libretto diventa un piccolo documento di questo procedere ma anche un piccolo monumento all’arte dell’interprete e del librettista che si inserisce così in una lunga tradizione comica.

Anche Corrado, sempre con Trinchera, nel Barone di Zampano (sempre a Napoli e al Teatro Nuovo, venue di fine carriera del grande buffo bolognese) si produce in una scena di pazzia in questo caso con ironia sulle prime donne. Corrado era in coppia coll’altro buffo famoso, il citato Girolamo Piano. Una scenetta deliziosa e totalmente “corradiana” e “trincheriana” (III, 2):

 

D. TROIANO
Ma venga qui a cantare / La virtuosa mia.

CHIARELLA
Quale? D. TROIANO Colei.

CHIARELLA
La quaglia?

BETTINA
O' bella vertuosa? D.Tro. Lei / La facci qui calare, o qui t’ammazzo!

CHIARELLA
Ente fremma nce vo, co chisto pazzo!

D. TROIANO In elamì sonate, e pizzicando.

NOTA’ MARIO
Questo mi va pian piano infracitando

D. TROIANO
  Pipistrello innamorato
  Tramontato è ’l mio bel sole....
  O che vento! o che tempesta!
  Salta tutta la foresta,
  E dal monte col battello
  Gia precipita il Nocchier.   Chiarella vien fuori con la quaglia dentro al panaro.

CHIARELLA
Veccove ccà la vertovosa vosta.

D. TROIANO
Cara la signorina
Virtuosa di camera, e cucina
Hò risoluto già questa mattina,
Mandarti a Roma, là tu che sei fina,
E insieme vistosina
Uh ne farai più assai di Massilina [sic].
Senti intanto, o bellina,
Una mia bella, e brava lezioncina.
  Raccoglieva il Dio d'amore...
  (Senti bene) le viole...
  (Odi il trillo.) E la sua fronte
  Coronare ne voleva...
  Se ci fai qualche passaggio,
  Più di musico di maggio
  Ti farai un grande onore,
  Te n'accerta il Cavalier.
[ecc.]

 

Nel caso di altri libretti, invece, si trovano quasi dei lazzi esplicitati. Ne Le Mbroglie p’ammore (1736, Napoli, Teatro della Pace, libretto di P. Trinchera, musica di E. Carasale «Pisano») il personaggio dell’attempato notaio Scatozza, interpretato da Nicola De Simone, da bravo discendente dell’Arte si prende legnate, s’innamora di una giovane e nell’ultimo atto il malcapitato finisce seminudo in palcoscenico in una scena comica che richiede un’abilità non indifferente e un attento studio dei tempi in fase di concerto se si vuol far ridere. Il personaggio getta i vestiti sui quali Ascanio e Giesummina dicono di vedere un lucertolone. Figuriamoci il povero notaio che crede di sentire («poter di suggestione» dice a parte Giesummina) la bestiola che «Pe ddereto a li rine saglie, e scenne» (Le Mbroglie p’ammore, III, 4). Rimasto mezzo nudo, perché i suoi vestiti se li sono presi gli altri due e un terzo personaggio (Turzo, «monnezzaro»), il malcapitato notaio canta la sua aria buffa. Si può definire la scenetta come Il lazzo della lucertola oppure Il lazzo del notaio svestito. Comportamento scenico per altro stigmatizzato da Perrucci.[12]

Anche nel Don Pasquino del medesimo autore possiamo individuare delle scene che ci consentono di apprezzare veri e proprî lazzi. Nicola Pellegrino, buffo caricato specializzato in vecchi sordi e di corta vista, si produce in un’elaborata scenetta in coppia con il servo Luccio (parte en travesti interpretata da Teresa Passaglione, detta, con un po’ di disprezzo a volte, la Carasale) che, per consentire al vecchio Don Pasquino, cecato e sordo, di dialogare con la sua amata al balcone (la vecchia Fravostina interpretata da Carmine D’Ambrosio), dà segnali con un fazzoletto al povero vecchio. Ovvio, a mio avviso, che la scenetta non solo sia stata prima ben concertata ma che era la cifra comica di Pellegrino. In altre parole, senza “capire” la carriera di certi interpreti di questi libretti, poco si capisce del libretto stesso e del suo contesto teatrale e pure sociale. Per cui recenti strumenti come database sugli attori e le attrici insieme ai consolidati e ancora imprescindibili strumenti a stampa come il benemerito Sartori risultano utili alla semantica drammaturgica del testo e dunque allo storico del teatro e dell’opera.

Mi chiedo: la parata di vestaglie di Uberto-Petronio-Corrado ci metterà al riparo da una standardizzazione riproduttiva e tecnologica dei testi (caratteristica tipica, per altro, di molti generi teatrali settecenteschi) per mano dell’Intelligenza Artificiale che potrebbe creare innumerevoli falsi? E il falso libretto potrà aiutarci a individuare l’essenza umana e originalmente creativa di quello vero? Essendo appena agli inizi di un fenomeno enorme, è difficile a dirsi. Ma in fondo certe operine seriali settecentesche si possono paragonare a certa serialità dei B-Movies del cinema italiano (dagli spaghetti alle “polpette poliziesche”, e illuminante in questo senso fu una lecture di Mario Garriba di anni fa per il Dottorato in Storia dello spettacolo e del teatro dell’Università di Firenze) e oggi delle tv series algoritmiche Netflix, algoritmo menzionato comicamente anche nella produzione “metatelevisiva” italiana Boris.

Restando a Napoli e su autori e attori penso alle soap opera contemporanee e dunque che ne sarà dei “librettisti” di un Posto al sole ai tempi di Chat GPT? In quel caso (già sentito dagli scioperanti di Hollywood di queste settimane), temo, però, che il problema sia più che altro “geriatrico” con pretese di eternità tipiche del genere. Tuttavia, anche la stagionatura dell’attore, come l’ultimo Indiana Jones dimostra (e prima di quello uno dei nuovi capitoli di Guerre Stellari), è un problema che può essere risolto tecnologicamente. Come ultima frontiera che possa sbalzare la presenza umana, e cioè il teatro, immagino la riproduzione sul palcoscenico di ologrammi di attori che recitano testi creati dall’I.A. E anche questo un poco lo si vede già nel casinò dell’ultimo Blade Runner. Tra non molto proporranno il teatro come diorama 5.0 (si fa già con le arti visive che aggiornano tecnologicamente un’idea e un modello ottocenteschi).

Dunque i libretti del fondo Bonamici della Marucelliana, quelli di molte altre biblioteche, le migliaia di dati del Sartori o dei più moderni OPAC saranno i documenti di un procedere in parte assemblativo e fondativo di maniere drammaturgiche, artistiche ma anche seriali (seppur ancora umane) che poi si evolvono ed evolveranno dando origine a una miriade di variazioni, teoricamente adatte alla nuova I.A. L’attore, l’attrice, il cast, messo insieme secondo la tirannia dei ruoli e spesso anche secondo le provenienze geografiche degli interpreti (e le loro relative scuole e località d’origine controllata), fissati nella locandina librettistica, risultano il contributo non replicabile ma necessario e indispensabile di queste operine e il libretto con testo e paratesto (e correzioni dell’ultim’ora) ci lascia a volte suggestivamente intravedere la performance, il costume e financo il gesto di un interprete di tre secoli fa, illuminando così le origini di certi stili degli attori napoletani di tradizione del XX secolo ma… del lazzo del caffè, del caffettuajuolo grieco, di Totò e Peppino ne parlerò un’altra volta.



[1]  Si veda, pars pro toto, F. PIPERNO, Gli interpreti buffi di Pergolesi. Note sulla diffusione de “La serva padrona”, in «Studi Pergolesiani/Pergolesi Studies», I, 1986, pp. 166-177.

[2]  Il convegno su Pergolesi si è svolto alla Georgetown University, co-organizzato dall’Ambasciata d’Italia a Washington D.C. e dall’Istituto Italiano di Cultura di Washington D.C., il 4 novembre 2011. Il titolo di questo breve saggio è ripreso dal mio intervento (qui riprodotto, rivisto e integrato) al convegno «Ridurre li drammi all’esigenza». I libretti, fonti per il modello performativo dell’opera in musica (XVII-XVIII sec.), Università di Firenze, Biblioteca Marucelliana di Firenze, 6 giugno 2023.

[3]  Si veda, anche in questo caso pars pro toto, S. FERRONE, Attori mercanti corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento (1995), Torino, Einaudi, 20112.

[4]  Si vedano per Metastasio e i suoi drammi per musica: https://www.progettometastasio.it/public/ (progetto di Anna Laura Bellina e Luigi Tessarolo); per Goldoni e i suoi drammi giocosi: https://www.carlogoldoni.it/public/ (progetto di Anna Laura Bellina e Luigi Tessarolo).

[5]  C. SARTORI, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800: catalogo analitico con 16 indici, Cuneo, Bertela & Locatelli, 1990-1994, 7 voll.

[6]  Sui glossari post-umani si vedano Posthuman Glossary, a cura di R. BRAIDOTTI e M. HLAVAJOVÁ, London, Bloomsbury Academic, 2021, e More Posthuman Glossary, a cura di R. BRAIDOTTI, E. JONES e G. KLUMBYTĖ, London, Bloomsbury Academic, 2023. “Distinguished University Professor Emerita” in Filosofia all’Università di Utrecht, Rosi Braidotti è autrice del “classico” The Posthuman (2013), Cambridge, Polity, 2021.

[7]  «Et dans l’Opéra-Comique principalement, j’ai vu la bonne exécution souvenir souvent des ouvrages médiocres, et très rarement réussir les bons ouvrages mal exécutés» (C. GOLDONI, Mémoires, in ID., Tutte le opere, a cura di G. ORTOLANI, Milano, Mondadori, 1943, vol. I, p. 378).

[8]  Per i notai napoletani come inventori della commedia per musica in dialetto cfr. E. BATTISTI, Per un’indagine sociologica dei librettisti napoletani buffi, in «Letteratura», VII, 1960, pp. 114-164.

[9]  Si veda, ad esempio, Il Concerto (1746, Napoli, Teatro Nuovo, libretto di Pietro Trinchera, musica di Gaetano Latilla), in cui si rappresentano comicamente le prove di un’opera (seria). Perrucci parla di Corago «cioè da quello che guida, concerta ed ammaestra i Rappresentanti, essendovi bisogno di un buon Palinuro, per far giungere la barca in porto, e per dir la verità questa materia ha da governarsi a guisa di Monarchia, e non di Repubblica, dove tutti sono soggetti a un Capo, e puntualmente l’obbediscono, non trasgredendone i precetti» (A. PERRUCCI, Dell’arte rappresentativa premeditata ed all’improvviso [1699], Firenze, Sansoni, 1961, p. 143).

[10]  Cfr. G. CICALI, L’Arte stilizzata: intersezioni teatrali di genere nel Settecento napoletano, in «Commedia dell’arte. Studi storici», 3, 2021, pp. 47-71.

[11]  Cfr. G. CICALI, Attori e ruoli nell’opera buffa italiana del Settecento, Firenze, Le Lettere, 2005, pp. 116 ss., 273-295 (per il testo de La Finta sposa). Pellegrino si esibì a Siena in questo libretto (non presente nel catalogo Sartori, e conservato alla biblioteca Comunale di Siena, Miscellanea Senese H.21.n.1) rimaneggiato e di lunga tradizione (dalla Finta cameriera in poi) con una compagnia “mescidata” geograficamente ma orientata verso l’esportazione di elementi della commedia per musica napoletana, specialmente attraverso i suoi interpreti. Infatti a Pellegrino si aggiungeva Anna De Amicis come prima buffa (ma non con il padre, Domenico, in questa occasione senese), e la dicitura che la musica era un pastiche «di famosi Maestri di Cappella Napolitani».

[12]  «Non si veggan però mai ignudi, né semignudi, né huomini, né donne, esendo contro le leggi dell’onestà» (A. PERRUCCI, Dell’arte, cit., p. 81; è la parte del trattato «Delle Vesti concernenti alla Tragedia, Comedia, Satira, &c.»). Trinchera, e con lui l’attore e il pubblico della Pace, pare non curarsi molto di questa moralistica raccomandazione, segno che la “censura” invocata dal trattatista riguardava un tipo di lazzo diffuso e gradito dagli spettatori.




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