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Elena Oliva

Regioni e ragioni dell’operetta italiana postunitaria

Data di pubblicazione su web 24/11/2022
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Le origini dell’operetta italiana sono strettamente legate alla Francia. L’arrivo massiccio dei lavori di Offenbach, Hervé e Lecocq sulle scene dei teatri italiani negli anni Sessanta dell’Ottocento condizionarono lo sviluppo della produzione autoctona almeno fino alla fine del secolo.[1] Le realtà maggiormente interessate da tale fenomeno furono inizialmente le grandi città, con a capo i due importanti centri di produzione di Milano e Napoli. Due poli contrapposti geograficamente e culturalmente che rispecchiavano l’andamento di un Paese che già allora si muoveva a due velocità distinte. 

Da un lato Milano, città simbolo della modernità e dello sviluppo ecomico che, negli anni successivi all’Unificazione, rivendicava con orgoglio il ruolo di ‘capitale morale’ d’Italia in contrasto all’inadeguatezza della macchina statale.[2] Dall’altro Napoli che sempre in quegli anni visse un periodo di forte declino sociale ed economico in mezzo all’indifferenza dei governanti, che ebbe il suo culmine con l’epidemia di colera del 1884.[3] 

Al di là delle evidenti criticità che caratterizzarono il contesto sociale napoletano, sensibilmente diverso quindi da quello milanese, per ciò che riguarda lo sviluppo del fenomeno operetta si rintracciano numerosi punti di contatto. Primo fra tutti è che in entrambi i casi l’operetta fiorisce inizialmente nell’alveo del teatro dialettale. Ma se nel caso di Napoli era tutto sommato prevedibile, vista la perdurante vitalità della tradizione comica in lingua napoletana a livello locale e nazionale, meno scontata lo era nel caso di Milano che, all’indomani dell’Unità, si trovava quasi del tutta sprovvista di una scena dialettale. 

Lo stimolo giunse dall’enorme successo che le operette di Offenbach ottennero in numerose realtà italiane da Nord a Sud a partire dal 1866 quando la compagnia francese dei fratelli Grégoire giunse in Italia.[4]  Les Soirées Parisiennes, così si chiamava il teatrino di legno che la compagnia installava in varie piazze del Paese, rappresentò uno dei primi spazi dell’intrattenimento di massa dell’Italia Unita, perché fungeva da anello di congiunzione tra diverse sfere sociali. Per comprendere la frenesia mondana che il teatro dei Grégoire suscitò nel pubblico italiano basterebbe prendere in considerazione la rivista 1868 sguardo politico-artistico-sociale di Antonio De Lerma con musiche di Michele Ruta, andata in scena nel gennaio 1869 al Teatro del Fondo di Napoli. Nel quarto quadro della rivista, ambientato in una piazza di Napoli dove sono presenti le quattro facciate dei principali teatri di Napoli, troviamo diversi personaggi allegorici, tra questi la Critica, il Poeta, il 1868, il Vecchio Giuseppe (alias Giuseppe Verdi), una Donna, il Marito, la Belle Hélèna. I personaggi nel commentare il clamoroso insuccesso della Jone di Enrico Petrella al Teatro S. Carlo osservano con sentimenti differenti, che vanno dallo stupore al disappunto, il favorevole riscontro che il «baraccone» dei Grégoire otteneva presso il pubblico napoletano: 

Vecchio Giuseppe: Godo che il mio amico sia diventato Impresario, ma bisogna convenire che la vera musica è questa (mostra il baraccone).

Critica: Eh!... Eh!... infatti se questo Teatro è sempre affollato, bisogna convenire che la prima musica dell’universo è questa, e quel Baraccone il Teatro più importante di Napoli.

Belle Hélèna: (esce dal teatro Gregoire, e canta in francese, indi dice): Entrez messieurs, ne vous arrétez pas aux bagatelles de la porte et aux affiches. Entrez, si vous voulez vraiment rire et gouter de la gaie musique […]. Oui, messieurs, notre musique part du coeur, est celle du peuple […].

Voci di dentro, poi il Vecchio Giuseppe: Viva la Bella Helena (Critica ride).

Poeta: È vero che la Francia in tutto oggi si mischia. Ma se v’è chi l’applaude, v’è pure chi la fischia.

Critica: Produzioni francesi dovunque! In nome della lega pacifica, protesto contro tutto ciò che sa di francese.

Vecchio Giuseppe: Sì. Sì parlate, e protestate pure, mentre la Bella Elena…

[…]

1868: Poeta mio carissimo, i fatti parlano chiaro. O la musica è bella, o il pubblico è somaro.

Donna entra seguita da marito, e da due giovanotti, comparse.

Vecchio Giuseppe (le si fa incontro, e dà braccio): Solo io ò potuto ottenere questo biglietto con la folla che vi è.

Donna: Lo credo (fanno scena fra loro).

Critica: (fra sé) Se tutto il pubblico è formato da tali tipi le mie forbici serviranno poco.

[…]

Donna: Ninno!... (con sostenutezza) (si ode la campana de’ Gregoire) Su via giovanotti, il tempio sacrato alla buona società dischiude le sue porte. Questo baraccone ci ricorda i boulevards, i boulevards Parigi, è Parigi il centro di quanto vi è più di elegante.[5] 

L’imponente afflusso al baraccone dei Grégoire, che tanto preoccupa la critica musicale italiana, indica una tendenza che riguardò numerosi altri centri dell’Italia Unita: la configurazione di una nuova geografia sociale dei teatri, legata al bisogno sempre più generalizzato di divertimento da parte del pubblico. Esigenza questa che nella rivista di De Lerma viene stigmatizzata dalla critica, ma sostenuta invece dal “vecchio” Giuseppe Verdi che, oltre ad essere stato un assiduo frequentatore dei teatri boulevardier di Parigi, in quanto massimo esponente della musica italiana, è da intendere qui come il garante della moralità pubblica; il che equivaleva a dire: se ci va lui, ci possiamo andare tutti. Sebbene Verdi non abbia mai espresso esplicitamente simpatie nei confronti dell’operetta e né tanto meno ci risulta abbia presenziato alle rappresentazioni dei fratelli Grégoire, il ricorso alla figura del compositore in questa rivista si spiega con quel desiderio di riconoscimento che il teatro popolare italiano andava cercando da molto tempo. 

La permanenza dei Grégoire in Italia, che durò all’incirca dieci anni, ebbe dunque l’effetto di rinvigorire un settore, quello del teatro dialettale, che soprattutto al Nord sembrava essersi inaridito. Milano è l’esempio più emblematico di questa tendenza. All’indomani delle rappresentazioni dei Grégoire, avvenute nel maggio del 1866 ai giardini di Porta Venezia, una schiera di giovani compositori per lo più legati all’ambiente della Scapigliatura si cimentò nella produzione di operette, riviste e vaudeville in stile offenbachiano.[6] Tra questi oltre ai più conosciuti Carlos Gomes e Costantino Dall’Argine, i quali composero le musiche rispettivamente per Se sa minga (1866)[7] e Il diavolo zoppo (1867) – primi esempi di teatro di rivista in Italia –, tra i più prolifici vi furono Cesare Casiraghi e Angelo Pettenghi, i quali insieme a Cletto Arrighi, diedero impulso alla rinascita del teatro dialettale milanese. Fu infatti con il vaudeville El barchett de Boffalora, riadattamento della Cagnotte di Eugène Labiche, che nel 1870 Cletto Arrighi inaugurò il Teatro Milanese.[8] 

La sala ubicata nei pressi della nuova Galleria Vittorio Emanuele rappresentò per la città, insieme al Teatro Fossati, uno dei templi del varietà milanese fin oltre la fine del secolo. Il progetto di Arrighi, illustrato da lui stesso nello scritto Teatro Milanese. Rendiconto morale, letterario e amministrativo, rivela sin da subito una forte connotazione politica. Il recupero del dialetto e l’utilizzo di generi appartenenti al teatro musicale leggero francese rappresentano, infatti, una reazione alla retorica del “fare gli italiani” che caratterizzò il dibattito pubblico negli anni successivi all’Unificazione. Pertanto nella tanto decantata potenza unificatrice della lingua italiana, Arrighi intravede il pericolo di un livellamento e di perdita delle identità locali: 

La lingua infatti che si adopera dagli scrittori italiani non essendo lingua parlata è priva di quel colore, di quel sapore di quella verità vera, che sono gli attributi del dialetto che è il linguaggio parlato. E questo appare manifesto quando si pensi, come dissi più sopra, che nella maggior parte delle commedie scritte in lingua italiana gli autori sono condannati a non designare mai il luogo dell’azione con grandissimo discapito dell’effetto e del color locale; giacché la vita di Torino non è uguale certo alla vita di vita di Palermo, e quella di Venezia è tutt’altra cosa della vita che si mena a Napoli.[9] 

Anche il ricorso a una programmazione diversificata, che arrivi a comprendere generi teatrali non italiani, è da intendere come un gesto di resistenza nei confronti delle forti spinte omologanti: 

Altre censure e di altro genere ci vennero dal di fuori. Il giornale la Nazione di Firenze scrisse queste cose del nostro teatro: «I drammi e le commedie del Teatro Milanese appartengono sempre alla scuola francese e non hanno nulla che li distingua dai lavori teatrali del teatro moderno […]».

Cosa vuol dire non intendersene e voler cinguettare in casa altrui!

[…] bisogna non intendersene affatto per non aver veduto nelle commedie del repertorio milanese spiccati ed evidenti i contorni originali della vita speciale a Milano. Il nostro Pompier è tutt’altro del pompiere francese – il nostro Barabba è tutt’altro del Gamin parigino – il nostro Spazzabaslott i Parigini non l’hanno […].

Perché si vorrebbe limitarci ad un genere solo, se il bello è anzi di mostrare noi siamo capaci di metter in iscena e di gustare tutti i generi, compreso il francese.[10] 

La capacità di mettere in scena tutti i generi, compreso quello francese, è un modo per Arrighi di dimostrare che è possibile trovare un fondo comune senza disperdere le differenze. Insomma preservare la rete di particolarità di cui è fatta l’Italia è l’unico destino che possa darsi un Paese davvero unito. Tale intento traspare chiaramente nell’operetta-vaudeville On milanes in mar, andata in scena per la prima volta il 26 settembre 1871 al Teatro Milanese.[11] Nella pièce, con musiche di Angelo Pettenghi e parole di Arrighi, troviamo come protagonisti un milanese e un francese che affrontano un viaggio in mare verso la Sardegna con a seguito un gruppo di marinai di varia provenienza, tra cui un napoletano, un genovese e un veneziano. La particolarità di questa operetta risiede nell’intreccio linguistico che si viene a creare tra i vari personaggi: ognuno infatti si esprime nel proprio dialetto-lingua, ma tutti si comprendono facilmente tra loro. 

Il soggetto è un riadattamento della pochade francese Le mal de mer di Lavassor (1855), dove i personaggi sono invece due: un distinto signore inglese (Sir James) che, per dissimulare la sua insofferenza verso il mare, si finge esperto nell’arte della navigazione e un marinaio francese che lo asseconda. L’intento di Arrighi rispetto al modello francese non consiste tanto nella ridicolizzazione dello straniero, lo spaccone Monsieur Choufané, ma piuttosto nel creare uno spazio grottesco di singolarità resistenti. Pertanto il viaggio diventa il luogo delle confessioni-dichiarazioni di ‘nazionalità’: ogni personaggio si svela e si racconta, soprattutto nei numeri cantati. Infatti nella prima versione dell’operetta-vaudeville, il marinaio veneziano canterà una barcarola (“L’onda è tranquilla sereno il cielo”), quello genovese un notturno (“Di Balilla sulle sponde”), quello napoletano una tarantella (“Songo nato povaretto”) e poi tutti in coro la Canzone del Fernet Branca (“Viva la patria di Meneghino”), il celebre liquore lombardo con il quale il milanese si risparmia il mal di mare. Ogni canzone è dunque connotativa di un’appartenenza, di una città, di un “campanile”. Per usare un’espressione di Paul Gilroy si potrebbe dire che la nave di Arrighi «è un sistema vivo micropolitico e microculturale in movimento».[12] 

La Tarantella napoletana, l’unico brano non composto da Pettenghi, ma preesistente e ben conosciuto al Sud Italia con il titolo di Tarantella di Pompei,[13] proprio per il suo essere la più ‘autentica’, assume un rilievo paradigmatico, in quanto perno di tutte le singolarità. Ciò si evince anche dal fatto che la canzone, nonostante rappresenti il classico cliché del povero straccione affamato, viene intonata dal marinaio napoletano in risposta alla spavalderia del francese. Quest’ultimo, infatti, dopo aver cantato un’aria in pseudonapoletano (“Io songo mica di chisso convento”), si era autoproclamato il vero inventore della canzone partenopea: 

Cho. Sapete, Capitano, che codeste cantate napoletane le ho introdotte io per prima volta in Napoli?

Nap. Il chiaccherone! Gnor Cappetano, mo ce date la premissione?

Cap. Cossa scià voeu?

Nap. I’aggio a cantà veramente Napoletano. Molanese, reggi a mazza. Cappetano, mo’ canto i maccheroni.

Songo nato povaretto
Senza casa e senza tetto
Venderei li miei calzoni
Per un piatto di macaroni.
Aggio visto d’un tenente
Che cambiava con sergente
Le spalline col galloni
Per un piatto di macaroni.
Cicirinella teneva uno gallo
Tutto lo jorno ne stava cavallo
Era un gallo senza sella
Chillo è lu gallo di Cicirinella.[14]

On milanese in mar dopo il successo sulle scene milanesi farà il giro dei piccoli e grandi centri della Penisola fino alla fine del secolo. A renderla ancor più popolare sarà l’inserzione nel 1875 del duetto E benedetta màmmata! composto dall’editore napoletano Teodoro Cottrau e conosciuto anche con il titolo di Na cammisella.[15]

Con E benedetta màmmata! viene introdotto nel lavoro di Arrighi uno dei tratti tipici dell’operetta di derivazione francese, ossia l’esposizione enfatica del corpo femminile, ma al contempo si instaura quel rapporto di interscambio con l’industria della canzone napoletana che sarà di vitale importanza per l’operetta italiana negli anni a venire. Il brano inscena un dialogo tra due giovani sposi, Ciccio e Ceccia, in cui il marito invita la moglie, la quale finge ritrosia, a togliersi gli indumenti (figg. 1-2). Il duetto fu scritto appositamente per i due attori-cantanti della compagnia del Teatro Milanese, Gaetano Sbodio e Emma Ivon. La gestualità studiata con cui Ivon, vestita da marinaio, si spogliava in scena – sfilandosi dapprima la blusa, sciogliendo poi le trecce dei suoi capelli e i lacci del suo corpetto, senza mai mostrare il corpo integralmente nudo – diventa un potente dispositivo scenico, quasi cinematografico: attraverso un attento gioco di occultamenti e svelamenti lo sguardo dello spettatore viene incanalato su determinati punti del corpo. Questa visione “dal buco della serratura”, che sarà tipica del cinema delle origini, si insedia nell’operetta italiana grazie ad Emma Ivon, che anche per questo divenne una delle figure più iconiche e discusse del panorama spettacolare ottocentesco.[16] Il duetto, che rimarrà un caposaldo del teatro di varietà italiano fin oltre la metà del Novecento, verrà in seguito ripreso nel popolarissimo film Siamo uomini o caporali? (1955), diretto da Camillo Mastrocinque, con interpreti Totò e Fiorella Mari. 

Oltre On milanes in mar tra le altre produzioni del Teatro Milanese va segnalata la Statua del sur Incioda che, per i diversi riadattamenti dialettali realizzati in alcune aree del Nord del Paese (Piemonte, Veneto ed Emila Romagna), costituisce una sorta di ‘enciclopedia tribale’ dell’Italia municipale. La pièce è ambientata nel fantomatico paese di Vattalappesca. Qui abita Gioacchino Finocchi, il quale, oltre a essere sindaco, possiede un’osteria, nella quale lavora l’apprezzatissimo cuoco Paolo Incioda. Tutta la vicenda ruota intorno alla presunta morte di Incioda e sulla decisione del sindaco di erigergli una statua; statua che lo scultore Topiatti non riesce a realizzare in tempo e che verrà dunque sostituita al momento dell’inaugurazione dal Sur Incioda in persona. Quest’ultimo, infatti, che nel frattempo era tornato nel paese, si presta a far da spalla all’artista, ingannando così il sindaco e il resto della cittadinanza.

Rappresenta per la prima volta il 23 luglio del 1873 al Teatro Balbo di Torino, l’operetta-vaudeville, su libretto di Paolo Ferrari e con musiche di Cesare Casiraghi, oltre ad essere una satira sulla dilagante «monumentomania» che attraversava l’Italia postunitaria,[17] è innanzitutto una riflessione sui mutati rapporti tra centro e periferia, tra città e paesi. La piccola comunità non è qui vista come dimensione dell’autentico, come luogo di memoria e nostalgia, ma viene sbeffeggiata per il suo volersi modellare a tutti i costi alla città. È soprattutto il sindaco ad essere preso di mira: la sua ossessione per Milano, la grande città – che vede allo stesso tempo come concorrente con cui rivaleggiare e la fonte alla quale ispirarsi –, unita al suo essere un fanfarone millantatore fanno di lui una figura farsesca, quasi archetipica. Ciò si evince anche dagli altri riadattamenti dell’operetta-vaudeville, per cui in area Veneta a partire dal 1877 circolerà una versione intitolata La Statua di Paolo Incioda ovvero Gioachino Cacai Sindaco de Torselo. Lo stesso avvenne a Bologna dove nel 1876 Luigi Gaibi propose al pubblico del Teatro del Corso una trilogia di commedie con musica basate sullo stesso soggetto (La statua del Sgner Incioda, Ai matrimoni del Sgner Incioda, La mort del Sgner Incioda), e ambientate nel paese di Scaricalasino.

Il discorso sulla Nazione è quello che maggiormente investe queste prime forme proto-operettistiche, facendo irrompere l’attualità sulla scene italiane. Le contraddizioni sociali, amministrative e culturali del neo Stato unitario non vengono avvertite solo nel Nord del Paese, ma anche nel Meridione. Un esempio emblematico, sebbene antecedente a quelli sin qui mostrati, è quello di Na Bella Elena imbastarduta infra la lingua franzesa, napoletana e toscana, commedia-parodia con musica, scritta da Antonio Petito e rappresentata al Teatro San Carlino di Napoli per tutto il 1868.[18] 

Anche in questo caso l’azione si svolge in un piccolo centro, Boscotrecase, un paesino dell’entroterra napoletano, dove il sindaco Don Sempronio per farsi bello con i suoi concittadini tenta di ingaggiare la celebre compagnia Grégoire che in quel momento riscuoteva successo a Napoli. Sarà invece una sgangherata troupe campana, che si spaccerà per quella francese, a esibirsi in una versione napoletana della Belle Hélène, traendo così in inganno il sindaco.

L’aspetto fondamentale di questo lavoro non risiede solo nel secondo grado di teatralizzazione cui La belle Héléne viene sottoposta, divenendo oltretutto una parodia di una parodia, quanto nella compresenza dei tre livelli linguistici francese-toscano-napoletano. Un intreccio analogo a quello che abbiamo visto in On milanes in mar, cui si affianca la critica all’approccio omologante dello Stato nel gestire il rapporto tra centro e periferia: anche qui Don Sempronio ha la stesse smanie cosmopolite del sindaco di Vattelappesca; anche qui interagiscono più livelli identitari (locale, nazionale, transnazionale) riflettendo una tendenza, che, come spiega Axel Körner, riguardò numerose città italiane negli anni successivi l’Unificazione:   

Cultural policy on the municipal level entails representing the urban self through images such as these, images used by the municipal administration to communicate an idea of the city to its citizens, to the nation, and beyond.

As the examples of Parma and Bologna illustrate, policies of cultural self-representation offer choice, in this case the choice between traditional and modern images, between national pride and cosmopolitan ambition. In opting for one policy rather than another, municipal administrators and political representatives make a statement about the city, but they also relate the city to the nation and the wider world. Thus, the cities’ cultural representation speaks a local language as well as national and transnational language. This last point is particularly important when referring to Italy, a country often associated with the combination of an underdeveloped political culture and aggressive nationalism which paved the way for Fascism. However, when examining Italian identity, not only do we have to take account of regional diversity and strong municipal traditions, but also we should appreciate that Italian culture engages closely with wider European experiences.[19]

Questa compresenza di localismo, nazionalismo e cosmopolitismo che investe il panorama operettistico degli inizi vedrà un sostanziale ridimensionamento del regionalismo sul finire del secolo, quando la produzione dialettale verrà abbandonata in favore di un’operetta più squisitamente nazionale. Le produzioni in lingua italiana di Vincenzo Valente, Mario Costa e Carlo Lombardo, per citare alcuni dei compositori più significativi del panorama operettistico primo novecentesco, accoglieranno infatti esclusivamente la canzone napoletana per richiamare la dimensione locale. Accantonato definitivamente il plurilinguismo, fattore di resistenza a un’idea di Nazione non del tutto condivisa, l’operetta italiana tralascerà quasi del tutto il dato politico per dare spazio a una più garbata satira di costume.     



[1]  Sulle origini dell’operetta italiana si è fatto riferimento a: C. Sorba, The Origins of the Entertainment Industry: the Operetta in Late Nineteenth-Century Italy, in «Journal of Modern Italian Studies», XI, 2006, 3, pp. 282-302; V. De Lucca, Operetta in Italy, in The Cambridge Companion to Operetta, ed. by A. BELINA, D. B. Scott, Cambridge, New York, Cambridge University Press, 2019, pp. 220-231. Per quanto riguarda, invece, la diffusione dell’operetta francese in Italia e l’impatto che ha avuto sul sistema produttivo teatrale postunitario rimando al mio libro: E. OLIVA, L’operetta parigina a Milano, Firenze e Napoli (1860-1890). Esordi sistema produttivi e ricezione, Lucca, LIM, 2020.

[2]  Sul mito di Milano “capitale morale” d’Italia si vedano: V. Spinazzola, La «capitale morale». Cultura milanese e mitologia urbana, in «Belfagor», XXXVI, 1981, 3, pp. 319-327; G. Rosa, Il mito della capitale morale. Identità, speranze e contraddizioni della Milano moderna, Milano, BUR, 2015.   

[3]  Su Napoli e la questione meridionale si è fatto riferimento agli studi di F. Barbagallo, Mezzogiorno e questione meridionale (1860-1980), Napoli, Guida, 1980, Id., La questione italiana. Il Nord e il Sud dal 1860 a oggi, Roma, Bari, Laterza, 2013 e Id., Napoli, Belle Époque. 1885-1915, Roma, Bari, Laterza, 2015.

[4]  Notizie più approfondite sulla presenza della compagnia Grégoire in Italia si trovano in Oliva, L’operetta parigina a Milano, Firenze e Napoli, cit., pp. 47-66.

[5]  1868 sguardo politico-artistico-sociale. Rivista dell’anno. Divisa in un prologo ed otto quadri dei signori Antonio De Lerma dei Castelmezzano ed Elviro Bartolin. Con musica espressamente scritta dal M. Michele Ruta. Rappresentata in Napoli al R. Teatro del Fondo la sera del 30 Gennaio 1869, Napoli, Fratelli de Angelis, 1869, pp. 23-25.

[6]  A proposito della presenza di elementi offenbachiani nelle produzioni milanesi degli Sessanta e Settanta si rimanda a: E. OLIVA, Effetto Offenbach: novità ed adattamenti nel teatro postunitario di e con musica, in «Philomusica online», 2020, 19, pp. 111-139.

[7]  Su Se sa minga si veda il saggio di E. Sala, Voci della città: da “Hé! Lambert!” (Parigi 1864) a “Se sa minga” (Milano 1866), in Viaggi italo-francesi. Scritti ‘musicali’ per Adriana Guarnieri, a cura di M. Bottaro, F. Cesari, Lucca, LIM, 2020, pp. 101-117.

[8]  Il Teatro Milanese, costruito per volontà di Cletto Arrighi grazie al rimodernamento del Padiglione Cattaneo, cominciò una regolare attività a partire dal 1870. Oltre alla compagnia dialettale che vi dimorava stabilmente, la Ferravilla-Sbodio-Giraud, il teatro ospitò altre compagnie che rappresentavano operetta. Sull’attività del Teatro Milanese si rimanda allo studio di G. Acerboni, Cletto Arrighi e il Teatro Milanese 1869-1876, Roma, Bulzoni, 1998 (Le fonti dello spettacolo teatrale, 4).

[9]  C. Arrighi, Il Teatro Milanese. Rendiconto morale, letterario e ammministrativo, Milano, Tipografia Civelli, 1873, pp. 12-13.

[10]  Ivi, pp. 15-16.

[11]  Ringrazio Bianca De Mario per avermi messo a disposizione il suo intervento Mapping Invisibility. Operetta and vaudeville at the Teatro Milanese, letto al convegno Transnational Networks of Operetta in Early Unified and Fin de Siècle Italy (University of Bern, Institute of Musicology, 14-16 September 2022). L’autrice si occupa dell’impatto che On milanes in mar e altre produzioni del Teatro Milanese hanno avuto sul paesaggio sonoro meneghino. Qui invece noi analizzeremo i lavori di Arrighi da una prospettiva differente, legata al ruolo che questi hanno avuto nella costruzione dell’identità nazionale.

[12]  P. Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia Coscienza, Roma, Meltemi Editore, 2003, p. 51.

[13]  Il brano si trovava in Passatempi musicali, la celebre raccolta di canzoni napoletane riadattate da Guglielmo Cottrau e pubblicata nel 1865 dal figlio Teodoro.

[14]  On milanes in mar di Cletto Arrighi con musica del Maestro Angelo Pettenghi, Milano, Carlo Barbini Editore, 1876, pp. 25-26.

[15]  E benedetta màmmata! (Duettino ad una voce di Ciccio e Ceccia) eseguito dalla Sig.a M. Yvon e G. Sbodio. Parole e musica di Teodoro Cottrau, in Album della regina. 40 serenate del Golfo, Napoli, Teodoro Cottrau, 1878, pp. 25-26.

[16]  Emma Ivon (Milano, 1851- Genova, 1899) fu al centro delle cronache scandalistiche dell’epoca non solo per la sua presunta relazione con il Re d’Italia Vittorio Emanuele II, ma per il processo che la vide imputata nel 1879 con l’accusa di sostituzione d’infante, da cui venne poi prosciolta. A lei sono stati dedicati i romanzi di stampo naturalista Nanà a Milano di Cletto Arrighi (1880) ed Emma Ivon al veglione di Paolo Vallera (1883). Per ulteriori notizie sulla vita e sulla carriera di Ivon e sull’impatto che ha avuto sulla società italiana di fine secolo si veda: G. Sebastiani, Emma Ivon in un’alba editoriale, in «Belfagor», XLVI, 1991, 5, pp. 567-575.

[17]  Nel periodico satirico «La commedia umana» si legge infatti: «Che la monumentomania sia diventata una delle afflizioni della nostra società, lo sanno tutti, perché tutti sono stati poco o molto, vittime di una decina almeno di pubbliche sottoscrizioni per erigere uno di quelli che si chiamano ricordi marmorei, a coloro che in un modo qualunque hanno illustrato patria» (Non più statue. Scultori. Leggete, in «La commedia umana», V, 13 gennaio 1889, p. 10). Sul fenomeno della monumentomania nel secondo Ottocento italiano si faccia riferimento a L’architettura della memoria in Italia. Cimiteri, monumenti e città 1750-1939, a cura di M. Giuffré, F. Mangone, S. Pace, O. Selfavolta, Milano, Skirà, 2007.

[18]  A proposito della commedia-parodia di Antonio Petito si veda: Tutto Petito, 4 voll., a cura di E. Massarese, Napoli, Luca Torre, 1978-1984 (Le undici muse. Sezione teatro, 1), 1978, vol. II, tomo II, p. [428] e A. Sapienza, La parodia dell’opera lirica, Napoli, Lettere Italiane, 1998, pp. 59-61.

[19]  A. Körner, Politics of Culture in Liberal Italy. From Unification to Fascism, New York, London, Routledge, 2008, p. 2.



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