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Gianni Poli

Rituali e riflessi del potere: Giorgio Strehler mette in scena Le Balcon di Jean Genet

Data di pubblicazione su web 30/03/2022
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Nel maggio 1976 andava in scena al Piccolo Teatro di Milano Le Balcon di Jean Genet, con la regia di Giorgio Strehler. Suoi anche la traduzione e l’adattamento.[1] Il regista, reduce dai successi degli allestimenti del Giardino dei ciliegi (1974) e del Campiello (1975) e in previsione della Tempesta (1976-1977), rendendosi conto della novità della scelta, motivava in pubblico la propria impresa. Sulla drammaturgia e la linea estetica, precisava:

Il testo per questa edizione del Balcon di Jean Genet si fonda sulle tre diverse versioni che la storia di quest’opera permettono di identificare e di distinguere: la prima stesura del 1956, pubblicata dall’Arbalète, che è stata la prima ad essere rappresentata; la seconda del 1960, che presenta notevolissime varianti rispetto alla prima e che rimane la più comunemente nota, figurando dal 1968 nelle Œuvres complètes (Gallimard) ed infine – tuttora inedita – quella usata per l’allestimento di Antoine Bourseiller nel 1969 a Marsiglia e nel 1975 al Théâtre Récamier di Parigi.[2] 

Anche questa versione presenta notevoli varianti rispetto alle edizioni a stampa e lo stesso Genet, in quell’occasione, aveva confessato l’insoddisfazione per Le Balcon e di considerarlo démodé et ambigu, superato e ambiguo. L’evento creava un’attesa della quale la stampa approfittò per amplificarla. Il regista annunciava infatti una svolta del suo impegno, così da alimentare un interessante dibattito lungo le repliche dello spettacolo.[3] Nel resoconto, Strehler parla di “Le Balcon”, si evidenziavano le riserve dell’artista sul testo: 

Una grande idea che non si attua. C’è una frattura tra intuizione e svolgimento scritto [di Genet]. Come giudico questo testo? Non lo considero un esempio specifico di teatro della cerimonia o del fuori della storia, né un gioco mostruoso del riflesso nel riflesso, ma non lo vedo nemmeno come un’opera coerente e conclusa […]. Per me Le Balcon è una grande, grandissima idea drammaturgica che però non sa organizzarsi definitivamente. Tra intuizione e svolgimento scritto resta una frattura. […] Ho tagliato tutti i riferimenti della rivoluzione. Nella casa degli specchi se ne avvertono solo gli echi, i rumori. Ma è una presenza essenziale. Per questo la voce non poteva essere anonima ma importante come quella di Milva.[4] 

Nell’esposizione del progetto, la cronaca coglieva anche particolari sull’allestimento, quali le nudità provocanti delle filles del bordello che, nella «luccicante e cupa scatola di Damiani», ricordano «un Salon Kitty metafisico».[5] Ma l’audace volgarità poteva convenire a una ieraticità casta e persino severa. Le questioni principali sorsero dall’adattamento e dalle sue conseguenze sulla ricezione degli spettatori e della critica, poiché il dibattito investiva logicamente la resa scenica, in rapporto alle intenzioni (dichiarate e/o presunte) di Genet. Il Programma di sala si apriva peraltro con una “presentazione” di Luigi Lunari, a riepilogo del pensiero del direttore, ben sintonizzata sulla reazione prevista all’evento. Le domande dall’esterno riguardavano le scelte registiche in ordine alle “prescrizioni” dell’autore, del resto mutevoli lungo le varianti da lui stesso introdotte, quali l’Avertissement (1960) e Comment jouer “Le Balcon” (1962), che esprimono con l’intransigenza estetica, l'immancabile polemica dell’autore verso le realizzazioni.

L’artiste n’a pas – ou le poète – pour fonction de trouver la solution pratique des problèmes du mal. […] Mais l’œuvre sera une explosion active, un acte à partir duquel le public réagit, comme il veut, comme il peut. Si dans l’œuvre d’art le bien doit apparaître, c’est par la grâce des pouvoirs du chant.[6]

Figure e funzioni, nel gioco degli specchi

La struttura e lo scopo espressivo di Le Balcon, le sue modifiche talvolta contraddittorie, hanno sempre sconcertato i lettori e gli interpreti interessati. Il testo pubblicato nella «Pléiade» registrava l’edizione critica più avanzata e le fonti dell’opera,[7] senza esaurirne le ipotesi interpretative. In particolare, la triade di pièces coeve, Splendid’s e Le Balcon – con “Elle” al centro – permette di verificare come l’autore affidi lo stesso ruolo d’Immagine alle tre figure analoghe del Papa, di Irma-la-Regina e del Poliziotto: «Image qui les irréalise tout en les magnifiant».[8] Tale è l’ossessione di bandire il reale, che nel Balcon il Meccanico, interpretato da un cliente troppo abile, viene allontanato («À l’usine!») perché la sua perizia rischierebbe di realizzare una macchina perfettamente funzionante.[9] Si comprende come Strehler, pur disponendo di sufficienti documenti probanti, incontrasse difficoltà nell’intervenire drammaturgicamente allo scopo di serbare una sostanziale fedeltà all’opera mentre perseguiva la propria visione creativa. Si fornisce appena un sunto del soggetto e qualche cenno all’esegesi che, già abbondante nel 1976, sarà aggiornata lungo l’analisi. L’opera, in nove quadri di ineguale lunghezza e sostanza, è divisibile in tre sequenze coerenti: Quadri I-V, Quadro VI, Quadri VII-IX.  

I. Una persona vestita da Vescovo conversa con una presunta prostituta (La Penitente) sulla propria funzione religiosa. È un uomo qualunque che sfoga le sue fantasie erotiche e metafisiche. Irma, tenutaria del bordello Le Balcon, segue la scena.

II. Una persona travestita da Giudice si interroga sul proprio potere con la complicità di una ragazza (La Ladra). Il loro rapporto sadomasochista (colto nel suo ripetersi) è reso esplicito dalla presenza d’un Carnefice (Arturo).

III. Un individuo timido si traveste da Generale per vivere una morte eroica in battaglia, assecondato da una ragazza che mima il ruolo della sua cavalcatura (La Cavalla).

IV. Un vecchietto vestito come un barbone, riflesso in tre specchi, si fa maltrattare da una puttana.

V. Nella sua stanza Irma conversa con Carmen (ragazza promossa a segretaria) sulla funzione della sua casa di “illusioni”: lo scopo non è soddisfare sessualmente i clienti, ma realizzare simbolicamente i loro desideri più segreti. Allusioni a Chantal (ex prostituta) e a Georges, il Capo Polizia che ambisce alla glorificazione quale Figura del bordello. Arturo, uscito a cercarlo, muore colpito da una pallottola. 

VI. All’esterno, dialogo fra Roger (capo rivoluzionario, ex idraulico del Balcon) e Chantal (ora sua compagna di lotta), sulle sorti della rivolta.

VII. All’interno del Balcon, l’Inviato della Regina riferisce sulla disfatta dell’autorità costituita. Il Capo Polizia vorrebbe intervenire per ristabilire il Potere, ma l’Inviato propone che Irma impersoni la Regina, fornendone un’alternativa simbolica e sostitutiva dell’Assenza e lei accetta. Georges, vedendo sfumare il ruolo di salvatore della patria, chiede di accedere da vivo al Mausoleo, pur di conquistare la gloria dell’eroe.

VIII. Nel progetto dell’Inviato, gli attori nei ruoli tenuti nel bordello – Vescovo, Giudice e Generale, Irma (la Regina), affiancati da Georges (Capo Polizia) – si presentano al balcone del palazzo quali figure funzionali del potere per patteggiare con Chantal, rappresentante della Rivoluzione. Il Mendicante grida: «Viva la Regina!» e uno sparo uccide Chantal.

IX. Ritorno all’ordine, sotto il nuovo potere delle Figure, fotografate in immagini ufficiali. Un colpo di scena completa la Nomenclatura, mancante ancora del Capo Polizia: Roger desidera come cliente impersonarne il ruolo, sicché anche a Georges verrà riconosciuta la funzione ambita. Lo fa castrandosi, cioè castrando il simbolo (o modello) che è diventato. Nella vertiginosa confusione di reale e immaginario, con l’insediamento di Georges nel mausoleo, anche il Capo Polizia assume funzione dominante. Irma spegne le luci nei salotti del casino-teatro, preparando il nuovo spettacolo, eterna ripetizione di illusioni e di riflessi negli specchi.

Traduzione e adattamento

L’elaborazione è importante e tale da trasformare il senso del dramma, sia per la misura e la qualità dei tagli, sia per la traduzione-riscrittura necessaria. Il nuovo copione (la copia-base, non quella del regista, è un dattilo di 114 fogli consultabile presso l’archivio del Piccolo Teatro) consta di dieci quadri. L’entità dei tagli riguarda circa la metà delle battute dei quadri originali. Il Q. IV è eliminato, per riapparire in un flash al Q. VIII. Il Q. V resta, ma ridotto e con notevoli interpolazioni. Il Q. VI (all’esterno, fra i rivoluzionari) è eliminato e sostituito con una scena dedicata a Santa Teresa e al Vecchio Peccatore, che però non viene rappresentata.[10] Il Q. VII resta il più lungo e vicino all’originale, pure rimaneggiato per l’assenza dei riferimenti ai personaggi eliminati. Il Q. VIII è altro inserto (in quattro scene, di cui soltanto la prima sarà rappresentata) che ripetono in flash le situazioni delle tre “stanze” iniziali. Il Q. IX, con la Parata dei Poteri, corrisponde al Q. VIII originale. Il Q. X corrisponde al Q. IX originale.              

Sul palcoscenico, verso una speranza “rivoluzionaria”

Della rappresentazione (vista in anteprima il 19 maggio, avendone seguito parte delle prove), si richiamano i momenti essenziali e i particolari più significativi per verificarne l’aderenza all’originale e coglierne l’impressione performativa d’assieme. Per Genet, i Quadri dovrebbero susseguirsi per scorrimento: «La scène se déplace de gauche à droite, comme si elle s’enfonçait dans la coulisse».[11] Invece al Piccolo la scena è unica e fissa, con semplici mutamenti degli accessori e delle loro collocazioni. La rappresentazione era divisa in due tempi con intervallo (copione) come nell’edizione 1956.

Nel Quadro I, in apertura il Vescovo (Renato De Carmine) col pastorale è in adorazione della mitria e compiaciuto per le vesti in pizzo ricamate. Nell’enormità delle “ali” della cappa, la statura è accresciuta da scarpe ortopediche. La puttana che recita la Penitente (Cristina Gaioni) sta in piedi, al lavabo. Il Vescovo si corica a mani giunte e la richiesta di confessione è poco insistita. Irma, la tenutaria (Anna Proclemer), veglia sull’esecuzione corretta della scena. Il Q. II vede il confronto fra il Giudice (Enzo Tarascio) e la Ladra (Anna Saia), in presenza del Carnefice (Arturo, impersonato da Alan Steel) armato di frusta. Compreso del suo ruolo, esige dalla ragazza rigore e sudditanza: «Chiamami Signor Carnefice». Il Giudice gode dell’abbaiar del cane a cui si presta il gioco del Carnefice. Si umilia e striscia davanti alla Ladra riconoscendole il ruolo che giustifica e rende autorevole il suo. Chiude la scena una musica d’organo rombante. Il Q. III mostra un Generale (Tino Carraro) imbranato di fronte a Irma autoritaria, ma conciliante. L’uomo impaziente al ritardo della ragazza si trucca allo specchio posto in funzione di “quarta parete”. Il cavallo (nel testo, un giocattolo già in scena) sarà impersonato dalla donna: entrando seminuda, con tacchi a spillo, reca costume e accessori da Generale con cui si vestirà il cliente. Lui la tratta come fosse la sua cavalcatura ammaestrata da circo (come tale, il suono di marcia), alla quale ha messo il morso. L’azione mima le fasi di un assalto, di una rischiosa conquista, e si conclude con la morte, immaginaria ma gloriosa, del Generale. Posto su una sedia a rotelle, la ragazza cantando lo trascina con le briglie fuori scena.[12]

Ancora la musica d’organo. La nudità esibita dalle ragazze, più che provocante e davvero seducente, esibisce una lascivia di maniera. Prendono pose da cariatide, specialmente la Cavalla, imbrigliata al seno e col braccio proteso in un gesto retorico. Ricorrono ampi tagli e i raccordi sono dell’adattatore. Del Q. IV resta una traccia appena visiva del vecchio Mendicante che nell’originale esigeva dalla partner frustate e una parrucca piena di pulci. Il Vecchio riapparirà un istante al Quadro VIII. In ogni scena Irma interviene anche per controllare la riscossione del prezzo pattuito.

Q. V, in presenza di Carmen (Giulia Lazzarini), Irma dalla sua stanza scruta ogni angolo del Palazzo mediante un visore ottico. È padrona sempre insicura del potere, sia nella gestione della Maison, sia rispetto alla “regia” della rappresentazione. L’autore suggerisce una rivalità latente e insolubile con Carmen, sua contabile e confidente: «Qui dirige – la maison et la pièce? Carmen ou Irma?».[13] La prostituta, ormai esentata dal “servizio”, ricorda la figlia lontana e rimpiange soprattutto, fra le interpretazioni più richieste, quella della Madonna di Lourdes (Immacolata Concezione), che recitava per un ragioniere del Crédit Lyonnais. Ora, mentre Irma le propone il ruolo inedito di Santa Teresa,[14] si ode il canto di Chantal (con la voce di Milva). Molte variazioni sul tema dei ruoli e sul potere della puttana risultano tagliate. La loro conversazione tocca anche Chantal, che ha lasciato il bordello per unirsi ai rivoltosi. In attesa del Capo Polizia, momenti di confidenza (vigilata da convenzioni) fra le due donne e uno di tenerezza omosessuale riconoscibile, molto discreto e misurato. Entra Arturo a riferire dell’ultima seduta conclusa da Carnefice e quando Carmen lo ammonisce sulle esigenze delle finzioni programmate, lui si pavoneggia. Danza il tango, prima con Carmen (che raduna gli accessori del carnefice), poi con Irma che lo blandisce e gli promette una nuova parte in cui interpreterà un “cadavere”. E lo invia in cerca del Capo Polizia. Questi è già in arrivo, per riferire dell’aggravarsi della situazione esterna. Sempre più esasperato dal desiderio di salire di rango, poiché nessuno ha finora chiesto di rappresentarlo nel bordello. Solo con Irma riscopre il loro legame, sempre sospeso fra realtà e illusione. Complicato da gelosia di lui e tensione all’assoluto di lei verso una verginità ambigua. Nel litigio lui la schiaffeggia. Torna il canto della rivoluzionaria, nella voce di Milva che sull’aria della Marsigliese improvvisa l’allegria furiosa della lotta, echeggia forte e la musica sale, chiudendo il Primo tempo.

Omesso il quadro VI, il VII, nella stanza di Irma, vede Carmen, il Capo Polizia e l’inviato Plenipotenziario (Renzo Ricci). Su un catafalco di marmo finto, il cadavere (finto) di Arturo. S’ode un’esplosione che secondo l’Inviato riguarda il Palazzo Reale. Colà la Regina, nel racconto del suo Inviato (quasi “regista”), è intenta a ricamare e a distrarsi in gesti futili e assurdi, segno della sua aspirazione all’Assenza. Irma concepisce l’idea di sostituirla. Il discorso assume connotazione politica (nella stentorea pronuncia fascista) guidato dall’Inviato che suggerisce la sostituzione dei ruoli del potere effettivo (travolti dalla Rivoluzione) con personaggi del Balcon. «Se la Regina è morta, Viva la Regina!», insinua alludendo a Irma e scegliendo le Figure da quelle del Balcon. Il Capo Polizia protesta per l’esclusione dai nuovi poteri, mentre l’Inviato procede a organizzare la parata che li renderà ufficiali. In un lampo (Q. VIII-A) appaiono il Mendicante e la Signora in pelliccia che gli dà una frustata ed egli grida: «Viva la Regina!».[15]

Accordi percussivi di pianoforte sostengono l’impulso impresso all’incipiente controrivoluzione. Ha inizio una sequenza dalla ritualità epica (Q. IX). La scena è invasa da nebbia d’incenso. Campane, organo e trombe musicano la parata dei poteri: le Figure – Vescovo, Giudice, Generale e Irma-Regina – sfilano in piena luce fra gli spettatori (la “folla”) nella moltiplicazione dei riflessi sulle pareti e sullo sfondo per poi avviarsi al balcone, dove l’Inviato convaliderà un po’ pirandellianamente l’azione, sanzionando i ruoli di ciascuno. Sul balcone (visto dall’esterno) si espongono in mostra i Personaggi (escluso il Capo Polizia), tutti ostentando gli orpelli del potere.[16] Snodo capitale, perché in origine vi appariva Chantal: l’Inviato la presentava alla Regina, una pallottola vagante la uccideva e i due la trascinavano fuori. L’eliminazione dell’episodio è scelta drammaturgica molto discutibile. Infatti, «en abattant Chantal, le faux-vrai – pouvoir, a abattu le symbole de la révolution, donc sa force».[17]

L’accompagnamento d’organo diffonde note funebri solenni. «I Personaggi si fermano poi tra gli specchi, moltiplicati all’infinito. Diventano immagini immobili e irraggiungibili».[18] Le Figure si spostano al proscenio, dove si attardano a conversare stranamente allegri e a fare progetti, in tono ironico e consci della mascherata, finché non li scuote il Capo della Polizia (Franco Graziosi), ansioso e zelante nel propiziarsi l’accesso alla nomenclatura. Nell’ultima sequenza, nella camera di Irma a soqquadro, la Regina e l’Inviato discutono sull’essenza del potere, soggetta all’ambiguità dell’essere e dell’apparire. Le Figure già accreditate e insediate si rassicurano nelle funzioni, mentre Georges insegue il suo miraggio, avanza diritti e pretese, contestando i rivali già soddisfatti in una dialettica dei rapporti di potere: «Comando io. Organizzo io […]. La mia immagine è ancora in Movimento […]. Sono l’Uomo del Destino». Gli manca soltanto l’essere rappresentato nel bordello. E finalmente intuisce la soluzione: proporrà di apparire sotto forma di un fallo gigantesco, il che affascina le Figure già glorificate[19] e ne eccita la fantasia. In quella irrompe Carmen, sconvolta e insanguinata. Narra concitata dell’incontro con un cliente che le ha chiesto una prestazione nella quale impersonare il Capo Polizia. Era Roger, l’amico di Chantal che si castrava per distruggere (simbolicamente) quella funzione ufficiale. Carmen sviene e Georges si rallegra: l’essere stato imitato garantisce la sua apoteosi, che mostra di godere fiero e prepotente. La scena si chiude con la recita del Padre nostro, in un coro grottesco e inquietante.

Nel finale del Quadro X (e del dramma), Irma si toglie la parrucca da Regina. Vaga con una candela accesa sul candeliere, spegne via via le luci (non le candele, da copione) e udendo ancora degli spari chiede di chi siano, se dei ribelli o dei “nostri”. È Carmen – invece del Plenipotenziario – a risponderle: «Qualcuno che sogna».[20] Quella sostituzione (di personaggio e battuta) è altro punto dolente su cui si sofferma la critica che, pur non conoscendo il copione, offre commenti pertinenti e articolati. Quello di Ugo Ronfani sente nella soluzione una residua «speranza… in un futuro diverso che apre uno spaccato di cielo e di stelle nel sepolcro faraonico in cui Genet aveva sepolto per sempre i Valori costituiti». Ma contesta: «Benissimo: però allora bisognerà rinunciare a celebrare ciò che è l’elemento fondamentale della drammaturgia di Genet, il suo odio per l’al di qua delle cose, la sua concezione del teatro come rito propiziatorio per domare, diceva Artaud, le potenze sconosciute».[21]

Nello spazio scenico

Nel dispositivo scenico, tutte le superfici formano un involucro riflettente, di cellophane o stagnola, compreso il pavimento. Le strutture edili in marmo e granito bordano anche il proscenio e lo spazio del mausoleo. Gli oggetti-arredo (da sinistra a destra da sala), un lavabo e un paravento a tre pannelli, poltroncina su rotelle, valigia aperta, due mobiletti-comodini, un grammofono a tromba, un’altra poltroncina mobile. Anche i costumi si accordano all’epoca fra le due Guerre. Certe richieste di Genet si modificano e i coturni diventano scarpe ortopediche. Vistosità ed eccesso caratterizzano gli accessori delle Figure. Il Vescovo, con tiara e pastorale. Cappotto lungo, elmetto borchiato e sciabola, stivali con speroni e il monocolo, per il Generale, che spogliandosi resta in camicia. Toga bianca a maniche larghe e cappello con fregi e codice in mano, porta il Giudice, dalle spalle enormemente allargate. La Cavalla reca finimenti a reggiseno e cache-sex e la parrucca è di capelli biondi, lunghi e sciolti. I guanti neri, scarpe di vernice nera e ginocchiere imbottite. Per la Penitente, un body quale intimo e calze neri; velo bianco e coroncina in testa. La Ladra con pagliaccetto-sottoveste e giarrettiere. Irma veste un corpetto nero a paillettes scollato a V e vestito lungo (non il previsto tailleur nero e cappello “à bride serrée”), poi giacca sovrapposta.[22] I capelli bruni, lisci e raccolti. Da Regina, indosserà la parrucca. Per Carmen, un body nero a rete copre l’ombelico e capelli con fiocco; poi un velo bianco monacale, oltre al body con giarrettiere. Il Plenipotenziario ha l’eleganza ufficializzata dallo smoking. Arturo, magnaccia e Carnefice (quasi culturista esibizionista) a torso nudo, pantaloni in pelle, con frusta e casco-maschera nera. Il Capo Polizia ha i baffi, veste un lungo cappotto doppiopetto scuro, cravatta e cappello di feltro. Appena visibili, la Signora di Maristella Greco e il mendicante di Armando Benetti. Al balcone del palazzo, le quattro Figure esibiscono il grottesco marcato dell’abbigliamento. La Regina, con parruccona nera e corona sui capelli e pesante manto con strascico. Sul Generale svetta l’elmo piumato. Il tutto è segnato dalle luci intense e scabre di un proiettore ad arco, che stagliano il trucco espressionisticamente calcato sui volti e qualche tonalità cangiante di colore. Fiorenzo Carpi integra sonorizzazione e musiche in unica partitura, sequenza di brani indicanti la qualità e l’origine dei suoni, canzoni e rumori. Il grammofono suona i dischi richiesti dai clienti, dischi vecchi, fruscianti e che a volte girano a “vuoto”. Un organetto ripete una marcetta militare, in due varianti; poi una marcia funebre è intonata a bocca chiusa dalla Cavalla (Q. III), indicata da Genet in quella di Chopin, proseguita da «un’invisibile orchestra».[23] Fra i rumori, raffiche di mitra e mitragliatrice, scoppi di bombe, colpi di martello su un’incudine,[24] vetri infranti, un urlo di donna, una sigla di programma televisivo.  

Recitazione

Lungo le prove, la recitazione che risentiva della celebrità degli interpreti evolveva significativamente. Enrico D’Amato notava che l’impostazione dei personaggi da parte di Strehler spingeva gli attori a comporre il proprio, che le prove fissavano poi nei dettagli a seconda delle personalità. Tino Carraro si dichiarava sorpreso dall’opera: «È insolito. Shakespeare è più facile: basta dire le parole. Qui è la ricerca di qualcosa che non c’è. Si va a tentoni».[25] A Carlo M. Pensa, il Generale pareva di «tremebonda e bellicosa viltà» e trovava Renzo Ricci «meraviglioso con tale sublime misura di ironia e inverosimiglianza». Roberto de Monticelli ne ammira la resa «da raisonneur pirandelliano» e ne avrebbe completato il ritratto in Eroe di un teatro lontano: «Difficile dimenticare come soffiava quelle parole gelide, vacue e assurde, col fumo della sigaretta; come faceva, dell’ironia istrionica […] un delizioso mezzo di straniamento».[26] Anna Proclemer non riusciva a svestirsi da primadonna né a dimenticare la drammaticità naturalistica, che veniva invece contrastata da Renato De Carmine, Enzo Tarascio e Tino Carraro. Del Carnefice, Alan Steel rende ironica la muscolatura. Lazzarini incarnava il bisogno di purezza riservato a Carmen da Genet. Indizi, più che analisi, si incontrano nelle recensioni. Lodi o approvazioni generiche (con qualche ripulsa) in Il Balcone contestato di Grieco, che segnala «la bruttezza dello spettacolo», la «traduzione disperata» rispetto a quella di Caproni, della quale «Strehler ha preferito non tenere conto». Sugli attori, «bene Lazzarini, ottimo Renzo Ricci». Quanto alle ragazze, «poppe al vento, lasciamo stare». In risalto, «la vocazione di prostituta-monaca di Giulia Lazzarini», per De Monticelli, nell’articolato e soppesato intervento:

Strehler è riuscito nell’impresa adattando il testo di Genet alla propria misura […]. Riduttivo, ma è legittimo e rimane una delle poche strade possibili per la realizzazione scenica. […] Non teatro della ragione contro il teatro dell’irrazionale… se mai quella della grande metafora sociale e storica sempre individuabile all’interno delle più alte ipotesi teatrali… senza lasciarsi suggestionare da ipotesi sociologiche […]. Uno spettacolo teso e alto, duro e coraggioso.[27]

Altri, sull’autore e il testo: Alberto Blandi: «Un monumento che l’autore ancora vivo ha eretto a se stesso […]. Un classico lontano dall’attualità» (“Balcone” di Genet tra finzione e realtà, in «La Stampa», 21 maggio 1976). Giancarlo Vigorelli avverte che «Il Balcone non è più avanguardia» («Il Giorno», 21 maggio 1976). Sull’adattamento, Sauro Borrelli: «La pur rispettosa interpolazione di Strehler sul testo originale per giungere a questo approdo “positivo” può sembrare in parte meccanica e in parte edificante» (Danza macabra di Genet, «L’Unità», 21 maggio 1976). Enrico Filippini critica le scelte rappresentative incongrue rispetto al testo: «Un sommo esempio di ciò che Strehler chiama “teatro dell’irrazionale” viene accolto, un po’ appannato, nel tempio del “teatro del razionale” […]. Un unico piano, secondo un canovaccio tutto sommato espressionista. […] Il testo appare come un’ennesima denuncia della gratuita violenza del potere. È quello che si chiama “storicizzare”».[28]

Senza addentrarsi nella qualità della traduzione, certo riduttiva almeno della peculiarità linguistica, una riscrittura tanto ampia trasforma il senso del dramma. La critica strehleriana al testo è pregiudizio che motiva il rifacimento. Anche la riduzione quantitativa tende a mitigare l’insistenza genetiana sulle funzioni delle Figure e dei riflessi delle loro Immagini. Il dramma si basa appunto sul potere di un’immaginazione che supera la realtà; sul rapporto tra l’interno del Balcon, luogo del Potere e l’esterno della Rivoluzione che al Potere aspira senza raggiungerlo, in ciò simile al processo di Les Nègres. Attenuare tali dicotomie porta a incongruenze e incomprensibilità. La soppressione della coppia rivoluzionaria, perché «non fa progredire il dramma», misconosce la visione di Genet su una Rivoluzione velleitaria che viene neutralizzata e svuotata dall’immaginario, più che dalle armi dei rivoltosi. Così pesa eliminare le scene dell’autocastrazione di Roger e delle fotografie ufficiali delle Figure dominanti. Resta altresì inefficace la comparsa del Mendicante nella scena in cui avrebbe dovuto alludere alla presenza dell’autore-poeta. Il regista-autore evita i trapassi dall’individuale al collettivo, dal sessuale al politico. Nella storicizzazione del fenomeno della presa del potere, ne raffigura la piramide gerarchica alla cui sommità il Capo Polizia rassomiglia a Hitler.[29] Il presente tentativo di ricostruzione può valere una fase appena della potenziale e necessaria rivalutazione, sia dell’impresa di Strehler, sia della permanente irriducibile ambiguità degli originali.



[1]  J. GENET, Le Balcon, traduzione, adattamento e regia di Giorgio Strehler; scene e costumi di Luciano Damiani; musiche di Fiorenzo Carpi; movimenti mimici di Marise Flach. Interpreti: Renato De Carmine (Vescovo), Enzo Tarascio (Giudice), Alan Steel (Carnefice, Arturo), Tino Carraro (Generale), Armando Benetti (Mendicante), Franco Graziosi (Capo della Polizia), Renzo Ricci (Plenipotenziario), Anna Proclemer (Irma), Cristina Gaioni (Penitente), Anna Saia (Ladra), Erika Blanc (Cavalla), Maristella Greco (La Signora), Giulia Lazzarini (Carmen), Milva (Voce di Chantal). Assistenti alla regia: Carlo Battistoni, Enrico D’Amato e Walter Pagliaro. Sala Via Rovello, 19 maggio 1976 (anteprima per la critica).

[2]  G. STREHLER, Nota al testo del Programma di sala. Non menzionata la precedente creazione italiana: traduzione di Dario Bellezza; regia di Antonio Calenda; scenografia di Franco Nonnis; costumi di Enrico Job; musiche di Domenico Guaccero; interpreti: Roberto Herlitzka (Vescovo), Ezio Marano (Giudice), Gabriele Tozzi (Il Boia, Arturo), Enrico Ostermann (Generale), Mariano Rigillo (Capo Polizia), Sergio Tofano (L’Inviato), Franca Valeri (Irma), Milena Vukotic (Carmen). Produzione: Compagnia Nuovo Teatro, 19 novembre 1971.

[3]  Cfr. Giorgio Strehler spiega la sua regia, in «Il Corriere della sera», 20 maggio 1976. A prove in corso: E. MO, Al Piccolo il bordello di Genet, in «Corriere della Sera», 21 aprile 1976. Nell’incontro con B. Aniasi-E. Groppali (Genet strehlerizzato, in «Sipario», giugno-luglio 1976), il regista dichiara: «Il mio finale sarà programmaticamente aperto».

[4]  D. RIGHETTI, Strehler parla di “Le Balcon”, in «Il Giorno», 19 maggio 1976. U. RONFANI, Una linea di frontiera per Genet, in «Il Giorno», 4 giugno 1976, concludeva con rilievi e implicazioni più vasti e pertinenti sul caso Genet e sul Balcon, rapportati alla temperie dell’epoca. Cfr. J. GENET, Romans et poèmes, Paris, Gallimard, 2021. «L’apparition de Genet dans le monde littéraire fait figure de déflagration. […] Dans son œuvre se donne à voir l’envers du monde: un univers serti dans une langue où se côtoient le langage le plus ordurier et un pur style classique» («Bulletin-Gallimard», mars-avril 2021, 536, p. 27).

[5]  RIGHETTI, Strehler parla di “Le Balcon”, cit.

[6]  Avertissement, in J. GENET, Le Balcon, a cura di M. CORVIN, Paris, Gallimard, 2002, p. 16. Cfr. G. POLI, Genet: per una messa in scena poetica, in «Il Castello di Elsinore», X, 1991, pp. 53-63.

[7]  Cfr. J. GENET, Théâtre complet, a cura di A. DICHY e M. CORVIN, Paris, Gallimard, 2002. V. inoltre M. PIEMME, Espace scénique et illusion dramatique dans “Le Balcon”, in «Obliques», II, 1972, pp. 23-31; Jean Genet. Chiavi di lettura. Atti del convegno internazionale (Reggio Emilia, aprile 1989), a cura di S. CARLUCCI, Roma, Associazione nazionale dei critici di teatro, 1990; T. SINDING, Le Balcon. De la première version du texte aux réalisations scéniques, in «Comédie-Française», décembre 1985, 143-144, p. 5.

[8]  J. GENET, Splendid’s suivi de “Elle”, Paris, Gallimard, 2010, p. 36.

[9]  GENET, Le Balcon, cit., p. 81.

[10]  Forse prestito da altra versione (quella di A. Bourseiller?), non dall’edizione del 1956, pubblicata in Théâtre complet.

[11]  GENET, Le Balcon, cit., p. 29. Documenti fotografici in Archivio Piccolo Teatro di Milano (foto di Luigi Ciminaghi), https://archivio.piccoloteatro.org (ultimo accesso: 14 marzo 2022).

[12]  Strehler applica la didascalia genetiana della cavalla al traino, che la traduzione di Giorgio Caproni (J. GENET, Il balcone, Milano, Il Saggiatore, 1971, p. 289) ometteva.

[13]  GENET, Comment jouer le Balcon, cit., p. 11.

[14]  Strehler inseriva la Figura di Santa Teresa in una scena autonoma (Q. VI) non rappresentata. Carmen allude al “costume” della Santa nel Tableau VI, ed. 1956.

[15]  In triplice variante, la Figura “di passaggio” del Mendicante sta a esprimere più intimamente Genet-Poeta: cfr. A. DICHY, Il Mendicante, lo Schiavo, il Poeta, in Jean Genet. Chiavi di lettura, cit., p. 136.

[16]  «Il momento più alto… si stacca dalla finzione convenzionale e scende in platea tra la gente» (C.M. PENSA, Brecht in Genet, in «Sipario», giugno-luglio 1976, 361-362, p. 13). «La discesa in platea delle Apparizioni dei grandi pupazzi [che] è uno dei più intensi momenti di teatro realizzati da Strehler» (R. DE MONTICELLI, Strehler fra i voyeurs della Storia, in «Corriere della Sera», 21 maggio 1976). Una didascalia registica suggeriva: «Il Corteo attraverserà la platea, salirà al Balcone e di lassù si mostrerà» (Nota dello scrivente, prova del 24 aprile 1976).

[17]  PIEMME, Espace scénique et illusion dramatique dans “Le Balcon”, cit., p. 30. La Parata (o Apparizione) suppone plurimi significati e attesta che «l’apparire è il verbo delle Figure» (DICHY, Il Mendicante, lo Schiavo, il Poeta, in Jean Genet. Chiavi di lettura, cit. p. 134).

[18]  Didascalia del copione, f. 92.

[19]  Le Figure sono dunque delle “posizioni”, degli “stati” a cui accedere sul piano dell’immaginario. “Maschere” o “marionette”, nell’atto di “mostrare”, appaiono nella regia del Balcon di Jean Boillot (Poitiers, 2001): cfr. CORVIN, La mise en scène du “Balcon”, in GENET, Le Balcon, cit., p. 198.

[20]  GENET, Le Balcon, cit., p. 152; ID., Il balcone, cit., p. 341. Copione, f. 114: «Qualcuno che sa ancora sognare». Rilevando il crepitio del mitra, nota un recensore: «“Si sente fischiettare fuori”. “Chi è?”, domanda Irma. E Carmen: “Qualcuno che sogna”» (O. BERTANI, Il male al Balcone, in «Il Dramma», I-II, giugno-luglio 1976, p. 112).

[21]  RONFANI, Una linea di frontiera per Genet, cit.

[22]  Ripensamento di Genet, didascalia in calce al Q. I: cfr. GENET, Le Balcon, cit., p. 20.

[23]  GENET, Il balcone, cit., p. 289.

[24]  Indicazioni fedeli all’originale, riprendono i suoni degli strumenti simbolici (incudine e martello) tipici del rapporto sadomasochista: cfr. F. ANGELINI, Il teatro di Genet: dagli specchi ai paraventi, Palermo, Palumbo, 1975, pp. 69 e 79, che rinvia a R. BARTHES, Sade, Fourier, Loyola, Paris, Seuil, 1971.

[25]  Prova del 24 aprile 1976.  

[26]  R. DE MONTICELLI, Strehler fra i voyeurs della Storia, in «Corriere della sera», 20 ottobre 1978 (poi in L’Attore, Milano, Garzanti, 1988, p. 86). E cfr. PENSA, Brecht in Genet, cit.

[27]  DE MONTICELLI, Strehler fra i voyeurs della Storia, cit. E cfr. G. GRIECO, “Il Balcone” contestato, in «Gente», maggio 1976.

[28]  E. FILIPPINI, Delirio erotico contro il potere, in «La Repubblica», 21 maggio 1976.

[29]  Cfr. M. CORVIN, Une dramaturgie du politque, in GENET, Théâtre complet, cit., pp. 1133-1154.



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