«Quale sarà lultima sera del nostro carnevale gratificante e accidioso?», si interrogava Ludovico Zorzi in uno scritto frutto della sua consulenza storica a Luigi Squarzina per la straordinaria messinscena nel 1968 per il Teatro Stabile di Genova di Una delle ultime sere di Carnovale. Un anno dopo si rappresentava al Piccolo Teatro di Milano, per la regia di Gianfranco de Bosio, La Betìa con Franco Parenti, Magda Mercatali, Antonio Salines, scene e costumi di Emanuele Luzzati. Per loccasione Zorzi aveva alacremente lavorato sulla redazione della commedia trasmessa dal codice Correr ritenendola, rispetto alla versione custodita in Marciana, quella «in cui la presenza del Ruzante attore e uomo di teatro prevale nettamente su quella delluomo di lettere preoccupato di conferire una “durata” scritta ai propri lavori». Una pionieristica indicazione di metodo. Aveva compreso, Zorzi, che occorreva «rovesciare il problema, che non è (soltanto) quello del passaggio dal libro alla scena, ma (soprattutto) quello del passaggio dalla scena al libro». Teatro in azione, «drammaturgia effettiva». Lo spettacolo ebbe un successo strepitoso, teatro sempre esaurito. Ricorda De Bosio: la scelta e la riduzione del testo fu compiuta prima di tutto da Zorzi, e con molta abilità: bisognava ridurre al tempo di uno spettacolo contemporaneo un materiale […] nato per altre convenzioni dintrattenimento. Eliminato il lungo primo atto, che costituisce quasi un prologo indipendente sul tema dellamore, iniziammo le prove. Decidemmo di unificare platea e scena del Piccolo Teatro, rivestendo dello stesso rosso della sala le pareti del palco, e vi inserimmo un dispositivo di praticabili scuri e tende bianche che si ispirassero al disegno originale della scena contenuto nel manoscritto cinquecentesco della commedia. E Zorzi: «La messinscena della Betìa, con altri spettacoli esemplari prodotti sullo scorcio degli anni 60, segnò probabilmente il frutto più maturo di un determinato rapporto tra interpreti e pubblico, che può emblematicamente riassumersi nella politica culturale seguita dai teatri stabili». Parole del 1977: parole ufficiali consegnate al volumetto Il Ruzante. Storia di una scoperta. Ma nel 1969, una ventina di giorni prima dello spettacolo, Zorzi in cuor suo trepidava dinsoddisfazione per la sua amatissima Betìa. Si sentiva tradito. Si prenda poi atto, ad amara conclusione delle esperienze teatrali zorziane, della disillusione dello studioso. Ferdinando Taviani ha ricordato che «Zorzi negli ultimi anni constatava sconsolato che il lavoro culturale accanto ai teatri ordinari era necessariamente umiliante e fallimentare». È vero, ma la delusione era iniziata anni prima. Si legge in una lettera zorziana scritta nellautunno 1969 ad Alessandro dAmico: «ti giuro che appena riesco a infilarmi in una facoltà che mi vada, non sentirete più parlare di me “(e intendeva: nellambiente teatrale)”». Perché questo ripudio del teatro? Si trattava, anzitutto, di rigore e non solo scientifico. Del rifiuto di compromessi: «stanchezze, incomprensioni, conflitti con i poteri pubblici, carenze nella gestione finanziaria, divismo e accademismo sono, oggi come ieri, i mali che tarlano la vita della scena», asseriva nel 1968 Zorzi il quale stava inquietamente vivendo alla Olivetti di Ivrea, che ormai gli andava stretta, non solo il «dilemma teatro-università, spettacolo-ricerca», ma anche quello fabbrica-università. Una testimonianza di DAmico ci aiuta a capire meglio la profonda delusione di cui parla Taviani. Sappiamo bene cosa abbia rappresentato per Zorzi la ricerca di un metodo su cui fondare lo studio del teatro; metodo quasi inafferrabile per la sempre più complicata e proliferante interdisciplinarietà della materia. È probabile che lo scoraggiamento sia venuto di lì. Dalla constatata impossibilità di trasferire alla scena il frutto di anni di ricerche su un autore, su un testo, nei tempi e nei modi di produzione delle nostre stabili e delle nostre grandi compagnie private. Lidea che […] una settimana o poco più di colloqui tra filologo e teatranti potesse risolvere il problema fu una volta definita da Zorzi «sindrome dellintellettuale tardo-capitalistico». Parole polemiche questultime, ma lucide; che si ritrovano e si chiariscono in una indignata lettera zorziana scritta da Ivrea (cinque fitte cartelle dattiloscritte numerate a partire dalla 2 e concluse da una postilla manoscritta autografa), datata 5 ottobre 1969 e indirizzata sempre a Sandro dAmico. Una lettera a carattere privato, a lungo nota solo per telegrafici estratti, della quale anni fa, a fuochi ormai spenti, ho pubblicato un più lungo brano grazie alla generosità di Nando Taviani al quale la trasmise nel dicembre 2001 DAmico riflettendo sul passato e sul presente: «Caro Nando, trentadue anni fa questa lettera di Ludovico Zorzi era soltanto uno sfogo, da tenere riservato. Oggi mi pare sia un documento di cui uno storico […] debba prendere visione». Rileggiamone alcuni passi. In questi ultimi anni, con tutti e tre i più accreditati organismi teatrali italiani (Milano, Genova e Torino), io ho avuto delle esperienze, a dir poco deludenti; e includo in questo termine (che ritengo un eufemismo) la mia constatata impossibilità di influire in benché minima parte non tanto sulle idee […], quanto sui criteri di lavoro dei nostri “maestri” di teatro. […] non posso far niente per convincere, per esempio, Squarzina che non è possibile, per un regista doggi, passare con la più “fattiva” disinvoltura da Puccini a Goldoni a Brecht a Vico Faggi; e pretendere di fare assieme il lavoro preparatorio su un testo come i Rusteghi in meno di una settimana, al mare, con donne e bambini tra i piedi, in un clima di assoluta indissociabilità tra “lavoro” e “riposo” (o “diporto”, turistico, natatorio, sessuale, ecc.), tipico anche questo della sindrome dellintellettuale tardo-capitalistico. Così non posso far niente per convincere Grassi e de Bosio che la Betìa è opera di un Ruzante “altro”, ancora romanzo e umanistico-quattrocentesco […], e che è impossibile allestire la rappresentazione di un testo di quella difficoltà in meno di 25 giorni. […] Grassi in preda a delirio dittatorio, in una girandola di porcodio e di pugni sul tavolo che non fanno più paura a nessuno, Squarzina che elimina fino allultimo dei suoi assistenti con laria tra il bellindifferente e langelo che finge di non capire, Chiesa (per il quale nutro il più profondo rispetto) con cappello e bastone, Strehler (il nostro venerato maestro) che prima si vota alla “fraternal compagnia” e al teatro povero (maledetto Grotowski e tutti i Living di questo mondo, se questi sono i risultati), poi ci ripensa e passa senza combinar niente al peggior carrozzone pubblico dItalia [allude alla RAI]; Torino che sostituisce il povero de Bosio […] e schiera cinque (dico cinque) finti direttori artistici. […] Facciamoci un po i conti addosso, stiamo zitti e impariamo una buona volta, sul serio, a radicalmente contestarci. Parole polemiche e amare, che sottolineavano la crisi del teatro italiano a gestione pubblica. Parole a tratti commoventi. Lucidità ed etica: un binomio che ha indotto Claudio Meldolesi, lavorando proprio su questo documento, a valorizzare limportanza di Zorzi-dramaturg nellalveo delle esperienze della dramaturgie italiana del secondo dopoguerra: Guerrieri, Lunari, Morteo, Kezich (e altri). A quella data (ripeto, 5 ottobre 1969) Zorzi prendeva atto con delusione e con rabbia dei limiti dei tre principali Stabili italiani (il Piccolo di Milano, lo Stabile di Genova, lo Stabile di Torino), della propria impotenza decisionale in quei contesti e dei “vizi” della cosiddetta regia critica: da Squarzina a De Bosio. Il primo era afflitto dalla sindrome lavorativo-vacanziera «dellintellettuale tardo-capitalistico» e passava dal Goldoni di Una delle ultime sere di carnovale (27 settembre 1968, Venezia, teatro La Fenice), in cui, come si è accennato, tante intelligenti energie aveva profuso lo stesso Zorzi – penso specialmente alla mirabile scena della «meneghella» –, al teatro-documento di Cinque giorni al porto di Faggi-Squarzina, con la collaborazione di Edoardo Fadini (1° aprile 1969, Genova, teatro Genovese), alla Turandot pucciniana (16 luglio 1969, Arena di Verona), ai goldoniani Rusteghi (27 settembre 1969, Venezia, teatro La Fenice), alla preparazione di Madre Courage e i suoi figli (che andò in scena in anteprima l11 marzo 1970 al teatro Genovese). Il secondo, da poco dimessosi dallo Stabile di Torino e sostituito da un comitato, i «cinque (dico cinque) finti direttori artistici», non comprendeva, nonostante la pluriennale assidua frequentazione del teatro di Ruzante (e di Zorzi storico e dramaturg), non comprendeva sino in fondo la Betìa da mettere in scena al Piccolo governato dallefficientista Grassi. Intanto Strehler, il «venerato maestro» Strehler, aveva attraversato la soglia del Sessantotto dimettendosi dal Piccolo e fondando il gruppo indipendente Teatro e Azione. Le modalità produttive degli stabili e della regia nazionale non potevano più conciliarsi per lo studioso-dramaturg, che non credeva nemmeno nel Nuovo teatro, con i criteri di lavoro in lui determinati dalla ricerca scientifica e dalla esperienza alla Olivetti. E Zorzi ne pativa, non intendeva adattarsi e si sentiva misconosciuto, offeso, intellettualmente vampirizzato. Ormai era lontano dal micromondo del teatro italiano e dai suoi abitatori. Lo tediavano quel pianeta e quella «fauna» teatrale: «Questo teatro (registi, attori, critici, autori, ecc.) non mi diverte e non mi interessa assolutamente più». Il prediletto Ruzante era «“passato” in teatro sì e no per un quarto di ciò che valeva e significava», Goldoni doveva in larga misura ancora essere “scoperto”. La forbice tra il fare teatro, la riflessione storica e la rigorosa idea di teatro zorziana si era troppo aperta. Un conto fare storia, un altro fare teatro. Zorzi non vedeva «alcun barlume di reciproca solidarietà tra due attività che considerava, almeno per lui, ormai inconciliabili». In quel momento di radicale contestazione il far teatro era per lui parabola discendente, a fronte delle ascendenti esperienze culturali e scientifiche che aveva vissuto e stava vivendo e nelle quali cercava conforto. Naturale che il già ricordato successo della Betìa – rappresentata il 28 ottobre 1969 al Piccolo di Milano orfano di Strehler – non gli facesse in seguito mutare opinione.
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