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Stefano Mazzoni

Sulla “Betìa” di Ruzante al Piccolo Teatro di Milano
(28 ottobre 1969)

Data di pubblicazione su web 08/07/2021
.

«Quale sarà l’ultima sera del nostro carnevale gratificante e accidioso?», si interrogava Ludovico Zorzi[1] in uno scritto frutto della sua consulenza storica a Luigi Squarzina per la straordinaria messinscena nel 1968 per il Teatro Stabile di Genova di Una delle ultime sere di Carnovale.[2] Un anno dopo si rappresentava al Piccolo Teatro di Milano, per la regia di Gianfranco de Bosio, La Betìa con Franco Parenti, Magda Mercatali, Antonio Salines, scene e costumi di Emanuele Luzzati. Per l’occasione Zorzi aveva alacremente lavorato sulla redazione della commedia trasmessa dal codice Correr ritenendola, rispetto alla versione custodita in Marciana,[3] quella «in cui la presenza del Ruzante attore e uomo di teatro prevale nettamente su quella dell’uomo di lettere preoccupato di conferire una “durata” scritta ai propri lavori».[4] Una pionieristica indicazione di metodo. Aveva compreso, Zorzi, che occorreva «rovesciare il problema, che non è (soltanto) quello del passaggio dal libro alla scena, ma (soprattutto) quello del passaggio dalla scena al libro».[5] Teatro in azione, «drammaturgia effettiva».[6] Lo spettacolo ebbe un successo strepitoso, teatro sempre esaurito. Ricorda De Bosio:

la scelta e la riduzione del testo fu compiuta prima di tutto da Zorzi, e con molta abilità: bisognava ridurre al tempo di uno spettacolo contemporaneo un materiale […] nato per altre convenzioni d’intrattenimento. Eliminato il lungo primo atto, che costituisce quasi un prologo indipendente sul tema dell’amore, iniziammo le prove. Decidemmo di unificare platea e scena del Piccolo Teatro, rivestendo dello stesso rosso della sala le pareti del palco, e vi inserimmo un dispositivo di praticabili scuri e tende bianche che si ispirassero al disegno originale della scena contenuto nel manoscritto cinquecentesco della commedia.[7] 

E Zorzi: «La messinscena della Betìa, con altri spettacoli esemplari prodotti sullo scorcio degli anni ’60, segnò probabilmente il frutto più maturo di un determinato rapporto tra interpreti e pubblico, che può emblematicamente riassumersi nella politica culturale seguita dai teatri stabili».[8] Parole del 1977: parole ufficiali consegnate al volumetto Il Ruzante. Storia di una scoperta.[9] Ma nel 1969, una ventina di giorni prima dello spettacolo, Zorzi in cuor suo trepidava d’insoddisfazione per la sua amatissima Betìa. Si sentiva tradito. Si prenda poi atto, ad amara conclusione delle esperienze teatrali zorziane, della disillusione dello studioso. Ferdinando Taviani ha ricordato che «Zorzi negli ultimi anni constatava sconsolato che il lavoro culturale accanto ai teatri ordinari era necessariamente umiliante e fallimentare».[10] È vero, ma la delusione era iniziata anni prima. Si legge in una lettera zorziana scritta nell’autunno 1969 ad Alessandro d’Amico: «ti giuro che appena riesco a infilarmi in una facoltà che mi vada, non sentirete più parlare di me “(e intendeva: nell’ambiente teatrale)”».[11] Perché questo ripudio del teatro? 

Si trattava, anzitutto, di rigore e non solo scientifico. Del rifiuto di compromessi: «stanchezze, incomprensioni, conflitti con i poteri pubblici, carenze nella gestione finanziaria, divismo e accademismo sono, oggi come ieri, i mali che tarlano la vita della scena»,[12] asseriva nel 1968 Zorzi il quale stava inquietamente vivendo alla Olivetti di Ivrea, che ormai gli andava stretta, non solo il «dilemma teatro-università, spettacolo-ricerca»,[13] ma anche quello fabbrica-università. Una testimonianza di D’Amico ci aiuta a capire meglio la profonda delusione di cui parla Taviani. 

Sappiamo bene cosa abbia rappresentato per Zorzi la ricerca di un metodo su cui fondare lo studio del teatro; metodo quasi inafferrabile per la sempre più complicata e proliferante interdisciplinarietà della materia. È probabile che lo scoraggiamento sia venuto di lì. Dalla constatata impossibilità di trasferire alla scena il frutto di anni di ricerche su un autore, su un testo, nei tempi e nei modi di produzione delle nostre stabili e delle nostre grandi compagnie private. L’idea che […] una settimana o poco più di colloqui tra filologo e teatranti potesse risolvere il problema fu una volta definita da Zorzi «sindrome dell’intellettuale tardo-capitalistico».[14] 

Parole polemiche quest’ultime, ma lucide; che si ritrovano e si chiariscono in una indignata lettera zorziana scritta da Ivrea (cinque fitte cartelle dattiloscritte numerate a partire dalla 2 e concluse da una postilla manoscritta autografa), datata 5 ottobre 1969 e indirizzata sempre a Sandro d’Amico. Una lettera a carattere privato, a lungo nota solo per telegrafici estratti,[15] della quale anni fa, a fuochi ormai spenti, ho pubblicato un più lungo brano grazie alla generosità di Nando Taviani[16] al quale la trasmise nel dicembre 2001 D’Amico riflettendo sul passato e sul presente: «Caro Nando, trentadue anni fa questa lettera di Ludovico Zorzi era soltanto uno sfogo, da tenere riservato. Oggi mi pare sia un documento di cui uno storico […] debba prendere visione».[17] Rileggiamone alcuni passi. 

In questi ultimi anni, con tutti e tre i più accreditati organismi teatrali italiani (Milano, Genova e Torino), io ho avuto delle esperienze, a dir poco deludenti; e includo in questo termine (che ritengo un eufemismo) la mia constatata impossibilità di influire in benché minima parte non tanto sulle idee […], quanto sui criteri di lavoro dei nostri “maestri” di teatro. […] non posso far niente per convincere, per esempio, Squarzina che non è possibile, per un regista d’oggi, passare con la più “fattiva” disinvoltura da Puccini a Goldoni a Brecht a Vico Faggi; e pretendere di fare assieme il lavoro preparatorio su un testo come i Rusteghi[18] in meno di una settimana, al mare, con donne e bambini tra i piedi, in un clima di assoluta indissociabilità tra “lavoro” e “riposo” (o “diporto”, turistico, natatorio, sessuale, ecc.), tipico anche questo della sindrome dell’intellettuale tardo-capitalistico. Così non posso far niente per convincere Grassi e de Bosio che la Betìa è opera di un Ruzante “altro”, ancora romanzo e umanistico-quattrocentesco […], e che è impossibile allestire la rappresentazione di un testo di quella difficoltà in meno di 25 giorni. […] Grassi in preda a delirio dittatorio, in una girandola di porcodio e di pugni sul tavolo che non fanno più paura a nessuno, Squarzina che elimina fino all’ultimo dei suoi assistenti con l’aria tra il bell’indifferente e l’angelo che finge di non capire, Chiesa (per il quale nutro il più profondo rispetto) con cappello e bastone, Strehler (il nostro venerato maestro) che prima si vota alla “fraternal compagnia” e al teatro povero[19] (maledetto Grotowski e tutti i Living di questo mondo,[20] se questi sono i risultati), poi ci ripensa e passa senza combinar niente al peggior carrozzone pubblico d’Italia [allude alla RAI]; Torino che sostituisce il povero de Bosio […] e schiera cinque (dico cinque) finti direttori artistici. […] Facciamoci un po’ i conti addosso, stiamo zitti e impariamo una buona volta, sul serio, a radicalmente contestarci. 

Parole polemiche e amare, che sottolineavano la crisi del teatro italiano a gestione pubblica. Parole a tratti commoventi. Lucidità ed etica: un binomio che ha indotto Claudio Meldolesi, lavorando proprio su questo documento, a valorizzare l’importanza di Zorzi-dramaturg nell’alveo delle esperienze della dramaturgie italiana del secondo dopoguerra: Guerrieri, Lunari, Morteo, Kezich (e altri).[21] A quella data (ripeto, 5 ottobre 1969) Zorzi prendeva atto con delusione e con rabbia dei limiti dei tre principali Stabili italiani (il Piccolo di Milano, lo Stabile di Genova, lo Stabile di Torino), della propria impotenza  decisionale in quei contesti e dei “vizi” della cosiddetta regia critica:[22] da Squarzina a De Bosio. Il primo era afflitto dalla sindrome lavorativo-vacanziera «dell’intellettuale tardo-capitalistico» e passava dal Goldoni di Una delle ultime sere di carnovale (27 settembre 1968, Venezia, teatro La Fenice), in cui, come si è accennato, tante intelligenti energie aveva profuso lo stesso Zorzi – penso specialmente alla mirabile scena della «meneghella» –,[23] al teatro-documento di Cinque giorni al porto di Faggi-Squarzina, con la collaborazione di Edoardo Fadini (1° aprile 1969, Genova, teatro Genovese), alla Turandot pucciniana (16 luglio 1969, Arena di Verona), ai goldoniani Rusteghi (27 settembre 1969, Venezia, teatro La Fenice), alla preparazione di Madre Courage e i suoi figli (che andò in scena in anteprima l’11 marzo 1970 al teatro Genovese).[24] Il secondo, da poco dimessosi dallo Stabile di Torino e sostituito da un comitato, i «cinque (dico cinque) finti direttori artistici»,[25] non comprendeva, nonostante la pluriennale assidua frequentazione del teatro di Ruzante (e di Zorzi storico e dramaturg), non comprendeva sino in fondo la Betìa da mettere in scena al Piccolo governato dall’efficientista Grassi. Intanto Strehler, il «venerato maestro» Strehler,[26] aveva attraversato la soglia del Sessantotto dimettendosi dal Piccolo e fondando il gruppo indipendente Teatro e Azione.[27] 

Le modalità produttive degli stabili e della regia nazionale non potevano più conciliarsi per lo studioso-dramaturg, che non credeva nemmeno nel Nuovo teatro, con i criteri di lavoro in lui determinati dalla ricerca scientifica e dalla esperienza alla Olivetti.[28] E Zorzi ne pativa, non intendeva adattarsi e si sentiva misconosciuto, offeso, intellettualmente vampirizzato. Ormai era lontano dal micromondo del teatro italiano e dai suoi abitatori. Lo tediavano quel pianeta e quella «fauna» teatrale: «Questo teatro (registi, attori, critici, autori, ecc.) non mi diverte e non mi interessa assolutamente più».[29] Il prediletto Ruzante era «“passato” in teatro sì e no per un quarto di ciò che valeva e significava»,[30] Goldoni doveva in larga misura ancora essere “scoperto”.[31] La forbice tra il fare teatro, la riflessione storica e la rigorosa idea di teatro zorziana si era troppo aperta. Un conto fare storia, un altro fare teatro. Zorzi non vedeva «alcun barlume di reciproca solidarietà tra due attività che considerava, almeno per lui, ormai inconciliabili».[32] 

In quel momento di radicale contestazione il far teatro era per lui parabola discendente, a fronte delle ascendenti esperienze culturali e scientifiche che aveva vissuto e stava vivendo e nelle quali cercava conforto. Naturale che il già ricordato successo della Betìa – rappresentata il 28 ottobre 1969 al Piccolo di Milano orfano di Strehler – non gli facesse in seguito mutare opinione.



[1]  Rielaboro qui, integrandole e aggiornandole, alcune riflessioni del mio Ludovico Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto, in «Drammaturgia», XI / n.s. I, 2014, pp. 9-137. Sullo studioso veneziano si veda inoltre R. FERRARESI, La rifondazione degli studi teatrali in Italia dagli anni Sessanta al 1985, Torino, Accademia University Press, 2019, passim. Su Zorzi e Ruzante v. da ultimo R. GUARINO, Ruzante e i sostrati della commedia rinascimentale, in La commedia italiana. Tradizione e storia, a cura di M.C. FIGORILLI e D. VIANELLO, con la collaborazione di R. AGOSTO e S.G. MALLAMACI, Bari, Edizioni di pagina, 2018, pp. 108-118: 111-116.

[2]  Cfr. L. ZORZI, «Les adieux» (a proposito del “Carnovale”) (1968), ora in ID., L’attore, la commedia, il drammaturgo, Einaudi, Torino 1990, pp. 275-289: 283; L. SQUARZINA, Una delle ultime sere di Carnovale (1968), ora in ID., La storia e il teatro, a cura di E. TESTONI, Carocci, Roma 2012, pp. 171-178 (per la consulenza di Zorzi: 177-178). E cfr. S. FERRONE, La vita e teatro di Carlo Goldoni, Marsilio, Venezia 2011, pp. 156-157; P. VESCOVO, Immediata felicità e didattica nostalgia. Squarzina e le allegorie goldoniane, in Luigi Squarzina studioso drammaturgo e regista teatrale. Atti del convegno internazionale di studi, tavole rotonde e lettura (Venezia, 4-6 ottobre 2012), Roma, Scienze e lettere, 2013, pp. 247-259 (su Zorzi: 252, 257-258); M. CAMBIAGHI, Una delle ultime sere di Carnovale di Goldoni per Luigi Squarzina, Pisa, ETS, 2017. Si vedano infine, più in generale, i riferimenti a Zorzi in L. SQUARZINA, Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e di sconfitte, Ospedaletto (Pisa), Pacini, 2005, pp. 294, 301, 313, 354, 424.

[3]  Codice Marciano Ital. cl. XI n. 66 (= 6730); Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia, Archivio Grimani-Morosini, n. 4 (già n. 362). E cfr. RUZANTE, Teatro, prima edizione completa. Testo, traduzione a fronte e note a cura di L. ZORZI, Torino, Einaudi, 1967, pp. 1612-1615 (Nota al testo), 1310-1360 (Note alla «Betìa»).

[4]  Così si legge nella Notizia sul manoscritto registrata nel programma di sala che ho tra i miei opuscoli (La Betìa di Angelo Beolco, detto il Ruzante, Piccolo Teatro di Milano, Milano [1969], p. n.n.). Cfr. poi: https://archivio.piccoloteatro.org/eurolab/index.php?IDtitolo=134#a (ultimo accesso: 15 aprile 2021); Ruzante sulle scene del ’900, a cura di S. BRUNETTI e M. MAINO, progetto e coordinamento di C. GRAZIOLI, Esedra, Padova 2006, pp. 114-119 (con bibliografia); L. ZORZI, Notizia sulla “Betìa” (1969), ora in ID., L’attore, la commedia, il drammaturgo, cit., pp. 126-138; A. CAMALDO, L’interregno di Paolo Grassi: gli spettacoli del Piccolo Teatro dal 1968 al 1972, in Il Piccolo Teatro di Milano, a cura di L. CAVAGLIERI, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 37-90: 56-60; A. BENTOGLIO, Gli anni del Piccolo Teatro, 1936-1972, in Paolo Grassi. Una biografia tra teatro, cultura e società, a cura di C. FONTANA, Milano, Skira, 2011, pp. 19-100: 73 ss. (per La Betìa: 84).

[5]  F. TAVIANI, Notizie introduttive a ID., Uomini di scena, uomini di libro. La scena sulla coscienza, Officina, Roma 2010, p. 9. E cfr. ID., Dalla scena al testo – conversazione aneddotica –, in Studi di Storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. MAZZONI, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 244-256.   

[6]  S. FERRONE, Scrivere per lo spettacolo, in Drammaturgia a più mani, «Drammaturgia», I, 1994, 1, pp. 7-22: 11.

[7]  G. DE BOSIO, Un trentennio di lavoro sul Ruzante, in Ruzante sulle scene italiane del secondo dopoguerra, catalogo della mostra a cura di G. CALENDOLI (Padova, 25 maggio-15 giugno 1983), Mogliano Veneto (Tv), Grafiche Piesse, 1983, pp. 29-48: 42.  Per la schematica scena a garitte, documentata dal disegno del Codice Marciano Ital. cl. XI n. 66 (= 6730), c. 173v., cfr. RUZANTE, Teatro, cit., pp. 1311 n.-1312 n.; L. ZORZI, Tra Ruzzante e Vitruvio (appunti sul luogo scenico di Casa Cornaro), in Alvise Cornaro e il suo tempo, catalogo della mostra a cura di L. PUPPI (Padova, 7 settembre-9 novembre 1980), Padova, Comune di Padova, 1980, pp. 94-104 (estratto). Per un quadro di riferimento: Gianfranco de Bosio e il suo teatro, a cura di A. BENTOGLIO, Roma, Bulzoni, 1995.

[8]  L. ZORZI, Storia di una scoperta (1977), riproposto in ID., L’attore, la commedia, il drammaturgo, cit., pp. 93-102: 101 (e si veda la nota seguente). Tra le recensioni allo spettacolo segnalo quella di R. DE MONTICELLI, La giostra amorosa del Ruzante: un felice ritorno (1969), ora in ID., Le mille notti del critico. Trentacinque anni di teatro vissuti e raccontati da uno spettatore di professione, a cura di G. DE MONTICELLI, R. ARCELLONI, L. GALLI MARTINELLI, II. 1964-1973, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 1007-1009 (per Zorzi: 1007).

[9]  G. DE BOSIO e L. ZORZI, Il Ruzante. Storia di una scoperta, Milano, Mondadori, 1977, opuscolo allegato all’audiolibro omonimo («Arte comica. Teatro», collana diretta da R. LERICI e G. NEGRI).

[10]  F. TAVIANI, Uomini di scena, uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Bologna, il Mulino, 1995, p. 223.

[11]  In A. D’AMICO, Testimonianza, in Ludovico Zorzi e la “nuova storia” del teatro, a cura di S. MAMONE, «Quaderni di teatro», VII, 1985, 27, pp. 5-6: 6.

[12]  ZORZI, «Les adieux», cit., p. 282.

[13]  D’AMICO, Testimonianza, cit., p. 5.

[14]  Ivi, p. 6.

[15]  Cfr. C. MELDOLESI-R.M. MOLINARI, Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote. Dalla Germania all’area italofrancese, nella storia e in un percorso professionale, Milano, Ubulibri, 2007, p. 116; D’AMICO, Testimonianza cit., p. 6.

[16]  Cfr. MAZZONI, Ludovico Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto, cit., pp. 49-50.

[17]  Lettera di Sandro d’Amico a Ferdinando Taviani, Roma, 4 dicembre 2001. Nel 2013 la lettera mi fu affettuosamente trasmessa in copia, assieme a quella di Zorzi, dal carissimo Nando Taviani: un interlocutore perduto cui va il mio pensiero.

[18]  Cfr. L. SQUARZINA, «I Rusteghi» (1969), ora in ID., Da Dioniso a Brecht. Pensiero teatrale e azione scenica, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 100-120 (106, 112, 115, 118, per le osservazioni di Zorzi).

[19]  Cfr. J. GROTOWSKI, Per un teatro povero (1968), prefazione di P. BROOK, Roma, Bulzoni, 1970. Ozioso, in questo contesto, convocare la agguerrita bibliografia sul maestro polacco.

[20]  Di lì a poco (20 ottobre 1969) avrebbe avuto luogo a Torino, al teatro Alfieri, la “prima” italiana di Paradise Now.

[21]  Cfr. MELDOLESI-MOLINARI, Il lavoro del dramaturg, cit., p. 116.

[22]  Per la regia critica è ancora d’obbligo il rinvio a C. MELDOLESI, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984, pp. 145-167, 261-298. Il vol. è stato opportunamente riproposto da Bulzoni nel 2008.

[23]  Cfr. ZORZI, «Les adieux», cit., pp. 277, 284, 288 n.-289 n.; SQUARZINA, Una delle ultime sere di Carnovale, cit., p. 178.

[24]  Per i cast di tali spettacoli cfr. Luigi Squarzina e il suo teatro, a cura di L. COLOMBO e F. MAZZOCCHI, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 344-346, 362.

[25]  Giuseppe Bartolucci, Daniele Chiarella, Federico Doglio, Nuccio Messina, Gian Renzo Morteo: cfr. e.g. S. MARGIOTTA, Il Nuovo teatro in Italia 1968-1975, introduzione di L. MANGO, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2013, pp. 71-73.

[26]  Sul magistero di Strehler ha scritto pagine dense di pensiero S. FERRONE, Strehler, in Maestri e scuole. Istruzioni per l’uso, «Drammaturgia», V, 1998, 5, pp. 7-15. Cfr. poi G. STREHLER, Autobiografia per immagini, a cura di P. BOSISIO e G. SORESI, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2009; A. BENTOGLIO, 20 lezioni su Giorgio Strehler, Imola (Bologna), CUE press, 2020 (con bibliografia aggiornata) .

[27]  Cfr. ivi, pp. 152-163; MAZZONI, Ludovico Zorzi. Profilo di uno studioso inquieto, cit., p. 52 e note 256-257.

[28]  Per Zorzi alla Olivetti: ivi, in partic. pp. 59-72.

[29]  Cito ancora dalla lettera di Zorzi a D’Amico: ivi, p. 50.

[30]  Ibid.

[31]  Cfr. ibid.

[32]  S. MAMONE, Prologo. Storia dello spettacolo: il testimone preterintenzionale (1992), ora in C. BINO et al., Forme dello spettacolo in Europa tra Medioevo e Antico Regime, Perugia, Morlacchi, 2018, pp. 7-14: 7-8.



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