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Stefano Mazzoni

Per la storia del teatro Olimpico di Vicenza e dello «Stanzone delle Commedie» di Livorno. Fonti, questioni, metodi

Data di pubblicazione su web 10/12/2009
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Quante volte, caro Lionello, camminando per le vie di Vicenza o seduti a un tavolo di un’accogliente Malvasia nei pressi della piazza dei Signori, abbiamo parlato delle fonti e della storia dell’Olimpico! Eravamo immersi nell’avventura archivistica (ed editoriale) del volume di Licisco per il Novum Corpus Palladianum. Sono lontane quelle giornate. Sono accadute tante cose, ma il ricordo del tuo incoraggiamento, dei tuoi suggerimenti, del tuo aiuto e del tuo affetto è intenso. Mi accompagna e mi conforta anche adesso. Una volta, nel maggio 1992, mi regalasti un libro su un Maestro del Novecento: Vicenza per Otello De Maria, 60 anni di pittura. Nella dedica scrivesti che entrambi “abitavamo” nel Cinquecento. Di parte delle nostre conversazioni palladiane e di quelle avventure tra le carte cinquecentesche ho cercato di rendere partecipi, nel maggio 2001, i miei studenti dell’Università di Firenze durante un seminario che ci ha portati all’Olimpico e nel teatro di Sabbioneta. In quei giorni, ancora una volta, il pensiero è andato a te, amico carissimo. Perciò ho pensato di dedicarti questi appunti colloquiali sollecitati dai giovani amici che avevo accompagnato nei teatri veneto-padani del Cinquecento e che, al rientro, mi chiedevano, a consuntivo di quell’esperienza, una riflessione sulle fonti dell’Olimpico.

Tanti auguri, Lionello. Un abbraccio affettuosissimo (anche a Luisa e Massimiliano) dal tuo Stefano.

 

1. Temi e problemi 

Oggi porremo una lente d’ingrandimento su un argomento in parte indagato nella gita-seminario ai teatri veneto-padani del Cinquecento. Adotteremo un punto di vista “operativo”: vedremo dove e come si possa studiare l’Olimpico di Vicenza. Cercheremo di render conto della complessità dei temi d’indagine (e dei conseguenti inevitabili problemi) che si presentano a chi intenda analizzare quel teatro insigne e la sua inaugurazione. Temi e problemi, dicevo. Si tratta di un binomio ricorrente. Credo che ognuno di voi abbia già avuto modo di constatarlo. In ogni indagine – una volta superato lo smarrimento iniziale che coglie tutti gli studiosi – ci troviamo di fronte nell’organizzare il pensiero o le schede di spoglio della bibliografia o delle fonti o nel redigere la stesura finale del lavoro, ci troviamo di fronte ai temi che abbiamo individuato e tesaurizzato nel corso delle ricerche. A questo punto respiriamo profondamente e ci tuffiamo più a fondo nel passato, librandoci in una sorta di à rebours kubrickiano[1] in bilico «tra l’amore sfiduciato per la Storia […] e l’amore, non meno sfiduciato, di vivere».[2] Gli antichi oggetti culturali[3] che andiamo indagando pian piano si illuminano, non sono più estranei; cominciano a “parlare”, ad avere un qualche senso anche per noi ormai così lontani dalla loro genesi; raccontano storie (temi, appunto) talvolta affascinanti, talvolta noiose, spesso insospettate. 

Scopriamo ad esempio, nel caso dell’Olimpico, che per tentare di decifrare il programma iconografico della sala e i meccanismi di produzione e fruizione dell’Edipo tiranno, andato in scena nel marzo 1585, non basta soffermarsi su architettura teatrale, décor, scenografia, scenotecnica, illuminotecnica, drammaturgia, attori, costumistica, tecniche recitative e musicali, pubblico. Occorre andare più in là, cercando di fare interagire questi elementi, che pure sono fondamentali, con la mentalità di coloro che promossero l’evento spettacolare e ammisero quel pubblico nel teatro voluto dall’Accademia Olimpica. Procedendo su questa strada ci rendiamo conto, come sapete, che una chiave interpretativa imprescindibile è la nozione di impero (figg. 1-3). 

Per immaginare[4] cosa pensarono e provarono gli accademici e i loro ospiti (autorità veneziane comprese) in quella lontana giornata di carnevale possiamo sottovalutare un segnale di tale forza evocativa? Non credo. Dobbiamo invece rifarci a un’idea forte della cultura cinquecentesca: quell’idea di impero[5] apparentemente lontana dall’Olimpico (e infatti a lungo trascurata dagli studiosi del teatro palladiano), ma che in un’ottica contestuale attenta alla mentalità e alla ideologia dei committenti e dei destinatari si rivela essenziale. 

Una volta accertato il tema imperiale sorgono i problemi. Veniamo così alla seconda parola del nostro dittico investigativo; e prendiamo atto che l’individuazione di un tema porta con sé molteplici questioni a esso collegate a doppio filo. Ad esempio, per rimanere al nostro caso specifico: chi è il personaggio ammantato da segni manifestamente imperiali? perché la statua è posta in corrispondenza della prospettiva centrale della “scena di città” scamozziana conclusa un tempo da un arco trionfale sormontato da un monumento equestre (fig. 4)? come “interagiva” la statua con il testo sofocleo recitato dagli attori nel volgarizzamento del Giustiniani? perché in un teatro costruito in una città soggetta alla Serenissima fu costruito un teatro palesemente filoimperiale? chi commissionò quella statua con simili fattezze e simboli? Ancora: chi eseguì quella scultura? quale il valore prossemico di tale scultura in rapporto all’udienza e alla scena? Quale, in sostanza, il progetto ideologico e culturale degli aristocratici committenti vicentini? Cosa intendevano rappresentare costoro con la paludata esibizione pietrificata di sé stessi nelle statue dell’Olimpico e con la messa in scena dell’Edipo tiranno? Le risposte le abbiamo in parte già date a Vicenza, durante il nostro seminario.[6] Ora conta rilevare il procedimento che ha portato a formulare quelle risposte. 

Partiamo, più in generale, da un “vecchio” (ma ancora attuale) libro di Manfredo Tafuri, L’architettura dell’Umanesimo.[7] Nella prima parte vi si delineano le vicende storiche, nella seconda si ragionano, in simbiosi alle vicende, alcuni nodi centrali (temi e problemi, appunto) dell’architettura rinascimentale e manieristica: architettura e città, architettura e ideologia, architettura e simbolismo, architettura e teatro, trattatistica, tipologie, modelli, antirinascimento, anticlassicismo e manierismo, architettura, scienza e tecnologia. Si arriva dunque, pur nell’ambito di una dichiarata operazione di sintesi, a uscire dagli schemi manualistici cogliendo la complessità che accompagna il lavoro storico. Perciò vi consiglio di leggere questo volume che ha ispirato molte delle migliori inchieste teatrologiche sul Cinquecento italiano[8] e che dimostra come lo studio delle vicende storiche possa/debba essere proficuamente organizzato per temi e problemi che con la loro ricchezza culturale moltiplicano i punti di vista liberandoci dalle secche dei settorialismi disciplinari. 

2. Il ritorno alle fonti 

Aggiungo che ogni ricerca rigorosa (incluse le vostre future tesi di laurea) deve basarsi su indagini e interpretazioni originali. Il che vuol dire, in primis, rifarsi, implacabili, alle fonti. Non consegnate il vostro giudizio alle costruzioni storiografiche precedenti. Mettetele in discussione. Ripercorrete di persona i documenti già noti, verificateli, cercate altre piste, perseguite con tenacia altri filoni di indagine. Occorre seguire il filo d’Arianna della curiosità archivistica e avere l’umiltà (e il coraggio) di sottoporsi a un disciplinato training tra le fonti. Solo così, senza consegnare il nostro giudizio allo sguardo altrui, senza affidarsi a indagini pregresse “orientate” dal punto di vista dello scrutatore, solo in tal modo, dicevo, potremo tentare di gettare su basi nuove solide fondamenta per la nostra giovane disciplina, la storia del teatro e dello spettacolo. Non si tratta di anacronistico feticismo documentario di sapore neopositivista, ma della consapevolezza ermeneutica che soltanto «attraverso le scelte e i raffronti che opera, lo storico attribuisce un senso inedito alle parole strappate al silenzio degli archivi».[9] Diffidate da chi dice che un argomento è del tutto esplorato. Nella maggior parte dei casi non è vero. Le ricerche di prima mano (nelle biblioteche negli archivi nei musei ecc.) danno sempre i loro frutti. Consentono di scoprire nuovi materiali, di verificare, rettificare o innovare le precedenti interpretazioni misurandosi coi documenti originali (diretti o indiretti, manoscritti o a stampa, letterari, archivistici, iconografici, ecc.). È questa l’unica metodologia che, in tutta coscienza, mi sento di suggerirvi. Basta stare attenti a non disperdersi tra le carte (può capitare), a non “affezionarsi” in modo eccessivo ai documenti e ai propri argomenti di studio; dobbiamo sempre mantenere un ragionevole distacco critico. 

D’altronde la minuzia dell’indagine d’archivio non è di per sé garanzia di un buon lavoro. Non basta reperire i materiali. Bisogna vagliarli con attenzione, creare tra essi un’indispensabile gerarchia. Bisogna selezionarli e interpretarli: cosa è davvero importante tra i materiali censiti? quali sono i documenti che determinano un effettivo avanzamento degli studi? In breve: al censimento e all’analisi delle fonti deve sempre seguire l’indispensabile sintesi interpretativa. È vero invece che troppo spesso si producono sintesi acritiche che non conoscono il “profumo” delle fonti. Non c’è niente di scientificamente meno produttivo. La ricerca è altra cosa. Il documento va inseguito da presso, va interpretato inserendolo nel contesto storico-culturale in cui venne stilato, valutando l’intenzionalità, l’attendibilità (da verificare con comparazioni e controlli incrociati) e i modi di produzione del cosiddetto documento/monumento.[10] 

3. La mappa delle fonti e le scienze dello spettacolo 

Torniamo all’Olimpico e tracciamo quella che mi piace chiamare la “mappa” delle fonti. Perché all’inizio di un lavoro scientifico la prima cosa da fare, a mio parere, è proprio questa: delineare (basandosi sugli esiti delle prime letture compiute) una “carta geografica” dei luoghi e degli strumenti della ricerca, uno schema che consenta di identificare e programmare il paziente percorso investigativo da compiere. Oggi avremo modo di fornire un esempio concreto illustrando un caso significativo sia per la sua importanza artistica sia per la qualità e la quantità della documentazione disponibile. 

Disegnando la mappa delle fonti sull’Olimpico e la sua inaugurazione faremo il punto su un più ampio spettro di questioni perché le vicende della progettazione, dell’edificazione e della messinscena vicentina del 1585 sono inscindibili, si è visto, da quelle della committenza, dei destinatari, del contesto storico-culturale. È questo un punto metodologico centrale. La storia del teatro non deve articolarsi in molteplici piccole storie settoriali decontestualizzate. Mi spiego meglio. Non dobbiamo parcellizzare gli statuti del teatro (lo spazio, l’attore, la drammaturgia, la committenza, il pubblico) ma farli interagire. In una parola: fonderli. La storia dello spettacolo è storia unitaria. È storia di relazioni, storia dei rapporti (tra persone e persone, tra persone e istituzioni, tra persone e oggetti culturali) che contribuirono a determinare gli spazi teatrali e i fenomeni spettacolari. Non dimenticate mai i committenti e gli artisti-artigiani, vale a dire gli individui che animarono quegli spazi e li resero densi di significati e di vitalità con la loro cultura, le loro ambizioni, le loro liti, i loro sogni, le loro competenze tecnico-esecutive. Non idealizzate i rapporti tra costoro, storicizzateli.[11] I teatri e gli spettacoli non sono avulsi dalla storia, dalla cultura, dagli uomini (gli individui, i gruppi). Sono collegati alle civiltà. Alla storia dei grandi e a quella degli umili, alla storia “alta” come a quella “dal basso”; alla storia orale e a quelle del corpo e della vita quotidiana.[12] Un fondatore delle scienze dello spettacolo, Ludovico Zorzi,[13] raccomandava ai suoi scolari di porsi sempre una semplice domanda: «cosa c’era attorno al fenomeno spettacolare che stiamo indagando?». È nostro compito, allora, in primo luogo, cercare di documentare e decifrare la realtà storica di un’epoca, la sua storia materiale, il suo clima culturale e artistico, la mentalità dei committenti, degli artisti, del pubblico, i loro gusti, le loro inclinazioni ideologiche e culturali. Per restituire spessore ai nostri argomenti e avere maggiori chances di interpretarli in modo corretto giovano anche le pratiche della microstoria fondate su un continuo confronto tra teorie storiografiche e scienze umane. Si pensi, ad esempio, alla thick description (la descrizione densa enunciata da Clifford Geertz in ambito antropologico) che mira alla costituzione di repertori di materiali «descritti densamente, resi cioè intellegibili dal loro inserimento nel contesto».[14] 

Storia unitaria globale e contestuale di un fluido e sincronico sistema di relazioni.[15] Credo sia questo l’approccio migliore per cercare di restituire le complessità e la ricchezza delle molteplici storie dei teatri e degli spettacoli nei tempi lunghi della storia. Dovremo allora indagare, di volta in volta, caso per caso, senza instaurare astrazioni, le relazioni tra i luoghi e le forme dello spettacolo, tra gli spazi del teatro e le persone che li vissero, con l’obiettivo di cercare di svelare le drammaturgie (ossia le strategie creative, i procedimenti esecutivi)[16] degli spazi e delle performances. Poi potranno venire anche le sintesi complessive, le auspicabili visioni d’insieme;[17] ma la geografia e la storia degli spazi teatrali non devono essere confinate negli “steccati” delle sole tipologie architettoniche e scenografiche. Quelle tipologie devono interagire con la vita che le animò, con i meccanismi di produzione, realizzazione e fruizione delle rappresentazioni. Le pietre dei teatri non sono scisse dagli uomini. Erra la storiografia che instaura una dicotomia tra gli spazi e le forme spettacolari. I teatri come i documenti sono luoghi della memoria. Se li studiamo in una prospettiva unitaria e multilineare possono raccontarci tante vicende, ambizioni, delusioni, speranze, avventure individuali e collettive, tasselli di un puzzle comunque solo in parte ricomponibile. Sappiamo infatti che siamo alla ricerca di «sogni perduti», di cui ci affanniamo a mettere insieme i pezzi, ma ci manca sempre qualcosa.[18] Consapevoli di ciò percorriamo la “mappa” delle fonti.  

La prima fonte di cui disponiamo per la storia dell’Olimpico è il teatro stesso. Come per il teatro di Sabbioneta dello Scamozzi e a differenza del buontalentiano Mediceo degli Uffizi, abbiamo la fortuna di disporre della fonte principe: l’edificio teatrale con i suoi spazi, le sue architetture, le sue scenografie, i suoi partiti decorativi sopravvissuti nel corso dei secoli alle alluvioni e agli eventi bellici. Sembrerebbe lapalissiano (e doveroso) partire da uno studio ravvicinato della fabbrica palladiano-scamozziana. Eppure spesso non è andata (e non va) così. Chi legga la sterminata bibliografia sull’Olimpico (o quella sul teatro di Vespasiano Gonzaga) si rende conto che molte pagine sono di riporto, scritte da estensori frettolosi che non hanno effettuato una visita attenta o, talvolta, non si sono nemmeno presi la briga di recarsi sul posto. Senza arrivare al caso paradossale (ma vero), che tanto stupì Gordon Craig, di quella “voce” di una vecchia edizione della Britannica che dava per distrutto il teatro di Sabbioneta.[19] Occorre, dunque, privilegiare l’oggetto concreto (l’edificio), fare i conti con la realtà dello spazio (un buon modo per non farsi prendere la mano dalla fantasia), con il problema delle eventuali preesistenze (capitale nel caso di Palladio), con le stratificazioni e le modificazioni rispetto al progetto originario avvenute in corso d’opera e nei successivi restauri. È opportuno lavorare in équipe. Nessuno di noi, da solo, dispone di competenze sufficienti. Scrive March Bloch in quel fondamentale breviario storico che resta tutt’oggi l’Apologia della storia o Mestiere di storico:

 

«per grande che sia la varietà di conoscenze dei ricercatori meglio preparati, esse troveranno sempre, e di solito assai presto, i loro limiti. Non c’è allora altro rimedio fuorché quello di sostituire alla molteplicità delle competenze in uno stesso uomo un’alleanza delle tecniche praticate da studiosi diversi, ma tutte rivolte all’illustrazione di un unico tema. Questo metodo presuppone il consenso al lavoro per squadre. Esige anche la definizione preliminare, ottenuta di comune accordo, di alcuni grandi problemi dominanti. Siamo ancora troppo lontani da simili conquiste. Eppure esse determineranno in gran parte, non vi è dubbio, l’avvenire della storiografia».[20]

 

Nel caso dell’Olimpico, ad esempio, era indispensabile eseguire nuovi rilievi del monumento. Come prevedibile hanno integrato con efficacia gli esiti raggiunti dalla parallela nuova ricerca documentaria. Occorrevano, dunque, non solo storici dello spettacolo e dell’arte, ma anche storici dell’architettura in grado di far “parlare” i tessuti murari, distinguere con esattezza le murature medievali da quelle innalzate prima da Palladio e da suo figlio Silla e poi da Scamozzi (figg. 5-8). In questo incontro di competenze mi sembra si possa individuare uno degli elementi salienti del volume di Licisco Magagnato.[21] 

Le riflessioni suscitate dalla fabbrica e dal suo décor devono interagire coi documenti. Ma dove e come rintracciarli? E soprattutto: siamo in grado di farli parlare? li sappiamo interrogare adeguatamente?[22] In tutte le avventure d’archivio dobbiamo partire da un dato di fatto. Di norma la casualità e la fortuna sono fattori secondari. Solo i dilettanti pensano il contrario (vi confesso che mi innervosisco quando sento parlare di fortuna a questo riguardo da chi, evidentemente, non ha consuetudine con gli archivi): 

«Nonostante ciò che talora sembrano credere i principianti, i documenti non saltan fuori, qui o là, per effetto di chissà quale imperscrutabile volere degli dèi. La loro presenza o la loro assenza, in un fondo archivistico, in una biblioteca, in un terreno, dipendono da cause umane che non sfuggono affatto all’analisi, e i problemi posti dalla loro trasmissione, nonché non essere soltanto esercizi per tecnici, toccano essi stessi nell’intimo la vita del passato, perché ciò che si trova così messo in gioco è nientemeno che il passaggio del ricordo attraverso le successive generazioni».[23] 

Sta a noi, dunque, dotarci di adeguati strumenti di conoscenza sia per individuare i luoghi di conservazione delle fonti sia per sapere quel tanto che basta per rintracciarle e renderle eloquenti. Chi si limiti a raccogliere materiali senza preordinare un piano di azione e senza poi sapere interpretare i documenti rintracciati intraprende una ricerca forse generosa ma senz’altro ingenua (quando non inutile). Rischia di fraintendere, o addirittura di non vedere quello che sta cercando. Per quanto riguarda l’individuazione delle fonti uso ancora parole di Bloch:     

«Uno dei più difficili compiti dello storico è la raccolta dei documenti di cui ritiene di aver bisogno. Non potrebbe riuscirvi senza l’aiuto di guide diverse: inventari di archivi o di biblioteche, cataloghi di musei, repertori bibliografici di ogni genere. Talvolta, si vedono pedanti alquanto insolenti stupirsi del tempo sacrificato sia da alcuni eruditi a comporre simili opere, sia da tutti gli storici a conoscerne l’esistenza e l’impiego. Come se, grazie alle ore impiegate così per mansioni che, pur non essendo prive di una certa attrattiva nascosta, mancano sicuramente di scintillio romanzesco, non si risparmiasse in definitiva il peggiore sciupio di energie».[24] 

Vi sono degli strumenti che è obbligatorio conoscere. Eviteremo così di perdere ore e ore per poi scoprire l’acqua calda. Per le biblioteche e gli archivi italiani esistono utili punti di partenza “preventivi”.[25] Anche se poi è indispensabile integrare le informazioni lì registrate con le indicazioni reperite direttamente sul posto mediante lo spoglio minuzioso e giudizioso dei cataloghi, degli inventari antichi e moderni (manoscritti, dattiloscritti, a stampa, informatici) e dei repertori speciali relativi a un determinato archivio o a una determinata biblioteca (non entro nel dominio web delle banche dati che, ormai, meriterebbe un discorso a sé). Come è indispensabile tenere presenti le informazioni fornite dai funzionari di tali istituzioni. 

Istituzioni che, per quanto riguarda l’Olimpico, sono molteplici e non ubicate solo a Vicenza. Ricordo almeno l’Archivio di Stato e la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia, la Biblioteca Apostolica Vaticana di Roma (con materiali sui testi in ballottaggio per lo spettacolo inaugurale), la Biblioteca Ambrosiana di Milano (conserva il progetto dell’Ingegneri per la messinscena vicentina dell’Edipo), il fiorentino Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi (custodisce quattro disegni autografi dello Scamozzi per la scenografia ideata in funzione della tragedia sofoclea) e, a Londra, il Royal Institute of British Architects (conserva, tra l’altro, il progetto palladiano, ossia il “modello” del teatro, l’unica testimonianza grafica del pensiero del Maestro patavino). Dobbiamo fare i conti, quindi, con un palese fenomeno d’intersezione documentale. Fenomeno che si riscontra in modo macroscopico proprio a Vicenza dove le fonti non sono concentrate in un solo luogo ma conservate in sedi culturali diverse: l’Accademia Olimpica, l’Archivio del Municipio, la Civica Biblioteca Bertoliana, l’Archivio di Stato, il Museo Civico costituiscono altrettante miniere di informazione. E una ricerca corretta deve tener conto della reciproca integrabilità dei luoghi e dei fondi documentali.[26] 

Per quanto riguarda l’archivio presso la sede dell’Accademia Olimpica avverto che per noi, in questa occasione, ha un interesse minore perché, in linea di massima, raccoglie carte del XIX secolo e dei nostri giorni. Esiste comunque un utile inventario.[27] 

Diverso il caso dell’Archivio del Municipio a palazzo Trissino. Le filze concernenti l’Accademia Olimpica riguardano in prevalenza la vita otto-novecentesca del sodalizio e del suo teatro, ma contengono copie, regesti e stralci di documenti antichi che meriterebbero ulteriori spogli. 

Ma è la Civica Biblioteca Bertoliana il cuore della nostra inchiesta. La Bertoliana è una delle più ricche biblioteche del Veneto. Fondata nel 1696 si accrebbe con la cospicua raccolta dei marchesi Gonzati e con altri materiali. È il luogo di conservazione primario per il nostro tema perché ha in custodia l’Archivio Antico dell’Accademia, ossia i documenti accademici stilati dal Cinque all’Ottocento custoditi in nove buste del fondo intitolato Accademia Olimpica (=A.O., b. 1-9, fasc. 1-96).[28] Fondamentali per lo studio delle vicende costruttive e dell’allestimento dello spettacolo inaugurale risultano in particolare i fascicoli n. 4 (libro segnato D, copre gli anni 1579-1582) e n. 5 (libro segnato E, copre gli anni 1582-1586). Si tratta dei verbali accademici originali: documenti preziosi ma ancora in attesa di pubblicazione integrale e noti, sino a non molti anni fa, solo tramite copia ottocentesca.[29] Vanno poi segnalati, sempre nel fondo A.O., i documenti conservati nel fasc. n. 1 (libro segnato A, cinquecentesco) e nel fasc. n. 70 (Atti dell’Academia Olimpica. Da l’Anno 1600 in poi): contengono notizie fondamentali sull’edificazione, sulle vicende costruttive successive e sulle forme dello spettacolo. Hanno consentito di attribuire definitivamente le scene dell’Olimpico a Scamozzi e di datare al Seicento (e non al secolo precedente) l’edificazione dell’odeo accademico che abbiamo visitato insieme.[30] 

Come mai queste fonti, decisive per sciogliere problemi molto dibattuti, sono state trascurate sino a tempi recenti nonostante che alcune di esse siano reperibili addirittura nel primo fascicolo della prima busta del fondo? Perché si era creata un’impasse storiografica che fa venire alla mente le poliziesche aporie investigative descritte magistralmente da Poe nel celebre racconto della Lettera rubata che, a ben vedere, era in bella evidenza sotto gli occhi di tutti come svela l’acuto investigatore-artista August Dupin? Sostanzialmente per due ragioni che mi sembrano esemplari anche in un’ottica più generale: a) come potete vedere dalla foto che vi è stata distribuita la grafia di Pompeo Trissino[31] che attesta la paternità scamozziana delle prospettive è ostica (fig. 9). Sicché gli studiosi, che pure hanno consultato queste carte, non hanno avuto la pazienza di decifrare una scrittura di difficile lettura (capite meglio, allora, perché sia indispensabile rifarsi di persona alle fonti). b) A uno sguardo superficiale un’accurata indagine d’archivio sull’Olimpico poteva sembrare superflua a fronte dell’esistenza di una vasta bibliografia. Le cose stanno altrimenti. A riprova consiglio un esperimento: recatevi presso la sala manoscritti della Bertoliana. Scoprirete l’esistenza di “schedoni” relativi al fondo A.O., ovvero di schede che registrano i nominativi di coloro che hanno consultato il fondo. Consultate poi una bibliografia sull’Olimpico: constaterete che molti studi sono privi di basi documentarie[32] quando, di frequente, basta un percorso archivistico per risolvere tante accese dispute storiografiche. 

Ne deriva che le indagini archivistiche è opportuno compierle, e compierle di persona. Affidare ad altri il lavoro “investigativo”, ossia il reperimento e la trascrizione delle fonti, è rischioso; di più: è metodologicamente controproducente, come riproporre in modo inerte documenti e testi già editi (che, invece, nella maggior parte dei casi, vanno controllati e ridiscussi). Lo sanno bene i filologi (quelli veri) che si guardano dal delegare la collazione dei testimoni. Si veda il Breviario di ecdotica di Gianfranco Contini.[33] Che senso avrebbero lo stemma codicum e l’edizione critica di un testo fondati su altrui collazioni? Non si può collazionare un testo senza assumere, anche inconsapevolmente, la veste di trascrittore. E come escludere la possibilità di errori di trascrizione? Ne consegue che non si può delegare ad altri la collazione dei testimoni, per non correre il rischio di assumere errori altrui. Filologia e critica, per usare un fortunato titolo di Lanfranco Caretti, sono inscindibili, preliminari l’una all’altra.[34] E si può andare più in là. Non si tratta solo di possibili errori di trascrizione. Spesso i nuovi documenti si rintracciano e si interpretano correttamente solo utilizzando logiche di lavoro dettate dalla ricognizione in loco, dalla chimica cerebrale individuale, dalle concatenazioni di pensiero e dai percorsi tra le fonti sollecitati dall’inchiesta “sul campo”: «I problemi non si risolvono passandoli ad altri», diceva Aby Warburg a Fritz Saxl.[35] E Warburg conosceva bene pure gli archivi.[36] L’osservazione individuale diretta, paziente minuziosa lenticolare, della fisicità del “reperto” è basilare: Ivan Lermolieff (alias Giovanni Morelli, il conoscitore d’arte), Freud e Holmes ci hanno insegnato come (e quanto) gli “scarti”, gli indizi impercettibili ai più, i dati apparentemente secondari possano essere spie rivelatrici del sapere indiziario.[37] Lo testimonia anche una pagina di Lionello Puppi che mi piace rileggere con voi: 

«Per quanto possa affaticare la memoria, mi sarebbe impossibile indicare quanti giorni io abbia trascorso, in una delle sale di consultazione dei manoscritti della Bibliothèque Nationale di Parigi, chino su un codice, che si vuol datare alla fine del secolo XII (reca la criptica segnatura Beatus N. a 1.2290), aperto ai fogli 13v e 14r che una miniatura accolgono, rappresentante la mappa del mondo. Avvertivo che quell’immagine proponeva un enigma; m’affaticavo, sino a restarne stremato, a decifrarlo. Dovevano scuotermi la sera, alla chiusura di cui non avevo udito l’annuncio scampanellante, i sorveglianti; l’indomani, non appena venivano spalancati i battenti del maestoso palazzo, correvo al tavolo che m’era stato assegnato e con impazienza aspettavo che il pesante volume pergamenaceo fosse prelevato dallo stipo ov’era stato riposto e fosse nuovamente collocato sul leggío. Talora, d’improvviso, la soluzione del mistero mi pareva, per dir così, a portata di mente, e financo piana, ovvia: ma era solo un lampo abbagliante, che m’esplodeva dentro, per spegnersi subito in desolazione di tenebre; e ricominciava, estenuante ed inutile, il rovello. Infine, compresi».[38] 

Un bell’esempio di metodo, d’inevitabile “febbre” da ricerca e di perseverante tensione ermeneutica individuale. Dissento, dunque, dall’istituto generalizzato della delega (come dalle esasperate astrazioni metodologiche preventive). Il che non vuole dire, si badi, operare in solitudine. Abbiamo sottolineato, con Bloch, come sia decisiva l’«alleanza delle tecniche praticate da studiosi diversi». È vero: il gioco di squadra è indispensabile, ma lavorare in équipe non significa delegare ad altri il lavoro di base (quello ritenuto, a torto, di “manovalanza”, poco gratificante). Significa, invece, condividerlo lavorando con umiltà, fianco a fianco, in armonia, senza instaurare egemonie arroganti, ripartendo con rigore scientifico e onestà intellettuale i ruoli e le diverse competenze disciplinari. 

Oltre al fondo A.O., in Bertoliana si trovano altre fonti interessanti. Le trovate registrate nella bibliografia del volume di Magagnato.[39] Se non disponeste di questo lavoro potreste reperirle, con pazienza e un po’ di fatica, spulciando soprattutto gli inventari ottocenteschi della biblioteca (consultabili nella ben organizzata sala manoscritti)[40] ma anche compulsando il più recente catalogo a schede dattiloscritte dei manoscritti della sezione Gonzati, oppure il sempre utilissimo Mazzatinti:[41] un altro punto di riferimento da non dimenticare (valga d’esempio la missiva di Aleotti sull’Olimpico diligentemente segnalata in questo repertorio sin dal 1892 ma ignorata per un secolo) (fig. 10).[42] 

Prima di lasciare la Bertoliana mi preme sottolineare l’importanza di ulteriori tipologie documentali. Penso alla raccolta di mappe o ai fondamentali Libri di Parti (gli atti dei Consigli cittadini cinquecenteschi) conservati nel cosiddetto Archivio di Torre, ovvero nell’Archivio Storico del Comune in gran parte confluito nella biblioteca Civica. Ma penso soprattutto a un ms. che si trova nel fondo Gonzati: la cronistoria dell’Accademia Olimpica compilata da un erudito settecentesco, l’abate vicentino Bartolomeo Ziggiotti.[43] Non siamo più in presenza degli atti coevi agli eventi, stilati di volta in volta dal segretario del sodalizio, ma di un consuntivo seriore. Una fonte tarda, da accogliere con la massima cautela senza per questo sottovalutarla. Certo la penna dello Ziggiotti talvolta maschera i fatti, idealizza gli eventi (è il caso della fantasiosa notizia sui solenni funerali di Palladio, come ha dimostrato un lucido saggio di Puppi),[44] talaltra fraintende (si pensi al fuorviante centone circa il palladiano «modello […] e disegno parimenti delle Prospettive» derivato da un’erronea lettura dei documenti originali e iterato dalla critica sin troppo a lungo)[45] ma, a dispetto di questi limiti, l’autore dà vita a un ricco quadro d’insieme per la storia della accademia e del suo teatro. Un quadro per certi aspetti insuperato perché fondato su molteplici fonti: talvolta trascritte, talvolta riassunte, di norma indicate via via a margine del ms. È questo il punto di maggiore interesse. Seguendo i “segnali” posti ai margini delle pagine spesso siamo in grado di risalire alle fonti originali, di recuperare referenze documentali che altrimenti sarebbero di difficile (o impossibile) reperimento. Disponiamo insomma di una valida guida per risalire il “corso” dei documenti, per ricostruire la storia esterna e interna delle fonti. A patto, s’intende, di esercitare a dovere la critica delle fonti ossia, nel caso specifico, di non fidarsi pigramente solo del cronista (che, si è detto, a volte idealizza e fraintende), ma di compiere scrupolosamente, di volta in volta, i controlli sulle fonti originali. Ciò detto il ms. Ziggiotti resta sia un eccellente punto di partenza per orientare nuove indagini sia un documento spesso di per sé autorevole. L’abate dedicò alcuni anni a redigere gli annali in questione, ebbe a disposizione fonti oggi perdute, consultò manoscritti e libri antichi, fu implicato nella vita dell’Olimpico come stimato consulente nella vicenda del coronamento statuario settecentesco. Ebbe modo di calarsi a fondo nella storia della istituzione vicentina e rimane un testimone prezioso di quella storia. Concludo su questo punto ricordando che Ziggiotti festeggiò la fine del suo lavoro con un tour da lui descritto in un diario che contiene anche notizie sul “riuso” degli anfiteatri romani di Arles e di Nîmes e sui teatri parigini.[46] 

La ricostruzione della storia dell’Olimpico non si esaurisce tra le mura dell’Archivio del Municipio, dell’Accademia o della Bertoliana. L’intersezione archivistica ci porta in un altro luogo: l’Archivio di Stato di Vicenza. Lì si conserva anzitutto un 

«formidabile complesso di carte dei notai di cui a preferenza si avvale lo storico dell’età moderna (e del medioevo) per ricostruire le vicende di un passato in cui la nascita dello «stato macchina» non era ancora intervenuta a circoscrivere l’ambito e le funzioni, un tempo quasi onnicomprensive, sotto il profilo giuridico, economico e amministrativo, degli atti notarili».[47] 

La consultazione delle carte notarili vicentine, agevolata da buoni indici, è importante. Una volta individuati i notai delle famiglie aristocratiche implicate nella storia dell’Olimpico (ad esempio, per Leonardo Valmarana, Boscarin Boscarini e Francesco Cerato) è d’obbligo fare riferimento anche a questa pista per ricostruire e interpretare le vicende dell’edificazione e dell’Edipo tiranno. Vanno poi ricordati alcuni archivi privati di nobili casate (i Caldogno, i Capra, i Chiericati, i Trissino) confluiti nella struttura statale e gli atti giudiziari, le mappe, i catasti, gli estimi.[48] Del resto i fondi notarili, al pari delle corrispondenze epistolari,[49] sono imprescindibili per lo storico dello spettacolo europeo d’antico regime. Si pensi alla loro utilità per lo studio dei comici professionisti. 

A quest’ultimo riguardo vi propongo un altro esempio d’intersezione documentale. Lasciamo per un attimo Vicenza e l’Olimpico. Spostiamoci a Livorno nello «Stanzone delle Commedie» ubicato nella zona portuale, inaugurato nel 1658 e destinato all’opera in musica e alle recite dei comici dell’Arte.[50] Non ci misuriamo più con un teatro “alto” e “privato” riservato a un pubblico selezionato, ma con uno spazio, distrutto sul finire del XVIII secolo, frequentato da un pubblico pagante socialmente composito e animato dal professionismo teatrale dei cantanti, degli attori, dei drammaturghi (uno dei tanti spazi del teatro venduto, le « Stanze» appunto, documentati tra Cinque e Seicento nelle “piazze” teatrali italiane: a Firenze, Venezia, Vicenza, Napoli e in altre città della penisola).[51] La storia di questo spazio ruota almeno su tre istituzioni: la Biblioteca Labronica e l’Archivio di Stato a Livorno e l’Archivio di Stato di Firenze. Alla Labronica sono conservati libretti, locandine (arricchite talvolta da ritratti di attori e attrici)[52] e appunti manoscritti che danno notizie sul repertorio spettacolare. Presso l’Archivio di Stato di Livorno, invece, si conservano i documenti catastali («Giustificazioni» e «arruoti di decime») che permettono di ricostruire le caratteristiche architettoniche e organizzative della sala seicentesca e le sue successive trasformazioni. Da questi incartamenti apprendiamo, ad esempio, che nel 1662 Ferdinando Tacca, l’architetto-scenografo del teatro fiorentino degli Immobili in via della Pergola, fu chiamato a Livorno per stimare il valore dell’edificio.[53] Ma informazioni importanti si rintracciano anche presso l’Archivio di Stato di Firenze. Si veda il saggio di Alessandra Maretti che, con lucidità critica (applicata a un’impegnativa indagine di prima mano, lo spoglio completo del carteggio di Mattias de’ Medici), ha risolto, tra l’altro, l’annosa querelle circa la datazione, l’assetto e l’ubicazione dello «Stanzone» stabile, dimostrando l’esistenza a Livorno ante 1658 di un precedente luogo teatrale riservato alle esibizioni dei comici: l’Arsenale dei Remolari con «in piedi palco e scena» in cui si esibì Scaramuccia (alias Tiberio Fiorilli).[54] Anche in questo caso l’integrabilità reciproca dei luoghi e dei fondi documentali è stata decisiva. 

Torniamo, infine, a Vicenza. Un altro polo basilare, specialmente per la documentazione iconografica, è il Museo Civico ospitato in palazzo Chiericati. I documenti riguardanti l’Olimpico sono numerosi.[55] Coprono un arco cronologico di lunga durata: dal Cinque al Novecento. Sono facilmente rintracciabili perché registrati in utili schede mss. Ricordo soltanto, a titolo d’esempio, la pianta che stiamo rivedendo (fig. 8). Una fonte capitale (entrata in nostro possesso solo di recente): il più antico e attendibile documento iconografico consuntivo per studiare non solo l’Olimpico, il suo sistema di ingressi, la sua struttura cinquecentesca (ad esempio il «Locho per li Musichi per cantar» oggi non più esistente) (fig. 11), ma anche le adiacenti sale accademiche e il contiguo palazzo del Territorio. 

Abbiamo disegnato una sommaria mappa delle fonti per la storia del teatro di Palladio e Scamozzi. Ora potremmo cercare di modificarla, di ampliarla, di percorrerla insieme studiando e interpretando i documenti, ma questa è un’altra storia e in parte la conosciamo. Come sappiamo che il diagramma tracciato è solo una «mappa di possibilità»,[56] un bilancio provvisorio e asistematico stilato, anzitutto, per stimolare e incoraggiare nuovi, indispensabili sondaggi.            

                                                                                                 



[1] Si pensi, ad esempio, a Barry Lindon. Sull’opera kubrickiana caratterizzata sia da una spinta verso il futuro sia da «un equivalente respiro all’indietro» cfr. S. BERNARDI, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Parma, Pratiche, 1990, p. 13 e passim.

[2] L. PUPPI, Museo di memorie, strip-tease di uno storico dell’arte, Padova, Il Poligrafo, 1995, p. 10.

[3] V. P. FRANCASTEL, Arte e storia. Dimensione e misura delle civiltà (1961), ora in ID., Guardare il teatro, Bologna, il Mulino, 1987, p. 38.

[4] Si veda G. DUBY, Il sogno della storia (1980), Milano, Garzanti, 1986, specialmente a pp. 40-42.

[5] Cfr. almeno F.A. YATES, Astrea. L’idea di impero nel Cinquecento (1975), nuova ediz. con introd. di A. BIONDI, Torino, Einaudi, 1990² e Carolus, catalogo della mostra a cura di F. CHECA (Toledo, 6 ottobre 2000-12 gennaio 2001), s.l., Sociedad estatal para la conmemoración de los centenarios de Felipe II y Carlos V, 2000.

[6] Per tutto ciò rinvio (anche per la bibliografia precedente) al mio L’Olimpico di Vicenza: un teatro e la sua «perpetua memoria», Firenze, Le Lettere, 1998, passim.

[7] Bari, Laterza, 1969.

[8] Si vedano le riflessioni di Tafuri sull’“invenzione” rinascimentale dell’architettura in senso moderno (cfr. ivi, p. 5) e quelle di F. CRUCIANI sulla cinquecentesca “invenzione” del teatro (espresse nella presentazione al fortunato, omonimo fasc. di «Biblioteca teatrale», 1976, 15-16, p. 3).

[9] R. CHARTIER, “Fare storia” vent’anni dopo, in «The New York Review of Books, la Rivista dei Libri», V, 1995, 6, p. 4 (il corsivo è mio).

[10] Basti rinviare a P. ZUMTHOR, Document et monument. A propos des plus anciens textes de langue française, in «Revue des sciences humaines», 1960, 97, pp. 5-19; alle riflessioni di M. FOUCAULT, L’archéologie du savoir, Paris, Gallimard, 1969 (trad. it. Milano, Rizzoli, 1971); nonché alla sintesi di J. LE GOFF, Documento/monumento, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1978, vol. V, pp. 38-48 (ora in ID., Storia e memoria, Torino, Einaudi, 1986, pp. 443-455). Sempre sulla nozione di documento/monumento, con specifica attenzione allo statuto teorico dei documenti teatrali, cfr. M. DE MARINIS, Capire il teatro. Lineamenti di una nuova teatrologia, Firenze, La casa Usher, 1988, pp. 42-52, passim. Sulle fonti per la storia dello spettacolo cfr. inoltre l’intervento di S. FERRONE nel vol. Il testo e la ricerca d’équipe. Esperienze di lavoro di gruppo nelle discipline umanistiche. Atti dell’incontro-seminario (Viterbo, 24-26 settembre 1990), Roma, Salerno Editrice, 1995, pp. 245-258; quello di C. MOLINARI, Sull’iconografia come fonte della storia del teatro (1991), ora in Immagini di teatro, a cura di G. BOTTI, in «Biblioteca teatrale», n.s. 1996, 37-38, pp. 19-40 (ma tutto il fascicolo è ricco di spunti metodologici); e quello di S. MAMONE, Arte e spettacolo: la partita senza fine, in Iconographie et arts du spectacle, a cura di J. DE LA GORCE, Paris, Klincksieck, 1996, pp. 59-90.

[11] Esemplare al riguardo la lettura «materialistica» dei rapporti tra Tiziano, Carlo V e Filippo II dovuta ad A. GENTILI, Da Tiziano a Tiziano. Mito e allegoria nella cultura veneziana del Cinquecento, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 163 ss. Per i rapporti tra Palladio e l’Accademia Olimpica (troppo spesso idealizzati) cfr. MAZZONI, L’Olimpico di Vicenza, cit., pp. 87-91.

[12] Per il quadro di riferimento cfr. La storiografia contemporanea, a cura di P. BURKE, Roma-Bari, Laterza, 1993 e P. BURKE, Una rivoluzione storiografica. La scuola delle «Annales», 1929-1989, Roma-Bari, Laterza, 1992.

[13] Si ricordino almeno il magistrale Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977, il vol. Carpaccio e la rappresentazione di Sant’Orsola. Ricerche sulla visualità dello spettacolo nel Quattrocento, Torino, Einaudi, 1988, e l’intervento di natura metodologica (scritto nel 1981) Parere tendenzioso sulla fase (Il “Don Giovanni” di Mozart come Werk der Ende), in L. ZORZI, L’attore, la commedia, il drammaturgo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 315-328. Sul metodo zorziano cfr. L. LAPINI, Che cos’è la storia dello spettacolo? Testimonianze su alcune lezioni metodologiche di Ludovico Zorzi, in Ludovico Zorzi e la “nuova storia” del teatro, a cura di S. MAMONE, in «Quaderni di teatro», VII, 1985, 27, pp. 28-35; S. MAMONE, Storia dello spettacolo: il testimone preterintenzionale, in Per Ludovico Zorzi, a cura di S. M., in «Medioevo e Rinascimento», VI/n.s. III, 1992, pp. XI-XVIII. Per un profilo dello studioso vd. Ludovico Zorzi tra ricerca, didattica e organizzazione culturale, catalogo della mostra a cura di E. GARBERO ZORZI et al. (Firenze, 15-31 marzo 1993), Firenze, BNCF-Istituto Ludovico Zorzi, 1993 e le belle pagine di L. CARETTI, Congedo da Ludovico Zorzi, in ID., Montale, e altri, Napoli, Morano, 1987, pp. 195-198 (con, in appendice, a pp. 199-201, un inedito progetto editoriale zorziano).

[14] G. LEVI, A proposito di microstoria, in La storiografia contemporanea, cit., pp. 118-119.

[15] Per un quadro metodologico cfr. almeno Ludovico Zorzi e la “nuova storia” del teatro, cit.; DE MARINIS, Capire il teatro, cit.; e il vol. Il magistero di Giovanni Getto. Lo statuto degli studi sul teatro. Dalla storia del testo alla storia dello spettacolo. Atti dei convegni internazionali (Torino-Alba, 22 marzo, 8-10 novembre 1991), Genova, Costa & Nolan, 1993 (e rivedi qui note 10 e 13). Una ben congegnata rassegna di studi è nella guida bibliografica Teatro, a cura di F. CRUCIANI e N. SAVARESE, introd. di F. CRUCIANI, Milano, Garzanti, 1991. Per i successivi aggiornamenti si veda la bibliografia edita annualmente nella rivista «Drammaturgia».

[16] Cfr. S. FERRONE, Scrivere per lo spettacolo, in Drammaturgia a più mani, in «Drammaturgia», 1994, 1, pp. 7-22.

[17] Si veda, ad esempio, F. CRUCIANI, Lo spazio del teatro, con tracce grafiche di L. RUZZA, Roma-Bari, Laterza, 1992.

[18] Cfr. O. SORIANO, El ojo de la patria, Barcelona, Mondadori, 1993. Il brano in questione è posto in epigrafe da PUPPI al suo Museo di memorie, cit.

[19] [E.G. CRAIG], The theatre of Sabbioneta, in «The Mask», IX, 1923, p. 24.

[20] Cfr. M. BLOCH, Apologia della storia o Mestiere di storico (1949), con uno scritto di L. FEBVRE, a cura di G. ARNALDI, Torino, Einaudi, 19787, p. 73.

[21] Cfr. L. MAGAGNATO, Il teatro Olimpico, a cura di L. PUPPI. Contributi di M.E. AVAGNINA, T. CARUNCHIO, S. MAZZONI, Milano, Electa, 1992.

[22] V. le lucide osservazioni di BLOCH, Apologia della storia, cit., p. 70.

[23] Ivi, p. 74.

[24] Ivi, p. 73.

[25] Cfr. l’Annuario delle biblioteche italiane, a cura di E. APOLLONJ, in collaborazione con M. MAIOLI e F. SISINNI, Roma, Palombi, 1969-1981, 5 voll. e la Guida generale degli archivi di stato italiani, direttori P. D’ANGIOLINI e C. PAVONE, Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali, Ufficio centrale per i beni archivistici, 1981-1986, 4 voll. Utili indicazioni anche in P. D’ANGIOLINI-C. PAVONE, Gli archivi, in Storia d’Italia. V. I documenti, Torino, Einaudi, 1973, to. II, pp. 1657-1691; F. DELLA PERUTA, Biblioteche e archivi. Guida pratica alla consultazione, Milano, Angeli, 1987²; E. ESPOSITO, Libro e biblioteca. Manuale di bibliografia e biblioteconomia, Ravenna, Longo, 1991; I. ZANNI ROSIELLO, Andare in archivio, Bologna, il Mulino, 1996. Per un panorama anche extraitaliano e con specifica attenzione alla nostra disciplina cfr. Bibliothèques et musées des arts du spectacle dans le monde […], IV ediz., sotto la direzione di A. VEINSTEIN e A.S. GOLDING, Paris, CNRS, 1992.

[26] Cfr. E. FRANZINA, Vicenza. Storia di una città, con la collaborazione di N. POZZA, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 30, 42-44 e S. MAZZONI, Bibliografia, in MAGAGNATO, Il teatro Olimpico, cit., pp. 307-308.

[27] Compilato da Edoardo Ghiotto e consultabile presso la sede accademica.

[28] Cfr. l’inventario L’Archivio storico dell’Accademia Olimpica conservato presso la Biblioteca Civica Bertoliana (sec. XVI-XIX), a cura di A. RANZOLIN, Vicenza, Accademia Olimpica, 1989 e, per uno spoglio mirato, MAZZONI, Bibliografia, cit., p. 307.

[29] Di una trascrizione del XVIII secolo (di Francesco Fortunato Vigna) lacunosa e non sempre corretta (edita in G.G. ZORZI, Le ville e i teatri di Andrea Palladio, Venezia, Neri Pozza, 1969, pp. 308-319, doc. 1).

[30] I documenti sono pubblicati e ragionati in S. MAZZONI, Introduzione. Per la storia delle prospettive e dell’odeo Olimpico, in MAGAGNATO, L’Olimpico, cit., pp. 143-147 e in MAZZONI, L’Olimpico di Vicenza, cit., pp. 109-113, 210-212 (cfr. ivi, pp. 225, 231-246 per una campionatura dei verbali accademici originali dal 1579 al 1585).

[31] Principe Olimpico, testimone coevo e autorevole.

[32] Anche dopo la disponibilità del fondo troppo a lungo negata a molti studiosi.

[33] Milano-Napoli, Ricciardi, 1986 (poi Torino, Einaudi, 1990), passim.

[34] Cfr. L. CARETTI, Filologia e critica: studi di letteratura italiana, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955.

[35] Cfr. G. BING, Ricordo di Fritz Saxl (1890-1948), in F. SAXL, La storia delle immagini (1957), introd. di E. GARIN, Roma-Bari, Laterza, 1982, p. 273.

[36] Cfr. E.H. GOMBRICH, Aby Warburg. Una biografia intellettuale (1970), Milano, Feltrinelli, 1983, p. 13: «La reputazione che godeva presso i colleghi si basava principalmente sulla sua robusta erudizione, sulla conoscenza degli archivi fiorentini e sulla sua maestria bibliografica».

[37] Cfr. C. GINZBURG, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Crisi della ragione, a cura di A. GARGANI, Torino, Einaudi, 1979, specialmente pp. 61-65; e P. D’ANGELO, Introduzione a G. MORELLI, Il conoscitore d’arte, a cura di P. D’A., Palermo, Novecento, 1993, pp. 15-18 (e p. 33 sull’atteggiamento morelliano nei confronti dei documenti d’archivio).

[38] PUPPI, Museo di memorie, cit., p. 77 (e pp. 79-83 per la soluzione dell’enigma).

[39] Cfr. MAZZONI, Bibliografia, cit., pp. 307-308.

[40] Vd. A. CAPPAROZZO, Inventario della Camera G. Manoscritti e qualche stampato prezioso, ms.; ID., Carteggio collocato nella Camera G, ms.

[41] Cfr. G. MAZZATINTI, Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, Forlì, Casa Editrice Luigi Bordandini, 1892, vol. II.

[42] La lettera di Giovan Battista Aleotti (a Battista Guarini, Ferrara, 2 dicembre 1595) è conservata nell’epistolario di Pompeo Trissino, ms. G.5.1.6 (E 125), n. 38² della Bertoliana. Registrata in MAZZONI, Bibliografia, cit., p. 307, si legge ora in ID., L’Olimpico di Vicenza, cit., pp. 62-63, 127.

[43] Cfr. B. ZIGGIOTTI, Accademia Olimpica, ms., 1746 circa-1752, copia stilata da V. GONZATI nella prima metà del sec. XIX, Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, ms. Gonz. 21.11.2 (2916), pp. 3-100. Per un progetto di edizione critica cfr. MAZZONI, L’Olimpico di Vicenza, cit., pp. 225-230 n.

[44] L. PUPPI, La morte e i funerali di Palladio, in Palladio e Venezia, a cura di L. P., Firenze, Sansoni, 1982, pp. 155-172.

[45] Rivedi nota 30.

[46] Cfr. B. ZIGGIOTTI, Viaggio di Parigi per la strada de’ Grigioni, Svizzeri, corso del Reno, Ollanda [sic], e Fiandra, ms. autografo, 1753-1754, Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza, ms. 23.7.15 (2376); e v. MAZZONI, L’Olimpico di Vicenza, cit., pp. 5-11 n., 247-248.

[47] FRANZINA, Vicenza, cit., p. 35.

[48] In parte conservati all’Archivio di Stato ma reperibili anche alla Bertoliana e nell’Archivio Storico del Comune: cfr. ivi, pp. 35-36 e, per un concreto esempio di metodo, cfr. D. BATTILOTTI, Vicenza al tempo di Andrea Palladio attraverso i libri dell’estimo del 1563-1564, Vicenza, Accademia Olimpica, 1980.

[49] Cfr. Comici dell’Arte. Corrispondenze, G.B. Andreini, N. Barbieri, P.M. Cecchini, S. Fiorillo, T. Martinelli, F. Scala, edizione diretta da S. FERRONE, a cura di C. BURATTELLI, D. LANDOLFI, A. ZINANNI, Firenze, Le Lettere, 1993, 2 voll.

[50] Cfr. S. MAZZONI, Lo Stanzone delle Commedie, in La fabbrica del «Goldoni». Architettura e cultura teatrale a Livorno (1658-1847), catalogo della mostra, ordinatori E. GARBERO ZORZI, S. MAZZONI, L. ZANGHERI (Livorno, 27 maggio-2 luglio 1989), Venezia, Marsilio, 1989, pp. 83-90.

[51] Cfr. S. FERRONE, Attori mercanti corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento, Torino, Einaudi, 1993 (specialmente, per quanto qui interessa, il cap. II, Le stanze del teatro, pp. 50-88). Per la vicentina «Stanza» delle Garzerie v. S. MAZZONI, Genealogia e vicende della famiglia Andreini, in Origini della Commedia Improvvisa o dell’Arte. Atti del convegno di studi (Roma-Anagni, 12-15 ottobre 1995), a cura di M. CHIABÒ e F. DOGLIO, Roma, Torre d’Orfeo, 1996, pp. 144-147.

[52] Sull’argomento si vedano i fondamentali contributi di M.I. ALIVERTI, Il ritratto d’attore nel Settecento francese e inglese, Pisa, ETS, 1986; ID., La naissance de l’acteur moderne. L’acteur et son portrait au XVIIIe siècle, Paris, Gallimard, 1998.

[53] Cfr. MAZZONI, Lo Stanzone, cit., pp. 83 e 88 (scheda 2.1.6).

[54] Cfr. A. MARETTI, Profili d’attori e “piazze” teatrali: Serena Mansani, la famiglia Fiala e lo «Stanzone» di Livorno. Documenti sulla Commedia dell’Arte (1642-1666), in Lo spettacolo nella Toscana del Seicento, a cura di S. MAMONE, in «Medioevo e Rinascimento», XI/n.s. VIII, 1997, pp. 395-416: 407-409, 415-416.

[55] Si veda S. MAZZONI, Regesto iconografico, in MAGAGNATO, Il teatro Olimpico, cit., pp. 154-305: passim.

[56] Prendo in prestito parole di B. BALÁZS, Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova (1952), Torino, Einaudi, 1987.




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