Pubblichiamo uno scritto di cui Nando Taviani ci ha fatto dono, rendendoci partecipi. È stato un uomo sapiente e un amico. Parlare con lui, leggerlo ci ha procurato ogni volta conoscenza e desiderio di attraversare frontiere nuove. SF, SM
Quanto è bella la nuova edizione delle Œuvres complètes di Molière nella Bibliothèque de la Pléiade! E quantè triste. Tutto il sovrappiù è stato raschiato via o abbandonato alla disattenzione. Il risultato, il libro, è praticamente perfetto. Fabbrica unimmagine di Molière e del suo teatro che ha la tranquillità e la chiarezza delle immagini che aspirano ad esser definitive. Ho lidea che sia perfettamente a posto come può esserlo la salute e lequilibrio dun lobotomizzato. Sto esagerando? Mi si conceda almeno un poco desagerare. Non ho difficoltà a confessare desser stato infettato dalle intelligenze molieriane di Giovanni Macchia e Cesare Garboli (i cui nomi nellarticolata bibliografia dei due volumi Pléiade prevedibilmente non compaiono). Non si lobotomizza(va) per cattiveria o prevaricazione, ma il più delle volte a ragion veduta (così almeno riferiscono certi serissimi specialisti). Nel caso di questo Molière in Pléiade, gli operatori hanno ragioni da vendere in base alla legalità storiografica. Tutti o quasi tutti gli indizi che con maggior evidenza fanno lampeggiare i lati in nero di Molière, le domande sospese e sospette relative al suo caso teatrale, sono consegnati a testimonianze di seconda mano, tarde, per sentito dire. Oppure si legano al filo di congetture che possono esser anche ragionevoli, ma son pur sempre congetture (il che vale persino per la maschera libertina e tragica del suo nome darte). Non cè quindi niente da rimproverare alla cura Pléiade. Ma anche niente che possa farci dimenticare lamputazione. Perché la “legalità storiografica” non basta a giustificare lesclusione delle testimonianze “incerte”. Quel che decide non può essere sempre lassoluta certezza, la prevaricante cautela. Se così fosse, la storiografia cadrebbe fra le mani nevroticamente legalistiche e amputatrici dun Jean Hardouin gesuita, antigiansenista, erudito stimabilissimo, bibliotecario del collège Louis-le-Grand, il quale, confondendo maniacalmente le regole antiquarie con la realtà, infatuato dalla gran vittoria di Casaubon sulle mentite origini egizie del Corpus Hermeticum, voleva desertificare i nove decimi delle letterature classiche, escludendone ogni opera – dallEneide a tutto Orazio, per esempio – di cui non si potesse certificare, carte alla mano, che non fosse un falso. Quel che decide è la diffidenza. È perché diffidiamo di certe notizie che nei loro confronti adottiamo, invece del giudizio storico, una procedura giudiziaria. È perché più che soppesarle le accusiamo, che pretendiamo uninespugnabile garanzia dautenticità. Vogliamo prove provate quando quel che dovrebbero provare ci sembra troppo strano, inverosimile, semplicemente contraddittorio – e perché elude i margini di tolleranza delle nostre aspettative e dei nostri gusti. Nel caso di Molière questi margini sono fin troppo evidenti: sono gli scaffali degli Scrittori Massimi. Quando dietro il terso incanto dun urbanissimo poeta compare il buco della scena come recesso e rifiuto, come tana che esponendo nasconde, come sede dun raffinato ketman teatrale, è giusto farsi guardinghi. Anche perché ci si inoltra in percorso pieno di trappole: il nascosto si rivela dagli indizi, e tutto – basta volerlo – può esser visto come un segno. Ma fra linoltrarsi con passo guardingo in un territorio incerto, e il voltargli semplicemente le spalle ce ne corre. Tutto il lavoro per questi due volumi Pléiade è stato messo al servizio dun monumento da restaurare e da sbiancare. Sul restauro nulla da dire. Ma la sbiancatura è prevaricante. Il Molière che inquieta non cè più. Gli strumenti usati dai curatori per raggiungere i loro fini saranno certamente in buonafede, ma a volte hanno di quella buonafede che è peggio della malafede. Quasi che per il fatto stesso davere per le mani la classica edizione dun classico il lettore avesse fatto domanda desser sedato in unammirazione pacificata. A volte lunilateralità nel modo di pensare la storia larte e la cultura è talmente sicura di sé da apparire non saprei se più altezzosa o ingenua. Nella loro foga sbiancante, per esempio, i curatori partono in quarta contro gli aneddoti «qui donnèrent naissance au mythe dun Molière chroniquement malade», il quale mito racconterebbe «la belle histoire romantique dun acteur poitrinaire tirant son art de son mal». Largomento che dovrebbe distruggere questo «mito» (che mito proprio non è) sarebbe il seguente: Molière, nei discorsi sulla medicina presenti nelle sue commedie farebbe uso di argomenti e luoghi comuni della satira contro i medici presente nelle farse e commedie francesi e spagnole. Certo che ne fa uso, è unantica tradizione della grande scena diffusa anche aldilà della Spagna e della Francia. Né Molière si fissava sui soli testi teatrali. Riprendeva quasi alla lettera brani di Montaigne, tantè che cè una trafila Montaigne-Molière-Proust che assomiglia più ad una serie di variazioni sul tema che a semplici “influenze”. Ma perché mai questo vorrebbe dire che le tirate di Molière non potrebbero avere nello stesso tempo il valore dun diretto riferimento alla sua ben nota malattia? In base a quale logica una cosa eliminerebbe laltra? E poi: qui il problema non ha proprio niente a che vedere con la vetusta teoria secondo cui larte dello scrittore andrebbe vista e capita soprattutto alla luce delle sue esperienze di vita. Ha a che vedere semmai con una strategia scenica che governa le emozioni e le reazioni del pubblico anche col gioco ambiguo e potente del creare diffrazioni fra il personaggio e la persona che lo recita, fra ciò che nella vita è drammatico e sulla scena diventa comico. Gioco, tecnica, tattica o strategia che dir si voglia in cui Molière era maestro. Non tener conto neppure di questa eccezionale maestria, parlando delle sue opere, non è neppure un eccesso, è un artificiale daltonismo critico. E in generale: in base a quale criterio una lettura che inquadra giustamente Molière nellorizzonte culturale della civilisation mondaine e dellurbanité si riduce a non tener conto del Molière velenoso, libertino, temerario, attor-capo che rischia per conquistare territorio? Qual è il paradigma storiografico messo in uso? Il paralogismo del tipo “delle due o solo luna o solo laltra”, usato in genere per buttar fumo negli occhi nelle polemiche? Soltanto nel regno di Flatlandia un discorso che rispetta i criteri della civilisation mondaine non potrebbe avere anche una fodera che spaura. Forse che non si possono dire cose infami con il sorriso sulle labbra educate allurbanité – o viceversa? Linfezione Macchia-Garboli ha fatto balenare – come una discontinuità nella fallace continuità della storia letteraria del teatro, dei suoi classici, del suo grande canone europeo – il risveglio dun Molière che pensava il teatro come strategia del rifiuto impunito. Il fatto di ritrovarlo tutto truccato come un monumento, e per di più un monumento lodevolmente restaurato, ripulito dalle usure delle intemperie e dalle cacche dei piccioni, mi pare che non possa non procurare dolore. Ce lo ficcò Boileau in quel monumento, lamico che laveva coraggiosamente definito maestro massimo nellarte della Commedia, e pensatore fra i più fini di Francia. Non sopportava – in quel suo distico famoso – che lautore del Misanthrope fosse nello stesso tempo, sulla stessa scena, un farsante tutto spasso scenico e niente urbanité. Perciò: via il sacco, via la biacca dalla faccia, e al loro posto la regolare parrucca da honnêt homme, e in mano il libretto del Misanthrope. A posteriori, quel che Boileau ha fatto risulta essere una scelta di buon gusto, una regolarizzazione. Ma non lo era, nel vivo del suo punto di partenza. Era piuttosto la rabbiosa pena di non poter capire il senso duna vita sprecata, che in quello spreco trovava, per di più, non la voluttà dellabiezione ma la luce dun pundonor fiero di sé. Che cè di più imperscrutabile, di più doloroso e offensivo per lintelligenza duna disperazione ribelle e contemplativa al contempo? E per sovrappiù vincente. Ancora una volta: non si tratta di leggere lopera alla luce della biografia. Si tratta, al contrario, di comprendere che anche quello spreco e quel pundonor erano “opere”, che andrebbero messe in dialogo con i manufatti letterari. Ai piedi del monumento debbo fermarmi. Perché ho esaurito il mio spazio, e soprattutto perché non avrebbe senso ingolfarsi nella disanima di testimonianze che per non ridursi a petardi hanno bisogno di tempo circostanze a pazienza – non certo per interpretarle una volta per tutte, non per dar loro un marchio dautenticità simile a quello duna vendita allasta, ma per render loro la giustizia di lasciarle risuonare. Mi sia consentito, perciò, restringermi ad un aneddoto: per la voglia di scrollarmi di dosso la tristezza con uno sberleffo, ed anche nella speranza che dalla scena come luogo dun indicibile onore un soprassalto molieriano possa raggiungerci. Come un gesto. Seguirà la parola? Nel raccontare laneddoto comincerò da capo. Verso la fine dellanno 1672 a Parigi, rue de Richelieu, nella casa di Molière, sale in visita un amico. Molière è tappato in casa e malato. Lamico si chiama Nicolas Despréaux, letterato di riconosciuta finezza, spirito libero, frequentatore delle taverne letterarie davanguardia. Libertino. Col suo nascente prestigio ha difeso larte di La Fontaine e di Racine, ha additato in Molière il modello della Commedia. Lha riconosciuto come uno dei maggiori pensatori del suo tempo. Molière tossisce, con brevi istanti dapnea. Subito dopo deve espettorare. Conversare con lui non è facile. La sua tosse è talmente cronica, che ha dovuto attribuirla, nelle sue commedie, ai personaggi da lui stesso impersonati. Gli spettatori più fedeli provavano gusto nel constatare la sua furbizia dautore-attore, capace di trasformare in comica finzione i veri sintomi duna salute che non diceva niente di buono. Il signor Despréaux prova fastidio ogniqualvolta vede il grande pensatore sprecarsi sul palcoscenico in lazzi da farsa. Despréaux si faceva chiamare così per distinguersi dai suoi due fratelli maggiori, anchessi letterati, ambedue più rispettabili di lui nella Parigi del tempo, luno funzionario di corte, laltro teologo alla Sorbona (anchessi arguti: il teologo, per esempio, scriveva solo in latino: «Spero che così i vescovi non mi leggano, e mi lascino in pace»). Dei tre fratelli, il terzo era il più sregolato, il più esposto ai fulmini delle autorità e dei debiti. Il nome di famiglia dei tre fratelli era Boileau. Ed è con questo, svanita la memoria degli altri due, che il terzogenito, il grande amico di Molière, passerà senzaltro alla storia. La tosse di Molière è maligna e parossistica. Oltre a tagliargli il respiro sembra squarciargli il petto. Evidentemente soffre duna fluxion à la poitrine, dun afflusso dumori ai polmoni, uninfiammazione. Oggi sospetteremmo subito la tubercolosi. Non gli capita ancora di trovarsi la bocca piena dun rigurgito di sangue. È solo questione di tempo. Accadrà fra qualche mese, e sarà una vera emorragia terminale, la sera del venerdì 17 febbraio, anno 1673, quando in palcoscenico inizierà la sua agonia. Per ora, cè solo il parossismo duna tosse difficile da domare. Boileau fatica a mantenere la calma. Contempla una volta ancora lirragionevolezza dei grandi ragionatori: «Che poca cosa è luomo!». Forse il suo amico non è affatto ipocondriaco, come in genere si crede. Forse è lopposto: non un malato, ma un sano immaginario. Molière si sforza di reprimere la tosse; Boileau reprime lira e parla pacatamente allamico: come è mai possibile che non si renda conto del male che gli fa la pratica del recitare? La continua tensione nervosa dellesporsi al giudizio degli spettatori, sera dopo sera? Non capisce quanto nuoce ai suoi polmoni sforzare la voce per declamare i versi e colorire le battute? E la polvere che respira in palcoscenico? E la biacca del maquillage che è a base di piombo e avvelena la pelle? Non lo capisce che deve astenersi dal recitare? Che cosa glielo impedisce? Dirige una grande e famosa compagnia: ci sarà pure un attore capace di rilevare le sue parti e sostituirlo degnamente in scena. Lui fa già moltissimo per i suoi compagni fornendo loro commedie di successo. Eppure a volte la compagnia gli si rivolta contro. Se smettesse di recitare, la sua autorità verrebbe rafforzata. Attori e attrici si sentirebbero a rischio, se in scena li lasciasse soli. Ricorrerebbero ai suoi consigli, implorerebbero i suoi comandi. La sua vita scorrerebbe più liscia. Alla sua salute malandata tornerebbero le forze. Abbandonare le scene è insomma un suo preciso dovere. Molière salta su dalla poltrona quasi lavesse punto una vespa. Smette di tossire, non crede alle proprie orecchie: «Non recitare più!? Ma che cosa dite? Per me non smettere di recitare è un onore!». Usò proprio la parola honneur: «Il y a un honneur pour moi à ne pas quitter». Il colloquio ci è stato trasmesso da Boileau stesso per interposta persona. Lo raccontò a un amico di trentanni più giovane, che si chiamava Jacques Losme de Monchesnay. Nel 1741 (erano passati trentanni dalla morte di Boileau), costui pubblicò un libretto intitolato Boleana, ou bons mots de M. Boileau. Unedizione poco appariscente, stampata senza i dovuti permessi, ufficialmente ad Amsterdam, in realtà a Parigi e di straforo. Tre anni dopo, il libretto ebbe lonore dessere inserito nelledizione delle opere di Boileau curate dallabate Sonchay. Monchesnay, quandera quindicenne, già pubblicava epigrammi ad imitazione di Marziale, ma benché fosse un letterato precoce fu comunque troppo giovane per Molière. Nato nel 1666, era ancora un bambino negli anni in cui Molière concludeva la sua carriera e la sua vita. Boileau, però, gli trasmise unimmagine vivida di quel gran padre della Commedia. Monchesnay fu, pro tempore, un letterato teatrale. Per cinque o sei anni, fra il 1687 e il 1693, scrisse commedie per la compagnia degli attori italiani che recitavano a Parigi (le sue commedie verranno pubblicate nella raccolta del Gherardi, uno dei più importanti documenti della cosiddetta “tradizione” della Commedia dellArte). Poi, come molti altri – fra cui il grande Racine – anche Monchesnay, scrittore minimo, aveva rinnegato linverecondo mondo delle scene per salvarsi lanima e la reputazione. Nel 1698, pubblicò un trattatello sulla schiavitù delle passioni. Queste notizie ci aiutano a capire le parole con cui commenta lepisodio del lontano faccia a faccia del 1672 fra Boileau e Molière malato. Monchesnay aveva saputo che Molière – non solo in scena, ma anche nella vita di tutti i giorni – si comportava da attore e commediante, mais il parloit en honnête homme, rioit en honnête homme, avoit tous les sentimens dun honnête homme; en un mot, il navoit rien contro lui que sa profession. Boileau aveva raccontato a Monchesnay che quando lamico malato laveva sorpreso con quellimprovviso riferimento allonore, lui fra sé e sé non aveva potuto trattenersi dal pensare: «Plaisant point dhonneur!», che bislacco e ridicolo senso dellonore! Fra il bizzarro o lunatico o segreto o misterioso senso dellonore che nutriva Molière, e lonore che gli attribuiva Boileau, agli occhi dei posteri ha indubbiamente prevalso il secondo. Questa vittoria fa pompa di sé nei libri e nel marmo. Perduta la scena, ha fatto testo.
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