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Ferdinando Taviani

Dalla scena al testo

Data di pubblicazione su web 11/11/2020
.

Pubblichiamo uno scritto di cui Nando Taviani ci ha fatto dono, rendendoci partecipi.

È stato un uomo sapiente e un amico. Parlare con lui, leggerlo ci ha procurato ogni volta conoscenza e desiderio di attraversare frontiere nuove.

SF, SM [*]


Quanto è bella la nuova edizione delle Œuvres complètes di Molière nella Bibliothèque de la Pléiade![1] E quant’è triste.

Tutto il sovrappiù è stato raschiato via o abbandonato alla disattenzione. Il risultato, il libro, è praticamente perfetto. Fabbrica un’immagine di Molière e del suo teatro che ha la tranquillità e la chiarezza delle immagini che aspirano ad esser definitive. Ho l’idea che sia perfettamente a posto come può esserlo la salute e l’equilibrio d’un lobotomizzato.

Sto esagerando? Mi si conceda almeno un poco d’esagerare. Non ho difficoltà a confessare d’esser stato infettato dalle intelligenze molieriane di Giovanni Macchia e Cesare Garboli (i cui nomi nell’articolata bibliografia dei due volumi Pléiade prevedibilmente non compaiono). 

Non si lobotomizza(va) per cattiveria o prevaricazione, ma il più delle volte a ragion veduta (così almeno riferiscono certi serissimi specialisti). Nel caso di questo Molière in Pléiade, gli operatori hanno ragioni da vendere in base alla legalità storiografica. Tutti o quasi tutti gli indizi che con maggior evidenza fanno lampeggiare i lati in nero di Molière, le domande sospese e sospette relative al suo caso teatrale, sono consegnati a testimonianze di seconda mano, tarde, per sentito dire. Oppure si legano al filo di congetture che possono esser anche ragionevoli, ma son pur sempre congetture (il che vale persino per la maschera libertina e tragica del suo nome d’arte). Non c’è quindi niente da rimproverare alla cura Pléiade. Ma anche niente che possa farci dimenticare l’amputazione.

Perché la “legalità storiografica” non basta a giustificare l’esclusione delle testimonianze “incerte”. Quel che decide non può essere sempre l’assoluta certezza, la prevaricante cautela. Se così fosse, la storiografia cadrebbe fra le mani nevroticamente legalistiche e amputatrici d’un Jean Hardouin gesuita, antigiansenista, erudito stimabilissimo, bibliotecario del collège Louis-le-Grand, il quale, confondendo maniacalmente le regole antiquarie con la realtà, infatuato dalla gran vittoria di Casaubon sulle mentite origini egizie del Corpus Hermeticum, voleva desertificare i nove decimi delle letterature classiche, escludendone ogni opera – dall’Eneide a tutto Orazio, per esempio – di cui non si potesse certificare, carte alla mano, che non fosse un falso.

Quel che decide è la diffidenza. È perché diffidiamo di certe notizie che nei loro confronti adottiamo, invece del giudizio storico, una procedura giudiziaria. È perché più che soppesarle le accusiamo, che pretendiamo un’inespugnabile garanzia d’autenticità. Vogliamo prove provate quando quel che dovrebbero provare ci sembra troppo strano, inverosimile, semplicemente contraddittorio – e perché elude i margini di tolleranza delle nostre aspettative e dei nostri gusti.

Nel caso di Molière questi margini sono fin troppo evidenti: sono gli scaffali degli Scrittori Massimi. Quando dietro il terso incanto d’un urbanissimo poeta compare il buco della scena come recesso e rifiuto, come tana che esponendo nasconde, come sede d’un raffinato ketman teatrale, è giusto farsi guardinghi. Anche perché ci si inoltra in percorso pieno di trappole: il nascosto si rivela dagli indizi, e tutto – basta volerlo – può esser visto come un segno. Ma fra l’inoltrarsi con passo guardingo in un territorio incerto, e il voltargli semplicemente le spalle ce ne corre.

Tutto il lavoro per questi due volumi Pléiade è stato messo al servizio d’un monumento da restaurare e da sbiancare. Sul restauro nulla da dire. Ma la sbiancatura è prevaricante. Il Molière che inquieta non c’è più. Gli strumenti usati dai curatori per raggiungere i loro fini saranno certamente in buonafede, ma a volte hanno di quella buonafede che è peggio della malafede. Quasi che per il fatto stesso d’avere per le mani la classica edizione d’un classico il lettore avesse fatto domanda d’esser sedato in un’ammirazione pacificata. A volte l’unilateralità nel modo di pensare la storia l’arte e la cultura è talmente sicura di sé da apparire non saprei se più altezzosa o ingenua. Nella loro foga sbiancante, per esempio, i curatori partono in quarta contro gli aneddoti «qui donnèrent naissance au mythe d’un Molière chroniquement malade», il quale mito racconterebbe «la belle histoire romantique d’un acteur poitrinaire tirant son art de son mal». L’argomento che dovrebbe distruggere questo «mito» (che mito proprio non è) sarebbe il seguente: Molière, nei discorsi sulla medicina presenti nelle sue commedie farebbe uso di argomenti e luoghi comuni della satira contro i medici presente nelle farse e commedie francesi e spagnole.[2] Certo che ne fa uso, è un’antica tradizione della grande scena diffusa anche aldilà della Spagna e della Francia. Né Molière si fissava sui soli testi teatrali. Riprendeva quasi alla lettera brani di Montaigne, tant’è che c’è una trafila Montaigne-Molière-Proust che assomiglia più ad una serie di variazioni sul tema che a semplici “influenze”. Ma perché mai questo vorrebbe dire che le tirate di Molière non potrebbero avere nello stesso tempo il valore d’un diretto riferimento alla sua ben nota malattia? In base a quale logica una cosa eliminerebbe l’altra?

E poi: qui il problema non ha proprio niente a che vedere con la vetusta teoria secondo cui l’arte dello scrittore andrebbe vista e capita soprattutto alla luce delle sue esperienze di vita. Ha a che vedere semmai con una strategia scenica che governa le emozioni e le reazioni del pubblico anche col gioco ambiguo e potente del creare diffrazioni fra il personaggio e la persona che lo recita, fra ciò che nella vita è drammatico e sulla scena diventa comico. Gioco, tecnica, tattica o strategia che dir si voglia in cui Molière era maestro. Non tener conto neppure di questa eccezionale maestria, parlando delle sue opere, non è neppure un eccesso, è un artificiale daltonismo critico.

E in generale: in base a quale criterio una lettura che inquadra giustamente Molière nell’orizzonte culturale della civilisation mondaine e dell’urbanité si riduce a non tener conto del Molière velenoso, libertino, temerario, attor-capo che rischia per conquistare territorio? Qual è il paradigma storiografico messo in uso? Il paralogismo del tipo “delle due o solo l’una o solo l’altra”, usato in genere per buttar fumo negli occhi nelle polemiche? Soltanto nel regno di Flatlandia un discorso che rispetta i criteri della civilisation mondaine non potrebbe avere anche una fodera che spaura. Forse che non si possono dire cose infami con il sorriso sulle labbra educate all’urbanité – o viceversa?

L’infezione Macchia-Garboli ha fatto balenare – come una discontinuità nella fallace continuità della storia letteraria del teatro, dei suoi classici, del suo grande canone europeo – il risveglio d’un Molière che pensava il teatro come strategia del rifiuto impunito. Il fatto di ritrovarlo tutto truccato come un monumento, e per di più un monumento lodevolmente restaurato, ripulito dalle usure delle intemperie e dalle cacche dei piccioni, mi pare che non possa non procurare dolore.

Ce lo ficcò Boileau in quel monumento, l’amico che l’aveva coraggiosamente definito maestro massimo nell’arte della Commedia, e pensatore fra i più fini di Francia. Non sopportava – in quel suo distico famoso – che l’autore del Misanthrope fosse nello stesso tempo, sulla stessa scena, un farsante tutto spasso scenico e niente urbanité. Perciò: via il sacco, via la biacca dalla faccia, e al loro posto la regolare parrucca da honnêt homme, e in mano il libretto del Misanthrope.[3]

A posteriori, quel che Boileau ha fatto risulta essere una scelta di buon gusto, una regolarizzazione. Ma non lo era, nel vivo del suo punto di partenza. Era piuttosto la rabbiosa pena di non poter capire il senso d’una vita sprecata, che in quello spreco trovava, per di più, non la voluttà dell’abiezione ma la luce d’un pundonor fiero di sé. Che c’è di più imperscrutabile, di più doloroso e offensivo per l’intelligenza d’una disperazione ribelle e contemplativa al contempo? E per sovrappiù vincente.

Ancora una volta: non si tratta di leggere l’opera alla luce della biografia. Si tratta, al contrario, di comprendere che anche quello spreco e quel pundonor erano “opere”, che andrebbero messe in dialogo con i manufatti letterari.

Ai piedi del monumento debbo fermarmi. Perché ho esaurito il mio spazio, e soprattutto perché non avrebbe senso ingolfarsi nella disanima di testimonianze che per non ridursi a petardi hanno bisogno di tempo circostanze a pazienza – non certo per interpretarle una volta per tutte, non per dar loro un marchio d’autenticità simile a quello d’una vendita all’asta, ma per render loro la giustizia di lasciarle risuonare.

Mi sia consentito, perciò, restringermi ad un aneddoto: per la voglia di scrollarmi di dosso la tristezza con uno sberleffo, ed anche nella speranza che dalla scena come luogo d’un indicibile onore un soprassalto molieriano possa raggiungerci. Come un gesto. Seguirà la parola?

Nel raccontare l’aneddoto comincerò da capo. Verso la fine dell’anno 1672 a Parigi, rue de Richelieu, nella casa di Molière, sale in visita un amico. Molière è tappato in casa e malato. L’amico si chiama Nicolas Despréaux, letterato di riconosciuta finezza, spirito libero, frequentatore delle taverne letterarie d’avanguardia. Libertino. Col suo nascente prestigio ha difeso l’arte di La Fontaine e di Racine, ha additato in Molière il modello della Commedia. L’ha riconosciuto come uno dei maggiori pensatori del suo tempo.

Molière tossisce, con brevi istanti d’apnea. Subito dopo deve espettorare. Conversare con lui non è facile.

La sua tosse è talmente cronica, che ha dovuto attribuirla, nelle sue commedie, ai personaggi da lui stesso impersonati. Gli spettatori più fedeli provavano gusto nel constatare la sua furbizia d’autore-attore, capace di trasformare in comica finzione i veri sintomi d’una salute che non diceva niente di buono.

Il signor Despréaux prova fastidio ogniqualvolta vede il grande pensatore sprecarsi sul palcoscenico in lazzi da farsa.

Despréaux si faceva chiamare così per distinguersi dai suoi due fratelli maggiori, anch’essi letterati, ambedue più rispettabili di lui nella Parigi del tempo, l’uno funzionario di corte, l’altro teologo alla Sorbona (anch’essi arguti: il teologo, per esempio, scriveva solo in latino: «Spero che così i vescovi non mi leggano, e mi lascino in pace»). Dei tre fratelli, il terzo era il più sregolato, il più esposto ai fulmini delle autorità e dei debiti. Il nome di famiglia dei tre fratelli era Boileau. Ed è con questo, svanita la memoria degli altri due, che il terzogenito, il grande amico di Molière, passerà senz’altro alla storia.

La tosse di Molière è maligna e parossistica. Oltre a tagliargli il respiro sembra squarciargli il petto. Evidentemente soffre d’una fluxion à la poitrine, d’un afflusso d’umori ai polmoni, un’infiammazione. Oggi sospetteremmo subito la tubercolosi. Non gli capita ancora di trovarsi la bocca piena d’un rigurgito di sangue. È solo questione di tempo. Accadrà fra qualche mese, e sarà una vera emorragia terminale, la sera del venerdì 17 febbraio, anno 1673, quando in palcoscenico inizierà la sua agonia.

Per ora, c’è solo il parossismo d’una tosse difficile da domare. Boileau fatica a mantenere la calma. Contempla una volta ancora l’irragionevolezza dei grandi ragionatori: «Che poca cosa è l’uomo!». Forse il suo amico non è affatto ipocondriaco, come in genere si crede. Forse è l’opposto: non un malato, ma un sano immaginario.

Molière si sforza di reprimere la tosse; Boileau reprime l’ira e parla pacatamente all’amico: come è mai possibile che non si renda conto del male che gli fa la pratica del recitare? La continua tensione nervosa dell’esporsi al giudizio degli spettatori, sera dopo sera? Non capisce quanto nuoce ai suoi polmoni sforzare la voce per declamare i versi e colorire le battute? E la polvere che respira in palcoscenico? E la biacca del maquillage che è a base di piombo e avvelena la pelle? Non lo capisce che deve astenersi dal recitare? Che cosa glielo impedisce? Dirige una grande e famosa compagnia: ci sarà pure un attore capace di rilevare le sue parti e sostituirlo degnamente in scena. Lui fa già moltissimo per i suoi compagni fornendo loro commedie di successo. Eppure a volte la compagnia gli si rivolta contro. Se smettesse di recitare, la sua autorità verrebbe rafforzata. Attori e attrici si sentirebbero a rischio, se in scena li lasciasse soli. Ricorrerebbero ai suoi consigli, implorerebbero i suoi comandi. La sua vita scorrerebbe più liscia. Alla sua salute malandata tornerebbero le forze. Abbandonare le scene è insomma un suo preciso dovere.

Molière salta su dalla poltrona quasi l’avesse punto una vespa. Smette di tossire, non crede alle proprie orecchie: «Non recitare più!? Ma che cosa dite? Per me non smettere di recitare è un onore!».

Usò proprio la parola honneur: «Il y a un honneur pour moi à ne pas quitter».

Il colloquio ci è stato trasmesso da Boileau stesso per interposta persona. Lo raccontò a un amico di trent’anni più giovane, che si chiamava Jacques Losme de Monchesnay. Nel 1741 (erano passati trent’anni dalla morte di Boileau), costui pubblicò un libretto intitolato Boleana, ou bons mots de M. Boileau. Un’edizione poco appariscente, stampata senza i dovuti permessi, ufficialmente ad Amsterdam, in realtà a Parigi e di straforo. Tre anni dopo, il libretto ebbe l’onore d’essere inserito nell’edizione delle opere di Boileau curate dall’abate Sonchay.

Monchesnay, quand’era quindicenne, già pubblicava epigrammi ad imitazione di Marziale, ma benché fosse un letterato precoce fu comunque troppo giovane per Molière. Nato nel 1666, era ancora un bambino negli anni in cui Molière concludeva la sua carriera e la sua vita. Boileau, però, gli trasmise un’immagine vivida di quel gran padre della Commedia. Monchesnay fu, pro tempore, un letterato teatrale. Per cinque o sei anni, fra il 1687 e il 1693, scrisse commedie per la compagnia degli attori italiani che recitavano a Parigi (le sue commedie verranno pubblicate nella raccolta del Gherardi, uno dei più importanti documenti della cosiddetta “tradizione” della Commedia dell’Arte). Poi, come molti altri – fra cui il grande Racine – anche Monchesnay, scrittore minimo, aveva rinnegato l’inverecondo mondo delle scene per salvarsi l’anima e la reputazione. Nel 1698, pubblicò un trattatello sulla schiavitù delle passioni.

Queste notizie ci aiutano a capire le parole con cui commenta l’episodio del lontano faccia a faccia del 1672 fra Boileau e Molière malato. Monchesnay aveva saputo che Molière – non solo in scena, ma anche nella vita di tutti i giorni – si comportava da attore e commediante, mais il parloit en honnête homme, rioit en honnête homme, avoit tous les sentimens d’un honnête homme; en un mot, il n’avoit rien contro lui que sa profession.

Boileau aveva raccontato a Monchesnay che quando l’amico malato l’aveva sorpreso con quell’improvviso riferimento all’onore, lui fra sé e sé non aveva potuto trattenersi dal pensare: «Plaisant point d’honneur!», che bislacco e ridicolo senso dell’onore!

Fra il bizzarro o lunatico o segreto o misterioso senso dell’onore che nutriva Molière, e l’onore che gli attribuiva Boileau, agli occhi dei posteri ha indubbiamente prevalso il secondo. Questa vittoria fa pompa di sé nei libri e nel marmo. Perduta la scena, ha fatto testo.



[*] Riproponiamo qui parte del contributo di Ferdinando Taviani, Dalla scena al testo – Conversazione aneddotica – pubblicato in Studi di Storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. MAZZONI, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 244-256: 251-256.

[1] MOLIÈRE, Œuvres complètes, édition dirigée par G. FORESTIER, avec C. BOUROUI; textes établis par E. CALDICOTT et A. RIFFAUD; comédies-ballets coéditées par A. PIÉJUS; avec la collaboration de D. CHATAIGNIER, G. CONESA, B. LOUVAT-MOLOZAY et L. MICHEL, Paris, Gallimard, 2010, 2 to. di pp. CXXVI + 1600 e pp. XXVIII + 1758 (“Bibliothèque de la Pléiade”). Questa edizione, che ha tutta l’aria di restare a lungo insostituibile, sostituisce quella del 1971, anch’essa in due tomi, curata da Georges Couton.

[2] Cito dall’Introduction di Georges Forestier avec Claude Bourqui, alla nuova edizione Pléiade delle opere di Molière, to. I, in partic. pp. LVII-LVIII. 

[3] Il monumento prende forma in un tardo ritratto, idealizzato, composto alla fine del Settecento da Jean-Antonin Houdon: l’artista mostra congiunte le due glorie di Molière, grande pensatore e grande scrittore di commedie, attribuisce al suo sguardo lo stupor philosophicus (frequente anche nei ritratti eseguiti mentre Molière era in vita) e in mano gli pone il testo del Misanthrope. Nel 1844, Gabriel-Bernard Seurre copiò il quadro di Houdon nella statua che decorò la «fontana Molière» all’angolo di rue Richelieu.


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