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Stefano Mazzoni

Tra Vicenza, Sabbioneta e l’Inghilterra…

Data di pubblicazione su web 02/03/2017
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Si pubblica qui l’intervento di Stefano Mazzoni al workshop “Traveling Engineers and Architects – Knowledge Transfer in Early Modern Theater Cultures” (Wolfenbüttel, Herzog August Library, 7-8 febbraio 2017).

Nel 1611 a Londra veniva stampato Crudities di Thomas Coryat in cui si parlava anche della cinquecentesca inaugurazione del teatro degli accademici Olimpici di Vicenza. Uscito dalla penna di un avventuroso pioniere del Grand Tour, quel libro aveva tra i “prefatori” Inigo Jones: l’architetto, pittore, ingegnere e scenografo che grazie alla esperienza di formazione del viaggio in Italia (da lui compiuto per la prima volta forse tra il 1598 e il 1603) conferì un volto nuovo alla scena britannica importando in Inghilterra un patrimonio di nuove conoscenze anche tecnologiche senza dimenticare le proprie radici britanniche.

Nei suoi viaggi italiani Jones si misurò a fondo con l’“invenzione” della scena moderna. Quella invenzione ruotò su due perni opposti reciprocamente influenti: da un lato il filone classico-vitruviano (le riflessioni sul testo del De architectura, le prassi dei rilievi delle vestigia dell’antico); dall’altro il filone pratico-romanzo cui pertennero sia la scena prospettica fondata sull’idea di città sia la tecnologia macchinistica derivata dalle archetipe esperienze scenotecniche fiorentine di Filippo Brunelleschi. La scena di città fu lo specchio delle ambizioni, dei progetti culturali e dei sogni di gloria delle corti e delle accademie italiane del XVI secolo. Declinata in diverse tipologie (si pensi alla palladiana scenafronte-piazza dei greci dell’Olimpico di Vicenza) l’idea di città fu l’essenza della scena “all’italiana” cinquecentesca, mentre la prospettiva sigillò la forma di questo nuovo tipo di scenografia destinato a una fortuna di respiro europeo anche a livello trattatistico. Valga per tutti la diffusa ricezione europea del trattato di Sebastiano Serlio.

Si sa che a partire dal 1605 Jones introdusse tecniche sceniche inedite in Inghilterra. Tecnologie di palcoscenico di matrice medicea. Lo conferma tra il 1606 e il 1611 l’uso jonsiano del palco a scena girevole (machina versatilis), nonché della scaena ductilis. Giova ora ripensare alla rigorosa monografia che Caterina Pagnini ha dedicato a Costantino de’ Servi architetto-scenografo fiorentino alla corte d’Inghilterra (1611-1615), opportunamente ricordandoci che la concorrenziale presenza a Londra dello smaliziato rivale fiorentino fu tra le ragioni che indussero Jones a intraprendere un altro tour in Italia per rinnovare le proprie competenze al servizio della raffinata corte degli Stuart.

Il traveller Jones giunse per la seconda volta nella penisola nell’estate 1613. Aveva quarant’anni. Era famoso. Guida d’eccezione, viaggiava al seguito della piccola corte di Thomas Howard conte di Arundel. Nel settembre di quell’anno soggiornò a Venezia e a Vicenza. L’anno dopo, in agosto, conobbe a Venezia l’ultimo grande architetto del Cinquecento italiano, Vincenzo Scamozzi (fig. 1), rilevandone acutamente la «malice against Palladio». La notizia è trasmessa da una delle numerose postille apposte da Jones alla copia di sua proprietà dei Quattro libri palladiani oggi conservata al Worcester College di Oxford. Una fonte basilare. Aggiungo che l’architetto fu un lettore assiduo anche della Idea della Architettura Universale (fig. 2) di Scamozzi: summa preziosa del pensiero architettonico di un architetto-viaggiatore sapiente che si definiva “cittadino del mondo”. E non sarà inutile rammentare la fortuna europea di tale trattato.

Vicenza fu una tappa cruciale per l’architetto-scenografo britannico. Al pari del soggiorno fiorentino dell’ottobre 1613. A Firenze, dico cose note, egli, grazie alla ipotizzabile frequentazione di Giulio Parigi, fece ulteriore tesoro del patrimonio scenotecnico pratico-romanzo mediceo: la scena prospettica, il palco a scena mutevole, la scena mobile (scaena ductilis), la macchineria (si pensi alla macchina delle nuvole) ecc.; alimentando così la sua inventiva scenotecnica al servizio dei masques da lui definiti «nothing else but pictures with light and motion» (1632). A Vicenza, invece, ebbe modo di osservare da vicino il sogno di restituzione integrale del gran teatro degli antichi inverato da Andrea Palladio nel maestoso teatro Olimpico. Una “visione” indimenticabile destinata a slittare nella cultura teatrale del «Vitruvius britannicus». Vicenza, 23 settembre 1613 (fig. 3). Scrive Jones nella più estesa delle sue postille ai Quattro libri (cito in prima battuta, per comodità, in traduzione italiana, facendo seguire il testo originale):

«Il teatro di Palladio ordina una scena frons di mattoni rivestita di stucchi piena di ornamenti e di statue come nel disegno che ho. Le prospettive sono cinque: quella di mezzo (fig. 4) è una strada con case, templi ed edifici simili di fronte; al limite della scena un arco trionfale dipinto; tutte le case sui lati sono a rilievo; le finestre tagliate e realizzate con bordi interni per creare uno spessore; le colonne erano piatte ma arrotondate intorno ai bordi; le statue di marmo e bronzo finti (fig. 5), voglio dire quelle raccorciate sono piatte (fig. 6), ma di tutto rilievo, il che si dimostra strano vicino ma bene a distanza. Sui passaggi dei lati tutte le luci (fig. 7) erano poste in modo da apparire come essi dicono, eccellenti: le prospettive erano dotate di ganci di sostegno per i lumi in vetro (fig. 8) e mensole di appoggio (fig. 9) con parafuoco per i lumi in latta (fig. 10); il piano di calpestio era di legno semplice (fig. 11) ma dipinto come un pavimento, le cornici erano larghi sporgenti pezzi di tavole di legno di pino e delicatamente dipinte. Il tetto era di travi e tegole coperto con un telone; l’artificio principale era che dovunque uno sedeva vedeva uno di questi prospetti. In questa scena non vi erano apparizioni di nuvole o simili cose, ma soltanto è risolta nell’artificio della scena in prospettiva» (corsivi miei).

«The Theater of Palladios ordering the front of the Sceane of Bricke covered with Stu[cc]o full of ornament and stattues as in the designe I have. The Prospectives ar 5: the medest is a streete of houses Temples and suchlicke in front; at ye end of ye scene an arck triumfall Painted; all thec houses on ye sides ar of Releane; the windoues Cout out and maad with bourdes inwardes to maak a thicknes; the Collombs wear flatt but roud tourd the edges; ye Stattues of marbel and bronzo finto, I mean thos in shortining ar flatt but of hole Releafe, wch shew strangly a neear but a far of well. On the Passages of the sides all the lightes wear Placet wch, as t e[y] said, sheawed exelently the flouer was Playne Boardes but Painted lyke Pauement; ye Cornishes wear Splaie Peeces of Deael bourdes and Painted slightly. The rofe was ye rafters and tiles covered with canuase; the cheaf artifice was that whear so euer you satt you sawe on of thes Prospectes. In this Sceane thear is no apparitions of nugolo and such licke but only the artifice of the seeane in Prospective Carrieth». (Notes by Inigo Jones in the copy of Andrea Palladio, I Quattro libri dell’Architettura, Venezia, Bartolomeo Carampello, 1601, L. I, p. 5. Worcester College, Oxford).

Si noti. È la scena prospettica il fulcro della descrizione compiuta da un uomo di teatro in grado di valutare tecnicamente ciò che stava osservando. Naturale che egli annotasse: «In this Sceane thear is no appartitions of nugolo and such licke». La macchina teatrale di Palladio e Scamozzi, dotata di un palco a scena fissa, esprimeva una idea di teatro diversa da quella, cara a Jones, fondata sulla sintassi dell’automatismo mutuata dal buontalentiano teatro degli Uffizi. All’Olimpico invece Andrea Palladio restituì al mondo moderno l’idea architettonica del teatro antico (fig. 12): la tesa semiellisse della cavea coronata da uno slanciato peristilio ritmato da colonne e semicolonne alternate, l’orchestra “affondata” nel terreno come nei teatri romani e “arginata” da un elegante muretto, l’ampio proscenio inquadrato dalle versurae e coperto da un soffitto a lacunari, la monumentale scenafronte animata da statue dettero vita a un unicum dell’architettura teatrale europea “calato” all’interno di uno spazio al chiuso sul tipo degli ekklesiasteria ellenistici e degli odei romani.

Scamozzi, è ormai provato per via di documenti, realizzò la artificiosa scena prospettica che destò la curiosità di Jones: una scena tragica (fig. 13). Pensata, come scriveva uno spettatore cinquecentesco, «di architettura finissima, e di legname sodo per dover sempre durare». Plastica, fissa, a fuochi multipli (fig. 14) e sviluppata in profondità tale scenografia rinnovava la tipologia monofocale serliana dei «telari» e si differenziava perentoriamente dal palco a scena girevole e dalla fiorentina complessità macchinistica vasariana e buontalentiana, impalcando una suite di edifici policromi in legno e stucco raffigurante le sette vie di una metaforica Vicenza-Tebe splendente di luci in cui i committenti si riconoscevano compiaciuti nel segno dell’asburgica idea d’impero. Si ripensi, anche in chiave “vicentina”, alla Londra «reale-simbolica» emblematizzata nella Banqueting House a WhiteHall messa in prospettiva da Jones dopo il suo secondo viaggio in Italia. E si ricordino le riprese delle prospettive scamozziane compiute dallo scenografo al suo rientro in Inghilterra: nel 1622, per esempio, in The Masque of Augurs.

Si noti infine, nella citata descrizione, il riferimento al disegno del teatro Olimpico. Quale era il disegno tra le mani di Jones? Si trattava dell’unica testimonianza grafica a noi pervenuta del progetto palladiano per l’Olimpico (fig. 15) databile 1579-1580 e oggi conservata al RIBA di Londra (BD, VIII, 5, già XIII, 5). Il disegno propone due soluzioni alternative. Il foglio viaggiò sino all’Inghilterra in seguito all’acquisto da parte di Arundel di un gruppo di disegni di Palladio e Scamozzi, probabilmente grazie ai buoni uffici di Sir Henry Wotton. Si osservi ora il disegno Worcester College di Oxford, foglio 249 C e D (fig. 16). Dapprima attribuito a Jones e variamente datato, il foglio è stato poi ricondotto al suo allievo John Webb ed è stato datato tra il 1640 e il 1650. Illustrerebbe uno studio teorico.

A destra vediamo una copia del progetto per l’Olimpico posseduto da Jones e caratterizzato, ripeto, da due diverse soluzioni. Soluzioni che Webb disloca su due livelli per meglio sottolinearne le differenze. A sinistra invece vediamo lo studio per un nuovo teatro (fig. 17): una rivisitazione tendenziosa dell’idea di teatro di Palladio filtrata da Jones. Il progetto palladiano si incardinava sulla grandiosa parete della scena fronte protagonista assoluta di uno spazio “tutto architettura”. Invece nel disegno di Webb la ianua regia Olimpica si dilata. La frons si trasforma in grandioso arcoscenico incorniciante una scena tragica fissa di sapore serliano (fig. 18). Quasi una rielaborazione figurativa, tendenziosa giova ripeterlo, della minuziosa descrizione di Jones del palcoscenico dell’Olimpico. Mentre la cavea emiciclica disegnata in pianta da Webb rimanda alla concezione serliana dell’udienza (fig. 19), non alla semiellisse del teatro palladiano (fig. 20). La scenafronte vitruviano-palladiana del resto, era già stata rimodulata in modo originale da Jones nel 1629-1630 per il teatro del Cockpit-in-Courte a Whitehall (fig. 21), ispirandosi alle esedre curvilinee che animavano la scaenae frons disegnata da Palladio per il Vitruvio di Daniele Barbaro (fig. 22).

Jones era rientrato in patria nel gennaio 1615. Sulla scia del soggiorno in Italia ripensò la propria idea di teatro affinando le sue competenze di architetto teatrale. Penso tra l’altro al disegno (fig. 23) ricondotto a lungo alla penna di Jones e al londinese Phoenix Theatre a Drury Lane di Christopher Beeston. Foglio ora riferito a un teatro non identificato.

Comunque sia, resta che siamo nell’Inghilterra che aveva acquisito la lezione teatrale di Jones. Prendiamo le sezioni trasversali (fig. 24). La scena è caratterizzata nella parte inferiore da una frons scaenae con ianua regia e hospitalia abbinati all’upper stage elisabettiana. Una feconda contaminazione di tradizioni sceniche autoctone e classicismo pseudo-vitruviano. Un nuovo tipo di teatro di stampo britannico che coniugava fonti diverse: vitruviane, italiane, giacobiane (fig. 25). Si noti la compresenza di cavea all’antica e di gradoni che si sviluppano in verticale. Si guardi infine il prospetto del teatro. Un edificio teatrale incardinato sul meticciato. Antico e nuovo.

E il pensiero corre alla magistrale sintesi di antico e di nuovo e di plurime fonti realizzata nel teatrino di Sabbioneta (fig. 26) costruito da Scamozzi tra il 1588 e il 1590 per Vespasiano Gonzaga nel cuore della pianura padana.

Nel 1588 l’architetto partì da Venezia per effettuare un primo sopralluogo a Sabbioneta. Qui, dal 3 al 10 maggio, valutò il sito messogli a disposizione dal principe e disegnò di getto il progetto di massima dell’edificio in pianta e in sezione longitudinale (fig. 27): un sintetico, parlante schizzo preparatorio.

A dispetto delle citazioni dell’Olimpico (si noti l’andamento emiciclico della parte centrale della cavea e l’arioso peristilio corinzio) e dei “semi” serliani, il teatro di corte di Sabbioneta è il primo esempio di edificio teatrale “moderno” non vincolato da un involucro preesistente e con un’autonoma facciata architettonica libera su tre lati.

I tre ingressi diversificati (per il principe, per gli spettatori e per gli artisti) distribuiti su tre lati della fabbrica rimodulando con intelligenza il sistema di accessi proposto all’Olimpico di Vicenza; l’atrio con funzione di “ridotto”; le soprastanti salette retrostanti alla loggia; l’anticipatrice forma mistilinea della cavea con cinque gradoni lignei dall’innovativo andamento a voluta; l’aggiornata orchestra inclinata per consentire una migliore visuale del palcoscenico (mutuata dal Mediceo buontalentiano a conferma dei rapporti di Scamozzi con i principi fiorentini, Ferdinando I e don Giovanni inclusi); il retropalco d’ascendenza vasariana attrezzato con camerini per comici e musici e dotato di un autonomo accesso (fig. 28) fornivano stabilmente valide risposte non solo alle esigenze di prestigio e sontuosità proprie del teatro d’élite cinquecentesco, ma anche alle istanze tecnico-esecutive che tanta importanza andavano assumendo per la buona riuscita dell’evento spettacolare e che Scamozzi aveva sondato a fondo nell’officina spettacolare dell’Olimpico. Anche la distribuzione del pubblico era originale. Mentre nelle esperienze precedenti e coeve della sala d’apparato (di corte e accademica) il principe e gli ospiti di maggior riguardo prendevano posto nell’orchestra, Vespasiano sedeva nel peristilio, Cesare fra i Cesari (fig. 29). Scamozzi rivoluzionò così la distribuzione classico-serliana (e palladiana) del pubblico che collocava nell’orchestra gli spettatori «più nobili» e nella zona superiore della cavea quelli «men nobili» e la «plebe» (fig. 30). Una soluzione di grande futuro, ripresa da Giovan Battista Aleotti nel verone principesco del teatro Farnese di Parma (fig. 31), ma spesso sottovalutata dalla storiografia. Il viaggio teatrale da Vicenza a Sabbioneta aveva dato i suoi frutti. E piace immaginare che nell’incontro veneziano del 1o agosto 1614 Scamozzi avesse parlato con Jones anche del teatro da lui realizzato per il signore di Sabbioneta, magari sul filo della documentata curiosità dell’architetto inglese per le prospettive dell’Olimpico; ed è probabile che proprio in quella estate in laguna Jones acquistasse dallo Scamozzi il superbo disegno autografo (fig. 32), oggi nella collezione di Chatsworth, raffigurante il lato sinistro della prospettiva impalcata dietro la ianua regia del teatro palladiano.




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