Le parole de Napole mpastate
Non songo, frate mio, doro pommiento
Ma de zuccaro e mele.
G.C. Cortese, Viaggio di Parnaso
Oh bello tiempo antico,
o canzune massicce,
o parole chiantute,
o concierte a doi sole,
o museca de truono,
mo' tu non siente mai cosa de buono.
G.B. Basile, Calliope overo La museca
Noi cavalieri erranti
Balliam con ogni ceto. A noi, a noi,
Llarai llarà…
G. Federico, Lo frate nnammorato
Nellautunno del 1732 lesigente pubblico partenopeo rimase forse attonito dinanzi alla levata dei cartelli delle sale teatrali cittadine: tra stupore e attese constata debutti eccellenti, riprese rassicuranti, ritorni desiderati, novità aspirate, tributi dovuti. Labbagliante sala votata allufficialità regia del San Bartolomeo accoglie il frutto ultimo del gran poeta che a Napoli aveva mosso i primi passi raccogliendo allori proprio su quelle tavole ora pronte a ospitare lIssipile, da poco restituita alle asburgiche scene. La recente fatica metastasiana giunge allombra del vulcano trasportata da una eco possente, rinnovando il legame indissolubile tra la “fedelissima” e il cesareo poeta; un ponte ideale, e non solo, collega laquila bicipite allammaliante sirena, il sodalizio politico consolida quello artistico in uno scambio intensissimo e fecondissimo senza eguali. La gara innescatasi allindomani dellallestimento viennese del titolo di Trapassi vede unaccesa contesa tra più piazze e naturalmente le città teatralissime dItalia programmano nuove intonazioni per i concettosi versi del romano. Dopo labito musicale della première confezionato da Francesco Conti, la Serenissima si rivolge per il nuovo debutto a Giovanni Porta mentre il golfo fa risuonare il prezioso testo con le vaghissime invenzioni armoniche di Johann Adolph Hasse; questultimo da tempo beniamino della platea napoletana e accorsatissimo maestro in ogni latitudine. A coronare limpresa promossa al San Bartolomeo provvede un cast stellare che ruota intorno alleroina eponima sostenuta da Faustina Bordoni, da un biennio in Hasse, e che annovera, tra gli altri, Gioacchino Conti detto Gizziello, Lucia Facchinelli, Francesco Tolve. Un omaggio a colui che fu un altro eccellente cantore metastasiano viene dalla produzione al Teatro Nuovo sopra Toledo de La festa di Bacco che Leonardo Vinci compose nel 1722 per il Teatro dei Fiorentini. In questoccasione lopera fu rimessa in scena grazie alle cure di Leonardo Leo chiamato ad accomodare la partitura in virtù del tempo trascorso e della mutata compagnia che vede a raccolta artisti del calibro di Simone de Falco (specialista nei ruoli di “vecchia” en travestì e già presente nel 22), Laura Monti (tra le maggiori “servette” della commedia musicale napoletana), Giovanni Romaniello (anche questi già impegnato alla prima rappresentazione della commeddeja su testo di Tullio), Antonia Colasanti. Al teatro di Montecalvario nella stessa stagione è allestita anche la commeddeia pe museca di Tullio La vecchia trammera posta in musica dal veterano del genere Antonio Orefice con alcune arejelle approntate da Leo. A connotare fortemente lofferta della sala inaugurata nel 1724 è il registro linguistico tutto modulato sulle declinazioni della lingua napoletana a differenza dei prodotti esibiti sulle tavole del Fiorentini in cui si opta per testi dove coesistono il “toscano” e il napoletano in una stratificazione lessicale assai ardita. Le sale della commedia ancora una volta mostrano l“alterità” dellofferta non solo nei titoli prescelti ma nella strenua ricerca di un manufatto originale da sottoporre agli attenti fruitori spesso artefici e protagonisti, attraverso modalità quanto mai disparate, degli esiti estetici delle produzioni. È la sperimentazione a muovere principalmente il repertorio praticato dalle “piccole” stanze dedite non solo al genere spettacolare nato e forgiato in città ma anche a quelle forme performative di collaudata tradizione le cui ricadute sullesperienza della scena musicale arrecano benefici ineguagliabili. Negli anni Trenta la «chelleta, [o] stà commesechiamma» aveva raggiunto livelli altissimi grazie a un raffinato e solerte lavoro teso a sondare le molteplici possibilità performative del genere che mostra ben presto la propria natura onnivora assorbendo stili, registri, mode, idee, storie, pensieri nonché tecniche attoriali dissimili finalizzate a definire una categoria dartisti dalla forte professionalità e specializzazione. Appare chiaro che a Gennaro Antonio Federico laccolita di artisti, riunita dallimpresario Domenico de Nicola, suggerisca una griglia di ruoli e azioni attenta a soddisfare e a valorizzare appieno le potenzialità dei singoli; così come il giovane, talentuoso e protetto Giovanni Battista Pergolesi concerterà con attenzione lo spettacolo affinché nessun cantante sia lasciato ingovernato. La scrittura de Lo frate nnammorato è il risultato, complesso e ingegnoso, in cui tutti gli artefici dellimpresa contribuiscono alla riuscita dello spettacolo. Già dalla tabula si rivelano i fondamenti su cui si muoverà loperazione: PERZONAGGE.
MARCANIELLO viecchio, Patre de Luggrezia, e dde D. Pietro.
Lo Sio Jacovo dAmbrosio.
NENA, e NINA sore carnale, Romane: nnammorate tutte doje dAscanio.
La Sia Marian. Ferrante, e la Sia Teresa de Palma
ASCANIO giovene nnammorato de tutte doje, che ppo se trova frate lloro co lo nomme de Lucio: cresciuto a la casa de Marcaniello.
La Sia Teresa Passaglione.
LUGGREZIA figlia de Marcaniello, nnammorata dAscanio.
La Sia Rosa Gerardini.
CARLO Zio de Nena, e dde Nina, Romano: nnammorato de Luggrezia.
Lo Sio Giammattista Ciriaci.
VANNELLA, crejata de Carlo.
La Sia Margarita Pozzi.
CARDELLA, crejata de Marcaniello.
La Sia Maria Morante.
D. PIETRO giovene schirchio, figlio de Marcaniello.
Lo Sio, Gerolamo Piano, vertovuso de la Cappella rejale de Napole. Il poeta, nellintessere lazione, ribalta forse le consuetudini e i passaggi previsti dalle prammatiche della Commedia; di sicuro, messo a parte dei recitanti che agiranno e riconosciute le loro abilità, predispone il soggetto affinché «si sappia il contenuto della comedia, sintenda dove hanno da terminare i discorsi, e si possa indagare concertando qualche arguzia». La concertazione, alla quale è chiamato per contratto, non si esaurisce nella lettura de «il suggetto solo, ma di esplicare i personaggi coi nomi, e qualità loro, largomento della favola, il luogo ove si recita, le case, discifrare i lazzi, e tutte le minuzie necessarie». Gli attori, riconosciutisi nei tratti disegnati dalla “guida”, durante le sedute di lavoro che avvengono tra case private e teatro in un andirivieni di “sedie” destinate agli innumerevoli spostamenti delle maestranze possono, «udito il soggetto», suggerire qualche cosa preparatasi, o sia fatta apposta per quella comedia, che si chiamano doti proprie per quella, di qualche specialità di fatto, di racconto, o di cosa a quella concernente, o di cose universali, che si tengono in memoria per applicarsi a qualsivoglia comedia o favola, come sono le sudette primuscite, disperazioni, concetti, dialoghi, rimproveri, saluti, paralleli, e ciò chabbiamo detto, o grave, o ridicolo; avertendo a saperli collocare ed attaccare di modo che non pajano poste a pigione, ma che necessariamente vi cadano, e non far come certi che per haver qualche cosa di buono, o ridicolo, o grave, per dirla non si curano di porla là dove per pensiero non ci va, e così viene a porsi una pezza bianca sul nero, e si dà uno sfregio al povero soggetto per una cosa mal situata. Va da sé che le regole coniate al tramonto del diciassettesimo secolo abbiano una loro validità e veridicità anche allinterno di un prodotto che solo da pochi decenni è esposto allattenzione del mondo. I meccanismi dellArte si insinuano naturalmente in una macchina costruita da artefici che recano con loro un magistero acquisito su molteplici palcoscenici e fondato su una sapienza plurisecolare tesa a coniugare gli esiti culturali più disparati. La locandina di Federico è costruita su due gruppi familiari del tutto simili chiamati a “conversare” secondo una pluralità di linguaggi determinata dalla provenienza e dal ceto dappartenenza. Capeggiate da uomini “sodi”, ciascuno mosso da crepuscolari appetiti amorosi, i due nuclei domestici comprendono rispettivamente una figlia, un figlio, un ragazzo adottato, una serva e due nipoti orfane, una cameriera. I rapporti che passano e passeranno tra di loro sono annunciati sin dallinizio nelle puntuali osservazioni che seguono lonomastica dei personaggi. Il nodo della vicenda è tutto da ricercare nei conflitti amorosi che genera il trovatello Ascanio «giovene nnammorato» di Nena e Nina, «che ppo se trova frate lloro», amato anche da Lugrezia. La fitta rete dinteressi affettivi accumulati sul “segnato” Lucio è vieppiù complicata dalle incertezze sue nella vertigine sentimentale destata dagli inopportuni e plurimi trasporti – frenati e costipati verso la figura “sororale” di Lugrezia e avvertiti come immorali per leguale impeto provato al cospetto delle due sorelle romane. Alle battaglie interiori e a quelle esibite fa da contraltare il patto sancito dai capifamiglia per il “finale lieto” che vedrebbe appagate le loro frenesie matrimoniali con le rispettive giovani donne di casa nonché la sistemazione della coppia “giovane” Pietro-Nena che rafforzerebbe ulteriormente i legami parentali. Lesito finale scompaginerà i piani dei maturi “contraenti”, diraderà le torbide incertezze amorose del conteso, vedrà compirsi un solo legame matrimoniale fino ad allora assai improbabile e mostrerà una conclusione agrodolce decisamente lontana da quella inizialmente auspicata. Ancora una volta il librettista fa tesoro di una tradizione collaudata. Larte performativa aveva adoperato espedienti analoghi sin dal Cinquecento sullonda di un immaginario letterario autorevole: fratelli divisi da incresciose avversità e destinati a esperienze avventurose per poi ri-trovarsi costellano le scene. Spesso sono creature attratte da inspiegabili ardori sentimentali che non sfociano in immondi incesti grazie a miracolose e opportune agnizioni. I due felici rivali di Jacopo Nardi, lanonimo Panfilo e Filogenia, Il Commodo di Antonio Landi, Nina di Giovanbattista Pescatore, Lo specchio damore di Bernardino Bizzarri, Il Vespa di Cornelio Lanci, Fortunio di Vicenzo Giusti narrano le peripezie di fratelli e sorelle disgiunti in tenera età che per una serie di coincidenze vengono in contatto e provano unempatia destinata a rivelarsi, attraverso amuleti voglie nei monili scritti, consanguineità. Ma anche i patti stipulati tra anziani per le nozze con giovani figlie o pupille si rintracciano, ad esempio, ne LAltilia di Anton Francesco Raneri, ne La gelosia e ne La Sibilla di Anton Francesco Grazzini, ne Il donzello di Gianmaria Cecchi. I modelli trovano consensi anche nel repertorio dellArte; la commedia allimprovvisa accoglie generosamente queste situazioni e le pone allinterno dei suoi meccanismi rappresentativi. Una rappresentanza di tali figure emerge, tra laltro, dal manoscritto tardo-seicentesco dello Gibaldone de soggetti da recitarsi allimpronto raccolti da Annibale Sersale conte di Casamarciano. La preziosa fonte partenopea consente di verificare non solo lincidenza di simili personaggi ed espedienti in un vasto campionario di scenari, ma la loro presenza e persistenza in un circuito teatrale napoletano. Tale fonte permette inoltre di ipotizzarne, con sicurezza, la conoscenza diretta da parte degli artefici del nuovo genere musicale. Le sale dedite alla commedeja pe mmuseca hanno una spiccata vocazione allArte che continuerà a interagire con la nuova offerta spettacolare per lungo tempo. Lesperienza dellimprovvisa, in vario modo, è assimilata dalla scena musicale, e più volte è possibile individuare intrecci, tecniche, meccanismi di chiara ascendenza della Commedia, se non, addirittura, la presenza di artisti provenienti dalla sua scuola o a questa assimilabile. Nel canovaccio La donzella di lavoro è Donna Ines a provare pulsioni amorose per Don Prospero che si svelerà esserle fratello mentre nella Balia grande lintreccio risulta più complesso e artificioso, partendo da indicazioni già eloquenti: Dottore | Lutio fratello supposto
di Isabella | Oratio creduto figlio | Rosetta balia | Coviello e
Pollicinella, servi | |
| Tartaglia padre | | Angiola figlia |
Quindi si giunge allo scioglimento che vede i rapporti mutati e soprattutto sventato lincestuoso amore tra Oratio e Isabella: Dottore | Oratio fratello di
Isabella | Lutio sua figlio | Rosetta balia | Coviello e | Tartaglia padre | Pollicinella, servi | Angiola figlia | | |
Più eloquente per il plot adoperato da Federico è il canovaccio La stravaganze damore in cui la schiava Eurilla, che ama riamata Claudio, è al centro della cupidigia amorosa dei “vecchi” Graziano (che, padre dellamoroso Claudio, intende sposare in giornata la fanciulla) e Pascarello, nonché di Lucio che si scoprirà fratello delloggetto desiato: Scena 10
Lucio, poi Covello e detti Lucio saluta Claudio, quale lo rimprovera dinfedele; in questo esce Covello e dice a Claudio che dentro quella borsa ci sono certi anelli che non sono di Pascarello, che se li pigli, perché uno è di Lucio e laltro è dEurilla, Pascarello caccia lanelli dalla borsa e vede esservi in quelli la sua impresa, e domanda a Lucio dove havea havuto qu<ell> anello? Lucio dice che lhebbe quando fu rapito da masnadieri, mentre essendo lui picciolo andava con suo padre, e con loro vi era anche una sua sorella picciola, chiamata Lucretia, e che poi lui se ne fuggì, e dice anche havere un morso di cane nel piede destro, Pascarello lo conosce per figlio e labbraccia, e dice a Claudio che mandi a chiamare <E>urilla per saper nova dellaltro anello, e Covello va a chiamarla Scena 11
Eurilla e detti Domandata da Pascarello dellanello? risponde haverlo havuto da quando fu venduta, che si chiamava Lucrezia, Pascarello li domanda se ha qualche segno per la vita, Eurilla haverne uno di latte sotto la poppa destra, e Pascarello la conosce per figlia e labbraccia; in questo Scena Ultima
T<utt>i Dicono il tutto a Gratiano, si fa il matrimonio tra Eurilla e Claudio, e con allegrezza finiscono lopera. Le assonanze tra le indicazioni contenute nel testo dellimprovvisa, nel momento culminante dellultimo atto, e quelle messe in campo da Federico sono palesi; la presenza di un personaggio femminile dal nome Lucrezia/Luggrezia, il dato onomastico di Lucio per il fanciullo disperso, la vicenda del rapimento effettuato dai masnadieri, il segno fisico rivelatore («un morso di cane nel piede destro» e «al braccio un segno»), il gioiello eloquente (lanello per glistrioni e la medaglia per gli armonici), le nozze singole a fronte di quelle vagheggiate nel corso della storia. La scrittura del poeta per musica sembra pertanto la stesura “regolare” delle indicazioni all“impronto”: Carlo | E discoprir ne ha fatto
Un gran bene per noi. Mi dica in grazia,
Come si trova in suo potere Ascanio? | Marcaniello | Perché lo bo sapè? | Carlo | La sua ferita
Volli osservar, e vidi al braccio un segno,
Che Lucio avea, quel piccolo figliuolo;
Che perdè il mio Germano. | Marcaniello | Io quanno jette
A Romma, a lo ttornà (creo, ca mo songo
Quase decessettanne) quanno fuje
A la Fajola, nterra llà lasciaje,
E a Nnapole co mmico lo portaje. | Carlo | Ivi il perdè il German: salvando appena
Queste ragazze; allor, che gli convenne
Fuggir da masnadieri. | Nina | Era ei detade
Circa a quattranni, il padre ne diceva. | Marcaniello | Gnorsì da lloco jeva. | Nena | Al collo appesa
Avea certa medaglia. | Marcaniello | Appunto. | Carlo | È desso. | Nena-Nina | O mio dolce fratello. | Ascanio | A lo passato
Mo penzo. Io vera FRATE, e ppe sta causa
De tutte doje stea tanto NNAMMORATO. |
Alcune varianti rispetto ai plots consaputi, come la duplicazione delle sorelle nel libretto, rientrano in quei meccanismi di opportunità drammaturgiche dettate da fattori contingenti come lassortimento degli attori chiamati a raccolta; per soddisfare i requisiti performativi della “gente di teatro” i “corago” debbono mettere in campo tutta la loro esperienza e la loro sapienza teatrale. I “tavolini volanti” (la scrittura militante non si nutre di silenzi stanziali ma di rutilanti voci reclamanti la giusta valorizzazione), lontani da ponderate quanto virtuali riflessioni, si confrontano con il quotidiano che si consuma tra le mura del teatro e delle case abilitate al “concerto” in un incessante lavoro finalizzato al felice esito della rappresentazione. Su un prontuario di contenitori prefissi e formule che avvantaggiano il virtuoso della penna si costruiscono prodotti di grande impatto, il montaggio e lo smontaggio di meccanismi consolidati e restituiti alla teorica offrono un rassicurante viatico agli interpreti che allinterno di schemi e strutture precostruite aggiungono “ornamenti” originali. Le tavole della commedeja non provano alcun sussulto ad accogliere Lo frate nnammorato in quanto vi riconoscono una serie di tecniche risapute sebbene possano aver avvertito la vertigine nel magistero dellassemblaggio effettuato dal geniale poeta. Dai boccascena inconsapevoli fratelli e sorelle innamorati o incontinenti anziani destinati con patti ad allettanti nozze con giovani donne recalcitranti avevano già occhieggiato più volte. Nel 1710 Tullio, il primo fautore di una commedia in napoletano destinata alla musica, pone in scena Li viecchie coffejate in cui gli attempati padri di Lisa e Prizeta, Nardo Cognola e Cesarone Spaviento (ruolo sostenuto da Gioacchino Corrado), contraggono un accordo che li vedrebbe sposi delle rispettive figlie. Lingranaggio dellazione in una girandola di travestimenti porterà le fanciulle a nozze gradite mentre ai due vegliardi non resterà che perdonare, “magnare”, “scialare”, “abballare”, “zompare”. Un padre vedovo affida temporaneamente alla sorella la figlia Lavinia conducendo in nave con sé il piccolo Edoardo. Durante la navigazione verso la Spagna la nave è «da una Corzara Turca assalita» e il fanciullo è rapito e reso schiavo. Dopo lunghe peripezie Edoardo ritorna in Italia dove sarà oggetto di amorose attenzioni da parte di Lavinia che, dopo un fitto intreccio allinsegna di insidiosi intrighi, si rivelerà sua sorella. Questa è, in sintesi, la storia de La sorella amante che Hasse compose, su testo di Bernardo Saddumene, nel 1729 per il Teatro Nuovo e che anticipa di pochi anni le vicende intonate da Pergolesi. La serialità di occorrenze narrative non va disgiunta da quelle degli espedienti di tradizione che fanno “camminare” uno spettacolo e dalle tipologie consolidate dei personaggi. Sfogliando le pagine Dellarte rappresentativa premeditata, ed allimprovviso di Perrucci non poche regole sembrano ispirare Federico sebbene sarebbe forse opportuno parlare di una tradizione che si perpetua più per conoscenza diretta sulla pratica che per “ozioso” studio. Eppure il prezioso trattato illumina i lati oscuri di una pratica “artigianale” dove schemi ed esemplificazioni ragguagliano sugli strumenti delle industriose officine drammatiche fatti di calchi e istruzioni efficacissimi destinati ad agevolare e accelerare la creatività degli affaccendati scrittori. Eloquenti sono le disposizioni offerte nella decima regola della seconda parte, De Sali, Motti, Arguzie, ed altre vivezze per le parti ridicole, che è la «più difficile, chè linventare ed haver arguzie pronte, improvise, frizzanti ed a tempo»; loggetto analizzato è aggredito inizialmente definendo le coordinate di massima: il motteggiare […] è di due maniere, uno continuo, e laltro breve. Il primo è per tutta la comedia, il secondo a tempo breve, ed acuto, e sono questi granelli di sale, che si spargono, ma di modo che non facciano la cosa soverchio salsa. Inoltre sono enumerate le “maniere” del «soggetto da ridere»: la prima per li vizii dellanimo, motteggiando i vanagloriosi, parasiti ed avari, e de vizii del corpo […].
La seconda maniera è nellimitazione, con la quale si fa schernevole un gobbo, un zoppo, o qualche difetto della voce o del corpo […].
La terza è nella somiglianza, contrafacendo un Francese, un Germano, un Turco, un Spagnolo, e contrafacendo i matti, e gli ubriachi.
La quarta è nel dispregio, che si fa torcendo la bocca, aprendola, cavar fuori la lingua, ridere scioccamente, ruzzare, sibilare o piangere smoderato e sgarbato.
La quinta è nella disonestà delle parole, e se questa fu tacciata in Plauto Etnico, noi le habbiamo sin da principio inveito contro.
La sesta è delle parole ingiuriose, degne solo de servi, de buffoni e parasiti.
E la settima è nel parlare contadinesco e servile, e ve ne sono daltra maniera. I punti elencati da Perrucci sintetizzano e traggono linfa da una antica letteratura e svelano la lunga gittata che avranno nei secoli successivi. Si tratta di parametri del comico ancora presenti nella vivace saggistica del secolo breve che tanta attenzione ha prestato ai meccanismi del comico. Bachtin, Bergson, Freud, Frye, Mauron, Pirandello indagano un ambito blasonatissimo la cui efficacia è ampiamente comprovata da unantica tradizione che già aveva enucleato le caratteristiche basilari su cui si fondava lindustria del “riso”. Appare normale che Federico, con i suoi compagni impegnati nella stessa impresa, ricorra con sollecitudine e urgenza creativa a quelle prammatiche familiari che tendono una prodiga mano a coloro che son chiamati a dilettare il teatro del mondo. Nella successione delle “maniere” è difficile non ravvisare le categorie alle quali egli ricorre per definire le tipologie che prenderanno vita sulle assi gloriose. Marcaniello, con la sua patologia di inabilità alla deambulazione disinvolta a causa della podagra, è soggetto a rientrare nella “seconda maniera” prestabilita e nella casella delle parti di vecchio che, nella sua regola, è destinato, tra laltro, ai “facili innamoramenti” nonché ad “essere ingannato, e burlato da servi astuti”. La vanità “continuata” di Don Pietro, magnificata da “robbe” quali lo specchio la parrucca lo “pejattiello de russo”, è oggetto di un sapiente montaggio di occorrenze disseminate nel trattato dellabate. Innanzitutto si ravvisano i tratti espunti dalle Parti de Capitan Bravi, et altre in cui si osserva che «oggi si pratticano in diversi linguaggi, havendoli alcuni fatti in Toscano, altri in Napoletano» sebbene in molti li hanno «fatti anche in spagnuolo, in romanesco, in calabrese, ed in siciliano»: È questa una parte ampollosa di parole e di gesti che si vanta di bellezza, di grazia, e di ricchezza; quando per altro è un mostro di natura, un balordo, un codardo, un poverhuomo, e matto da catena, che vuol vivere col credito desser tenuto quello che non è, de quali non pochi si ragirano per lo mondo. […] Tutti li sudetti capitan bravi serviranno per parte di terzi, o secondi innamorati, ma per lo più scherniti, delusi, beffati, e dileggiati dalle donne, da servi, e dalle fanti; poiché mostraranno bravure, e saranno poltroni, ostentaranno liberalità, e sono spilorci, vantaranno nobiltà, e ricchezze, essendo plebei, forfanti, e poverissimi; non essendovene in vero pochi di costoro, che si sostentano in vita a spese della semplicità di chi crede alle loro sbraciate, e spaventacchi, e quel chè peggio vi son di quei, che se ne vagliono per bravi; quando gli stimati leoni, son più di loro conigli. La natura di Pietro non si discosta da questa: è naturale che il poeta forgi la sua creatura assemblando solo alcuni tratti, e trae spunto anche da un esempio contenuto nella regola decima della seconda parte | | |
---|
Pasq. Frà le muraglia di questa Rocca è sempre battuta la bellezza; non posso movere il piè, chio non sia adorata. Sio vo in Mercato mi gridan dreto, come sio fussi limagine della Dea Venere, oh che fa lesser bella! eh che come vi sono queste Poppone, che paiono due zucche prataie, vanno pazzi costoro di me. | Pietro | Questa faccia
Ha fatto rivoltà Capo di monte. | Marcaniello | Te lo ccreo; nnaje avuto allocche, e fische. | Pietro | Fischi? Allucchi? È bugia: uomini, e donne
Per potermi mirare han fatto a punia:
Chi di quà, chi di là: io però intrepido,
Passato me ne son, tisico, e musico. |
Il linguaggio utilizzato per il “giovene schirchio” («dicesi ad uomo scomposto, disordinato, sregolato. Stravolto») è declinato su una girandola di registri che vanno dalluso dellidioma francese (paradigmatica è larietta «Mon Dieù combien de sciarm! / Sgiè donne des allarm / O meme cupidon. / Tirì tiri nti nton»; si pensi inoltre al reiterato «donnè moè tabacco» o al chiasmo «Madama: Le mon coeur… […] Ah le mon coeur, Madama») alluso delle auliche immagini “serie” da frequentatore del genere, capace anche di mettere a frutto cognizioni di retorica, sebbene inevitabili appaiano le cadute di tono: «Stelle, inclementi stelle! e lo mirate, / E pur non vendicate i torti miei? […] Ma cosa disse a te? tu che dicesti / A quella Fiera, a quella Tigre armena?» o «Io stongo malinconico e stizzoso, / E ntra la stizza, e la malinconia, / Che ti fa questo core arrosso sia! / Sembra una nave in mezzo a un mar, cruccioso». Lo stesso idioma mostra una gamma di livelli che vanno dallitaliano forbito al napoletano “basso” attraversando tutte le nuances possibili. Ancora una arguzia dellArte dà vita a una scena incentrata sullo “specchio”; pertanto si riportano le indicazioni contenute nel canovaccio Loggetto odiato e di seguito uno stralcio della scena diciottesima del secondo atto de Lo frate: Scena 17
Merciaro, Oratio e Policinella Merciaro vendendo robbe, Oratio piglia un specchio dalla sporta per guardarsi il volto, che li disse Policinella esser sporcato; in questo Scena <18>
Floridaura e detti Floridaura si pone dietro ad Oratio, sicché Oratio vede nel specchio leffiggie di quella e si conturba, e lascia il specchio a Policinella, Floridaura si fa a vedere, dice le solite parole di «Perfido etc.», e parte, Oratio via, Policinella si va mirando nel specchio; in questo Scena <19>
Coviello, Policinella e Merciaro Coviello si pone una mascara di demonio e poi si mette dietro a Policinella mentre si sta mirando, Policinella vedendo il demonio nel specchio fa suoi lazzi, e con questi lazzi finiscono latto primo. | |
---|
| Dà lo specchio a Cardella, e nfratanto Vannella se ride de Don Pietro, e le fa la baja da dereto, e Cardella se naddona. | Cardella | (Si Don Pietro,
Vannella è llà, e ve sta a ffa la baja). | Don Pietro | Baja? Perché mi Baja? a Vannella. | Vannella | Che nne volite
Da fatte mieje? Vuje site
Proibbeto co mmico. Scosta, scosta. | Don Pietro | Scosta scosta a sta facce? Oh lè ingiusta! | Cardella | Vide quanta malizia! Essa faceva
Le gguattarelle; e ppo…
| Don Pietro | Perché facevi
Le guattarelle? | Vannella | A mme? Chesta cca propio
Nce llha commico. Me sta sempe a ttuzzo,
Sempe a despietto. Sempe a encia; e io…
Mo nce vo… Che le faccio? Nzomma vedo,
Ca songo nata co la mala sciorte.
E llevamenne, o morte. chiagne. | Cardella | (Uh la nennella
Chiagne: sarvate mo). | Don Pietro | Non pianger, bella:
Che fai di nuovo scolorirmi. Tergi,
Su tergi il pianto… o Dio!… | Cardella | Sì sì facitele
Li scquase. | Don Pietro | Taci. a Cardella. E ppe despietto tuio,
Te, tieneme sto specchio. a Vannella. | Cardella | A cchi? | Vannella | Non serve. | Don Pietro | Via su tenitemillo tutte doje. | Cardella | No. | Vannella | No. | Don Pietro | Mo a ccapo a ccapo
Io ve tozzo ncoscienza.
Tenite. | Cardella | Vi che ffreoma! | Vannella | Che ppacienzia! | | Cardella e Vannella teneno lo specchio na mano pe duna, e Don Pietro sacconcia la perucca. |
Lurbanità di Carlo non è avulsa da ingranaggi già sperimentati; la rigorosa etichetta formale allinsegna di un galateo rispettato con compiaciuta e maniacale ostentazione garantisce costruzioni di dialoghi fondati su modelli di sicuro effetto. Efficace a tal proposito appare la scena di presentazione dello zio delle due orfane. I convenevoli con la triplice anafora di Pietro per le occorrenze «Eh burla» e «Vi creggio» si attengono luno a quei passaggi indicati come “rispondere e rifiutare” e laltro a un ipotetico espediente del “rispondere e accettare”: | |
---|
Carlo | Al suo Signor Don Pietro
Un servo obbligatissimo ha lonore
Dinchinarsi umilmente. | Don Pietro | Riverito parente,
Ge sui votr serviteur. | Carlo | Anzi, padrone. | Don Pietro | Eh burla. | Carlo | Dissi poco: padronissimo. | Don Pietro | Eh burla. | Carlo | Non mi crede? | Don Pietro | Eh burla. | Carlo | O Dio!
Fa grave ingiuria al mio
Rispetto ossequiosissimo,
Che protesto per lei… | Don Pietro | Or via, vi creggio. | Carlo | E protesterò in ogni congiuntura… | Don Pietro | Vi creggio. | Carlo | In ogni tempo… | Don Pietro | Vi creggio. | Carlo | In ogni loco… | Don Pietro | (O benaggia oje). | Carlo | Costantissimamente. | Don Pietro | (Ahu benaggia craje). | Cardella | (Va tiene, quanno
Sto Romano se mette ncompremiente). |
La “scena di complimenti” ritorna con modalità alquanto simili nellultimo atto alla scena seconda sempre tra gli stessi interlocutori; la petulanza di Carlo sul bon ton è inesauribile e temuta dalle nipoti che allestiscono per lui il “lazzo della riverenza” alle scene settima e ottava del primo atto. Puntualmente le apparizioni di Carlo destano ilarità nella servitù e molestia negli altri. La rigorosa etichetta porta il personaggio anche a elargire istruzioni per ben effettuare le “cerimonie”. È Marcaniello a usufruire di questa “lezione” da suggerire allinurbana Luggrezia sebbene ambigua pare la sua osservazione ai rimbrotti del futuro genero quando ribatte: «Uscia / Pazzea, parla de tratte, e zeremonie» senza badare alle maggiori urgenze. In effetti limpedito padre, squarciando la finzione scenica, sa che nella educazione della sua “figliola” non è mancata la conoscenza e la pratica di tutti i “lazzi”. Le capacità improvvisative degli attori-cantanti non vanno escluse allinterno di un sistema molto più fluido di quanto si possa immaginare. Senza alcun dubbio una serie di accorgimenti “estemporanei” sorprendevano lattento pubblico, pronto a cogliere le mille finezze racchiuse in questi sofisticati orditi. La caleidoscopica sfera degli affetti è calibrata su dominо variegati «cioè domandando, dubitando, rispondendo, affermando, negando, rifiutando, concedendo, ammonendo, schernendo, beffando, dissimulando, minacciando, deridendo, bestemmiando, desiderando e meravigliando». Le “arguzie” messe in campo dai drammaturghi per «arrichire i discorsi o premeditati o allimproviso, che si fanno per arte, o con le figure armoniche, che consistono nelle azioni, quali sono proprie de rappresentanti, consistendo larguzie e le facezie in parole ed in fatti» attingono da un campionario infinito in cui ci sono ignoranza, dimostrazione, narrazione, insegnamento, didaschia, affirmazione, negazione, ironia, reticenza, preterizione, giuramento, attestazione, considerazione, parentesis, correzzione, repetizione, estenuazione, commemorazione, presagio, dubio, domanda, risposta, interpetrazione, occupazione, finzione, imagine, espressione, prosopopeja, apostrofe, ratiocinazione, confusione, epifonema, compendio, perplessità, approvazione, comando, aviso, ossequio, carezze, saluto, supplica, venerazione, abbominazione, rimprovero, irrisione, esecrazione, desiderio, invocazione, voto, detestazione, raccomandazione, concessione, ringraziamento, ricusa, allegrezza, iattanza, congratulazione, applauso, pianto, improperio, penitenza, speranza, disperazione, istoria, vergogna, audacia, imprudenza, escandescenza, minaccie, giustizia, commiserazione, confessione, preghiere, e simili. Perrucci non manca di offrire indicazioni immediate ma suggerisce al collega lettore di poter «ritrovare a tua posta gli esempii in tanti ed infiniti autori» rintracciandoli «o nelle metafore ingegnose argute di somiglianza, attribuzione, equivoco, ipotiposi, iperbole, laconismo, opposizione e decezzione fondate sopra le categorie di sostanza, qualità, quantità, figura, relazione, azzione, passione, luogo, moto, tempo ed abito, delle quali liperbole, e la decezzione sono più proprie per li ridicoli nelle comedie, e più maestose e più fiere nelle tragedie». Federico e Pergolesi si assicurano dei personaggi atti a soddisfare la “maniera” sesta con luso «delle parole ingiuriose» (ma già Basile aveva redatto modelli di grande efficacia). È a Cardella e Vannella che tocca il compito di prodursi nella scena delle ingiurie lungamente preparata nel corso dellazione dalle tensioni accumulatesi tra le due create in un contenzioso esplicito e implicito che assomma lemmi suggeriti copiosamente nella regola ottava alla voce Disperazione Napoletana di Primo Zanni: «ciantella, cacatronola, vommeca vracciolle, cierne pedeta, scola vallane, piede de papara, tallune fatte a provola, scumma vruoccole, femmena pezzolle, jetta cantare nzelle che tenze. Carosa, zellosa, zantragliosa, rognosa, vrognolosa, perogliosa, schefenzosa, vozzolosa, scrofolosa, pedocchiosa, guallarosa. Ciantella, scrofella, pelatella, scianchella, nasella, pezzentella, scalorciella, guittarella, gliannolella, cajordella, perchiolella, ianarella». | |
---|
Cardella | Via allegramente su, via: ca stasera
Sha da saglì a la zita.
| Don Pietro | Saliremo alla forche. | Vannella | (Chesta è bella). | Cardella | Comme no?… perché ride, ne Vannella? | Vannella | Rido, ca sti segnure
Tu staje a ddelleggiare.
| Cardella | Le buoje tu coffeare
co sta resella | Vannella | A mme? Vi che ttrammera! | Cardella | Io trammera? Aje cchiù ttramme, e cchiù malizie,
Che non so ffrunne a starvole. | Vannella | Uh chi parla! chi è cchiena de trestizie. | Cardella | Ma non faccio la nzemprece. | Vannella | Ma io non so sfacciata. | Marcaniello | Che cosè sta bajata? Via fenite. | Cardella | Tutta mmè mmusse, e ppicce. | Vannella | Tutta mmè smorfie, e sturce. | Cardella | Che ssinghe accisa. | Vannella | Mpesa. | Cardella | Strascenata.. | Vannella | Scannata. | Cardella | Va a ppesta, schefenzosa. | Vannella | Va a la forca, moccosa. | Cardella | Zantraglia. | Vannella | Pettolella | Cardella | Birbante. | Vannella | Lazzarella. | Cardella | Scalorcia. | Vannella | Brutta fatta. | Cardella | E ttu nne vuoje. | Vannella | E ttu vuoje, chio te vatta.
Vanno pe se dà de mano, ma Don Pietro le sparte. | Marcaniello | O descenzo vafferra. | Don Pietro | Piano, piano.
Parlate, e state sode co lle mmano. | Cardella | Aje gran fortuna. | Vannella | Non è tiempo mone. | Marcaniello | Via saglietenne ncoppa a Cardella.
Via, si plachi. a Vannella. | Cardella | Va, ca nziemo sarrimmo.
Si non te voglio… ah! va nce vedarrimmo. | Vannella | Va, ca nziemo sarrimmo.
Si non te voglio… ah! va nce vedarrimmo.
Vannella
Nce vedarrimmo gnorsì gnorsì,
Non mme fa filo ssammenacciare.
Co cchi te cride davè che ffare?
Nce vedarrimmo, che dè? che dè?
Ssi zerolille
Ssi recciolille
Te le sdellanzo, te le spetaccio.
Si tu nce ncappe, io non te faccio
Pe ppiezzo, e ppiezzo cchiù bene avè. trase. |
È questo un pezzo di bravura destinato alle serve ma anche alle “vecchie”, ormai entrato da tempo nel repertorio della commedeja che con cupidigia assorbe le esperienze più disparate dellarte rappresentativa e dispensa a piene mani i propri modelli ai generi che lattorniano. Nella duplicazione delle amorose il virtuosismo del poeta e del musicista è massimamente esposto e risolto con indubbia abilità; gli stilemi cui si affida il librettista provengono dallambito serio e alle sue tipologie attinge, ricalcandone strutture e convenzioni senza evitare di palesare i debiti con lormai poeta cesareo. Il tributo di Federico a Metastasio, di cui si offrivano i frutti ultimi sulle scene del San Bartolomeo, è esplicito nellaria di Nena «Va solcando il mar damore» dove il rinvio è allaria di Arbace «Vo solcando un mar crudele» dalla scena quindicesima del primo atto dellArtaserse; testo che Pergolesi organizza con straordinaria maestria in una complessa aria con flauto obbligato. Tuttavia tale brano non è traghettato nella ripresa del 1734 quando viene sostituito da «A unalma innamorata». La forma segue limpianto dellaria tripartita nella sua versione pentapartita con la ripresa “dal segno” secondo il più evoluto esercizio del “dramma per musica”; l“andante” in tempo ordinario della sezione A è avviato da unintroduzione strumentale con il flauto solista che espone la linea melodica poi ripresa dalla voce. Pergolesi sfoggia un campionario di soluzioni musicali tese ad amplificare le immagini testuali lasciando “spirare laure” tra lievi abbellimenti vocali e sfuggenti passaggi flautistici (nel secondo segmento di A il disegno di «dolce spira» è a imitazione tra la voce e lo strumento), sottolineando la “calma” con lunghe note tenute mentre il traversiere disegna il disciplinato gioco dell“onda” per poi unirsi nella descrizione dellinevitabile “naufragar” dell«alma innamorata». Luniverso “comico” non sfugge a regole e cerimoniali cui i compositori sono assoggettati sebbene costoro abbiano il libero arbitrio di poter infrangere, cautamente e con il consenso di quanti affollano il teatro, schemi collaudati per sperimentare nuove soluzioni drammaturgico-musicali. I maestri di cappella, coadiuvati dai temerari scrittori, battono strade insospettabili. Già la fattura dei libretti mostra sostanziali segnali innovativi in quella ricerca di modellare scene in controtendenza con i parametri più divulgati. Eppure i musicisti invitati a intonare i testi, non soddisfatti dellordito poetico, provvedono talvolta a cimentarsi in ardite costruzioni musicali al fine di destabilizzare anche quelle strutture che alla lettura rinviano alle rassicuranti architetture dellaria tripartita,. Esemplare ne Lo frate è il recitativo e aria di Ascanio «Addo vao? Addo stongo? / Chi dà pace, chi dà carma» in cui il musicista accorpa i primi due versi della strofa A al recitativo, elimina B e realizza laria, di appena trentatré battute senza “da capo”, con il solo distico rimanente della prima quartina riorganizzando il materiale poetico: | |
---|
Gennarantonio Federico | Giovanni Battista Pergolesi | Recitativo
Addo vao? Addo stongo?
Cche resorvo? Che ffaccio? Ah! Ca mme sento
De chellaffritte into a le rrecchie ancora
Le voci e lo lamiento; e cchisto affanno
E cchillo che mme da la passione,
Prova me fanno ognora
De la morte li spaseme e le ppene.
Addo vao? Addo stongo?
Cche resorvo? Che ffaccio? Ah! Ca mme sento
aria
Chi dà pace, chi dà carma
A cchestarma?
Sento dire: non ncè pace,
Non ncè carma cchiù ppe tte.
Strascenato
So ad amare
E a la forza
Che mme sforza
Io non pozzo contrasta.
| Recitativo
Addo vao? Addo stongo?
Cche resorvo? Che ffaccio? Ah! Ca mme sento
De chellaffritte into a le rrecchie ancora
Le voci e lo lamiento; e cchisto affanno
E cchillo che mme da la passione,
Prova me fanno ognora
De la morte li spaseme e le ppene.
Addo vao? Addo stongo?
Cche resorvo? Che ffaccio affritto mene?
Chi dà pace, chi dà carma
A cchestarma? Chi? Chi?
aria
Sento dire: non ncè pace,
Sento dire: non ncè carma cchiù ppe tte
No, no, non ncè pace cchiù ppe tte
No, no, non ncè carma cchiù ppe tte.
|
Il ricorso a un recitativo accompagnato con slarghi ariosi è forse un tributo alla pagina conclusiva immaginata da Metastasio per Didone in cui lo smarrimento, che reclama gesti “eloquenti” e sapienza spaziale, è pressoché simile: «Vado… Ma dove?… Oh dio! / Resto… Ma poi, che fo! / Dunque morir dovrò / senza trovar pietà?». La commedia per musica sin dal suo apparire ha mostrato una libertà formale quanto mai inusitata sia mantenendo desta la tradizione tardo-seicentesca nellorganizzazione delle scene sia aggiornandosi sui più avanzati progressi coevi sia lasciando sopravvivere forme ormai accantonate dalle progredite sorti del dramma sia scompaginando le equilibrate strutture. Tra gli anni Venti e Trenta il genere è però disciplinato con maggiore rigore e certe intemperanze sono messe da parte in virtù di un prodotto ormai destinato a oltrepassare i confini cittadini; eppure inalterata resta la varietà delle forme musicali abilitate a partecipare alla realizzazione delle commedie. Strutture strofiche (da quella più rassicurante della canzone a quelle più ardite che da questa derivano) e arie (in tutte le declinazioni possibili) sono gli ambiti nei quali Pergolesi mostra la propria versatilità che si fonda sulle tecniche apprese alla “bottega”. Gli espedienti per una efficace costruzione dei brani gli vengono dalla disciplina affinata presso i suoi maestri in una pratica che si fonda sullacquisizione di schemi che alloccorrenza si rivelano guide portentose per la scrittura: lesercizio costante cui è stato sottoposto negli anni di apprendistato consolida il giovane jesino pronto a mettere in mostra la propria cifra stilistica. La canzone in 12/8 «Passa ninno» intonata da Cardella e Vannella ad apertura del primo atto è un espediente davvio ampiamente testato nelle commedeje, il Larghetto in sol minore è un topos rassicurante che rinvia a tanta letteratura precedente e futura, la canzone introduttiva in tonalità minore e in tempo ternario introduce un gran numero di commedie immergendo lascoltatore in un paesaggio sonoro familiare. Il tratto “popolare” sta in quella spolverata di retorica musicale che è ormai memoria flebile di un antico folclore già patrimonio di un campionario colto e stilizzato che nulla ha da dividere con quelloralità che proseguiva i suoi percorsi in bellautonomia lasciandosi di tanto in tanto imbrigliare dalle carte pentagrammate perdendo così la sua natura. Le due serve còlte in faccende domestiche – luna «scopanno» e laltra «coglienno shiure da le tteste ncoppa a lo barcone de la casa soja» (si noti la descrizione che rinvia a una scenografia praticabile) – attendono alle loro mansioni; cantando e celiando rivelano immediatamente il loro temperamento. Analogamente nella scena successiva unaltra canzone presenterà adeguatamente Don Pietro che mirandosi allo specchio vagheggia le «Pupillette, fiammette damore» in tempo di minuetto sul quale “abballerà”. Tale sortita canora disegna alla perfezione lumore del giovane che mostra anche la sapienza con la quale elabora larietta «Queste vostre pupillette» contenuta ne La Dirindina di Domenico Scarlatti del 1715 (forse da lui ascoltata in occasione della sua realizzazione romana al Teatro Caprinica?) rivelandosi intendente di cose musicali e teatrali. È questultimo un requisito più volte ostentato nel corso dellazione. Ampio è lo spettro formale destinato ai buffi ai quali Pergolesi assicura un florilegio di numeri destinati a valorizzare i loro mezzi vocali e performativi. Non mancano brani “cinetici” atti ad amplificare la padronanza scenica. Ad esempio Girolamo Piano (Don Pietro), blasonato esponente dellorganico di Palazzo, si esibisce nellaria «Si stordisce il villanello» che è un pezzo di notevole difficoltà sia per tessitura (giunge al Fa4) che per virtuosismo. Questaria di inarrivabile bravura attinge a piene mani (per iperbole) a quei codici “seri” qui parodiati ma non sempre adoperati con tali modalità. Talvolta si ricorre alla sintassi musicale aulica perché è lunica a restituire appieno le pulsioni affettive provate dal personaggio. La contaminazione dei linguaggi musicali è pratica complessa i cui segnali sono non sempre univoci. Le caratteristiche “comiche” rilevabili nella grande aria di Nena non diminuiscono il portato “serio” della pagina così come quando sulle scene regie ai fulgidi eroi e alle altere eroine sono offerte modalità apparentemente poco consone al loro lignaggio non scema né crolla la tensione. Pergolesi perviene a una pratica capace di coniugare stili e tecniche diverse; non a caso nellestrema creazione sacra dello Stabat Mater trasferisce i desolanti accenti dellaria «Gnore mio, stongo io legato» di Ascanio in due pagine quali «Quando corpus morietur» e «Vidi suum ducem natum»: «nella sua poetica […] ciò che viene posto sempre e comunque in primo piano è la verità del sentimento». La mescidanza dei codici va dalla commistione dei generi alla retorica dei “sentimenti” passando per il severo stile contrappuntistico; attraverso accenti familiari e domestici o allinsegna del gesto “melodrammatico” riesce a far vibrare le corde più nascoste in un processo proiettato verso i disarmanti requisiti della “semplicità” e della “naturalezza”. Attributi questi – o meglio trabocchetti di una “sprezzatura” arditissima – che sovente accompagnano la musica “napoletana”, tratti mai smentiti da generazioni di artisti consapevolmente compiaciuti di essere salvaguardati da tali “allegorie” destinate a proteggere una sofisticata disciplina, rigorosa e ferrea. Nei trentacinque numeri previsti dalla partitura fanno bella mostra di sé due duetti – tra Don Pietro e Marcaniello «Tu si ggruosso quanto a naseno» (I.20) e Don Pietro e Vannella «Io ti dissi, e a dirti torno» (III.15) –, un terzetto – Ascanio, Nena e Nina «Se l foco mio tinfiamma» (II.14) –, un quintetto – Marcaniello, Carlo, Don Pietro, Cardella e Vannella «Facite chiano» (II.19) – e il tutti conclusivo «Su su a le gioje». Anche negli ensemble, che è tratto precipuo del genere, è possibile notare diverse nuances stilistiche che non obliano le architetture care alla scrittura degli intermezzi. Sta Commedeja se rappresentaje llanno 1732. nne lo stisso Triato, addò sha da rappresentare mo, e lo ssa agnuno; e cco cquanto gusto, e ssodesfazeone di chi la ntese, puro agnuno lo ssa. Se torna a llebbrecare, perche da cchiù duno è stata cercata. Se spera, che boglia avè la stessa fortuna, chavette tanno. Te savisa, ca non se llè cagnato autro, se non che cierte pocharie, che bedarraje segnate co cchisto signo §, co laccaseone, che lè parzo de buono a lo Masto de Cappella de cagnarence la Museca, secunno labbeletà de chi lha da cantare; e ppe farela no poco cchiù breve, sè accortata no poco allAtto Terzo. E statte buono. Il consenso della platea induce lo stesso impresario del 32 Domenico de Nicola a ripresentare Lo frate nnammorato nel 1734 sottoponendolo alle cure rappresentative dello stesso gruppo. Il procuratore dellimprenditore paga a Pergolesi venti ducati «per laccomodatione, refezione darie, et altro fatto nella 4 opera del Carnevale intitolata lo frate innamorato rappresentato nel Teatro de fiorentini, come anco de concerti fatti dallo medesimo, et ogni altro». Anche il dedicatario resta «D. LUISE / SANSEVERINO / Prencepe de Besegnano, &c. Cavaliero de lo / Tesone dOro, Primmo Barone, e Gran / Justenziero perpetuo de lo Regno / de Napole, e Grande de / Spagna de primma / Classe, &c.» affinché «non perda la grolia, chavette llautra vota, de portà scritto nfronte lo nomme de V. Acc.; e […] renovasse, anze cchiù astregnesse le ccatene de la servetù mia». La compagnia di canto è pressoché invariata e presenta nuovi esecutori per il ruolo di Nina sostenuto da Maria Negri, Luggrezia da Costanza Baiardo e Cardella da Virginia Gasparrini. Le varianti apportate allo spettacolo del 32 non scaturiscono dalle esigenze dei diversi cantanti: solo per Luggrezia è prevista unaria alternativa, alla scena settima del terzo atto in cui al posto di «Chillo è dde chisto pietto» si trova «Chio mmaggia da scordare». Marianna Ferrante chiamata a sostenere nuovamente Nena è fornita invece di tre nuove arie | |
---|
1732
ATTO PRIMMO
SCENA X.
Nena.
| 1734
ATTO PRIMMO
SCENA X.
Nena. | Pasce il mio cor la speme,
Timor laffanna, e preme;
E pur non so sperare,
E pur non so temere,
Fra speme, e fra timor.
Per farmi più penare,
Per farmi più languire,
Un tal nuovo martire
Inventar seppe Amor.
| È strano il mio tormento,
È nuovo il mio martire.
No, che nol puoi soffrire,
Povero amante cor.
E chi sì duro stento,
Chi ti dà tanti affanni?
Oimè son due tiranni:
La speme, ed il timor. | ATTO SECUNNO
SCENA IX.
Nena.
| ATTO SECUNNO
SCENA IX.
Nena.
| Tu sei
De pensier miei.
Labominato oggetto;
E, sanche a mio dispetto
Volesse amarti il core,
Dal sen mi strapperò il cor malnato.
Non chiedermi più amore,
Pietà non sperar mai!
Già per tuo mal vedrai,
Chodio non vi sarà il più ostinato. | Son pur chiari i sensi miei:
Io non tamo,
Non ti bramo;
Troppo sei
Odioso a questo cor.
Folli sono i tuoi pensieri;
E se speri
La speranza è ben fallace;
Datti pace,
Cangia voglie, e cangia amor. | ATTO TERZO
SCENA IV
Nena | ATTO TERZO
SCENA IV.
Nena.
| Va solcando il mar damore
Or questalma innamorata.
Dolce spira aura feconda,
Londa è in calma; e sventurata!
Pur costretta è a naufragar.
Ahi! lesempio di sventura,
La più strana, la più dura,
Solo in me si può trovar. | A unalma innamorata
Semprè nemico amore:
O armato è di rigor,
O colmo è di pietà.
Quellalma è sol beata,
Che a un mostro sì crudele
Fedele esser non sa. |
Ancora una volta Federico fornisce versi di rara finezza. La eco cólta si perde nei meandri di una letteratura le cui tracce rallegravano gli attenti spettatori: nella prima strofa dellaria «Son pur chiari i sensi miei» si ravvisa limmagine poetica di Isabella Andreini «Ma sappi, chio non tamo / Crudel, e non ti bramo» mentre nella seconda fa capolino la matrice del «Datti pace e cangia amor / muta voglie e un altro adora» di Noris per il personaggio di Decio ne I due tiranni al soglio (I.8) musicato da Antonio Sartorio. Tuttavia per il repertorio di locuzioni presenti nellultima aria affidata a Nena il librettista attinge a piene mani da un baule di “frasi favorite” spesso presenti nelle impalcature cesaree, quasi a fare ammenda del taglio impartito alla prima versione che in maniera esplicita a quel modello si rifaceva. Per Ascanio, nella tredicesima scena del primo atto, al posto di «Doje vipere arraggiate» compare «Ogne pena cchiù spiatata»; nellundicesima del secondo per Don Pietro si sostituisce «Si stordisce il Villanello» con «Il fior di questo core»; nella seconda del terzo a Carlo si affida «Degno al fin di un tanto onore» invece di «Al grande onore» e nello stesso atto ma alla scena ottava Ascanio intona «Vorria poterme sciogliere» anziché «Gnore mio, stongo io legato». Il testo non presenta poi grandi diversità nella condotta dellazione se non nelle scene precedenti quella conclusiva della commeddeja pe mmuseca in cui si operano alcune variazioni, dei tagli ed è eliminata laria di Don Pietro «In singolar tenzone»: | | | | |
---|
1732
SCENA XVI.
Cardella da la casa, e ppo Ascanio. |
| SCENA XVI.
Cardella da la casa | Cardella | Io no nce pozzo sta: mme sento friere
Propio le mmano. Si no la straviso
A cchella muzzecutola,
No mmaccojeto. Uh te veccote Ascanio;
E mme pare na statola. | | Cardella | Io no nce pozzo sta. Mme sento friere
Propio le mmano. Si no la straviso
A cchella mozzecutola,
No mmaccojeto propio.
se sente rommore de spate da dinto.
Ma che beo? Mara me! Don Pietro, e Ascanio
Co le spate. Corrite, aggente, aiuto,
Corrite, bene mio! Trase. | Ascanio | Puro torno a lo luoco,
Che cchiù assaje de lo ffuoco
Io dovarria foì: si perche, o Dio! | | | | Cardella | La causa è cca dogne ttormiento mio.
Ommo da bene, schiavo.
Oh tu cca staje?
Che se fa? tu che ffaie? che ffa Luggrezia?
(Pare <st>orduto). | | | |
|
| |
| | SCENA XVII.
D. Pietro, e li stisse. | | | D. Pietro | (Ecco il fellone). | | | | Ascanio | E Nena,
E Nina, saje, che ffanno? | | | | D. Pietro | Ed ancor osa
Nominar Nina, e Nena il labro audace?
Mori. | | | | Cardella | Ah fermate. | | | | Ascanio | Che bo dì sta cosa?
D. Pietro tira co la spata contra Ascanio e cchillo se defenne. | | | | Ascanio | Si Don Pie… | | |
| Cardella | bene mio! Aggente, aiuto.
trase | | |
| D. Pietro | Difenditi se puoi. | | | | Ascanio | Ah so fferuto.
Ascanio sentennose ferito, tira contra a Don Pietro, e chille se repara, e sse fa arreto.
(O mmalora la cosa non va bona!) | | | | D. Pietro | Chiano… | | | | Ascanio
D. Pietro | Lassa sta spata.
le guadagna la spata.
Amico hai vinto, io ti perdon perdona.
lassa la spata e ffuje. | | | |
|
| | | | SCENA XVIII.
Carlo, e Ascanio. | | SCENA XVII.
Carlo, e ppo Ascanio | | | | Carlo | Or crederò ben io,
Chogni noja avrà fin. | | | | Ascanio | Sciorte mmardetta
Nce sta autro pemme? |
Carlo |
Che miro! o Dio che fu? | | Carlo | Signor Ascanio
Ma che fu? che vi accadde? | Ascanio | Lassame ire;
So fferuto a lo vraccio. | | Ascanio | Lassame ire;
So fferuto a lo vraccio. | Carlo | Oimè! osserviamo. | | Carlo | Oimè! osserviamo. | Ascanio | No: lassa. | | Ascanio | No: lassa. | Carlo | Ritiriamci
Qui dentro al mio cortil. | | Carlo | Ritiriamci
Qui dentro al mio cortil. | Ascanio | Si friddo nterra mmavesse lassato.
trase co Carlo.
| | Ascanio | Si friddo nterra mmavesse lassato.
trase co Carlo.
| SCENA XIX.
Vannella a lo barcone, po Luggrezia a la strata, e ppo Marcaniello e Cardella. | | SCENA XVIII.
Vannella a lo barcone, e ppo Luggrezia a la strata. | Vannella | Aggio ntiso cca bascio
No remore de spate,
E Cardella strellà. | | Vannella | Aggio ntiso cca bascio
No remmore de spate,
E Cardella strellà. |
Luggrezia |
Che ncè, Vannella?
Tu staje sbattuta? | |
Luggrezia |
Che ncè, Vannella?
Tu staje sbattuta? |
Vannella |
Sia Luggrezia mia,
Spate arrancate… | |
Vannella |
Sia Luggrezia mia,
Spate arrancate… |
Luggrezia |
Comme? |
|
Luggrezia |
Comme... | | |
SCENA XIX.
Cardella, che porta appojato Marcaniello e li ditte. | Marcaniello | Addò so gghiute?
Cca no ncè nnullo. | | Marcaniello | Addò so gghiute?
Cca no ncè nnullo. | Cardella | Cca mo se teravano. | |
Cardella |
Lla mo se teravano. | Marcaniello | O figlio pazzo, o arrojenato mene!
|
| | Marcaniello | O figlio pazzo! O arrojenato mene! | Luggrezia | Che ffarrà? Gnore… | | Luggrezia | Che ffarrà? Gnore… | Marcaniello | O figlia! | | Marcaniello | O figlia! | Vannella | Io voglio scennere. | | Vannella | Io voglio scennere. | Luggrezia | Cardè, che ccosa è stata?
| | Luggrezia | Cardè, che ccosa è stata? | Cardella | Don Pietro co la spata contrAscanio;
Llavarrà acciso.
| | Cardella | Don Pietro co la spata contrAscanio.
Llavarrà acciso. | Luggrezia | Ah negra me mo moro! | | Luggrezia | Ah negra me! mo moro. |
Marcaniello
Cardella |
Non te partì, Cardella,
Appojame: io so mmuorto.
(Nce voleva
| |
Marcaniello
Cardella |
Non te partì, Cardella:
Appojame. Io so mmuorto.
(Nce voleva
Sto pisemo porzì). | | Sto figlio cano,
Ave da sconquassà la casa mia.
Mannaggia quanno maje… Uh che dderria. | | Marcaniello | Sto figlio cano,
Ave da sconquassà la casa mia.
Mannaggia quanno maje… Uh che dderria! |
SCENA XX.
Don Pietro, e li stisse. | |
SCENA XX.
Don Pietro, e li stisse. | D. Pietro | Che fo? dove minselvo? ove mintano? | | D. Pietro | Che fo? dove minselvo? ove mintano? | Marcaniello | Ah frabbuttone, tu chaje fatto? | | Marcaniello | Ah frabbutone, tu chaje fatto? | D. Pietro | O Padre… | | D. Pietro | O Padre… | Luggrezia | Parla: che nnè dAscanio? | | Luggrezia | Parla: che nnè dAscanio? | D. Pietro | Or varca londe,
Credio, del nero fiume. | | D. Pietro | Or varca londe,
Credio, del nero fiume. | Cardella | Stace frisco
Comme non fosse niente. | | Cardella | Stace frisco
Comme non fosse niente. | Marcaniello | Non vuoje dire,
Co Ascanio chaje avuto? | | Marcaniello | Non vuoje dire,
Co Ascanio chaje avuto? | D. Pietro | De suoi misfatti egli pagò il tributo.
In singolar tenzone
Difesi mia raggione.
Io vincitor restai,
Egli mi cadde al piè.
La vita io gli donai,
Perché quel cano perro
Già guadagnò il mio ferro,
Ed allippar mi fe. | | D. Pietro | Voleva il mascalzone
Corrivar me con Nena, e lei con Nina;
Lincontrai, lo sfidai, tirò, tirai.
Quindi, con suo rossore, e con mia gloria
Ei vinto in campo, io vincitor restai. | Marcaniello | Quanno va, chisso ave abbuscato allultemo. | | | |
Le vicende narrate da Federico e musicate da Pergolesi hanno una forte ricaduta nellimmaginario cittadino se ancora nel 1748 ne è allestita una ripresa al Teatro Nuovo. Nel lungo scritto prefatorio a quella nuova versione, destinato all«Amico lettore», sono tracciate le linee guida di tale ripresa. Dopo aver intessuto le lodi al «parto dellErudita, o Graziosa penna del fù Gennarantonio Federico nostro Napoletano» e assicurati gli ascoltatori che «religiosamente si è pensato di non toccare in parte alcuna la musica del presente Dramma, come parto del singolare ingegno del fù Gioanbattista Pergolesi», il redattore passa alle urgenze rappresentative determinate dal differente cast impegnato segnalando di essersi «procurato di adattarla al meglio, che si è possuto a personaggi, che doveano rappresentarla» e sottolineando, polemicamente, di aver rispettato la condotta testuale senza mutarla in cosa alcuna nella sua essenza, come altre volte si è fatto, poiché chi ha avuto il carico di gridarla ha penzato di non tradire la verità, e di non farsi merito, con far cose inutili, anzi dannose così allonor suo, come allinteresse dellImpresario; allonor suo, perche da sensati certamente per sciocco, o temerario è stimato colui, che cerca, e si dà il vanto di accommodare ciò, che intieramente altre volte è stato giudicato per buono, ed incapace di correzzione; Allinteresse dellImpresario, perché non riuscendo facilmente, come si è veduto altre volte, ciò che di nuovo si è fatto in tali composizioni, e particolarmente quando si è fatto a solo capriccio, e senza necessità alcuna, ancorché da penne maestre, erudite, e che in tali materie il primo luogo vantano, ciò fattosi fusse. Il ruolo di Luggrezia è tradotto in italiano (non confacendosi lidioma napoletano allinterprete) e viene aggiunto, in maniera indolore, il personaggio di Moscardino. Lintroduzione di nuovi ruoli allinterno di libretti preesistenti non rappresenta una “novità”: lo stesso Federico nel 33 era stato retribuito per scrivere una «parte di più» ne LOttavio «stante che non haveva […] lobligo di componere detta opera à nove parti, mà solo tanto ad otto». In tale occasione Federico aveva aggiunto il ruolo di Cassandra che si inseriva nellimpianto del libretto, già redatto con minimi stravolgimenti desumibili dalla collazione tra la versione modificata e quella del 36 in cui il poeta è costretto, per esigenze rappresentative, a eliminare il personaggio. Loperazione compiuta dallaccomodatore de Lo frate non appare dissimile da quella messa in atto dalla “penna maestra”. Gli interventi di Moscardino sono sempre presenti a inizio datto – alla fine della seconda scena del primo e alla fine della prima del secondo e terzo atto – senza comportare alcuno stravolgimento dellazione originale. «Molte arie, che non si adattavano alla voce, ò alla abilità di alcuni presenti personaggi della rappresentazione dovendosi mutare si è procurato di scegliere altrarie dellistesso Pergolesi, che si sono ritrovate in altre sue opere, ed acciò avessero avuto connessione le parole, con ciò, che si ricercava nella presente Commedia, si sono quelle mutate, ed adattate alla musica, ed alle scene, che occorrevano». Ad esempio alla scena diciottesima del secondo atto, che corrisponde alla diciassettesima dellantico testo, è affidato a Carlo il travestimento del brano di Uberto «Sempre in contrasti» da La serva padrona che sostituisce laria «Mi palpita il core»: Sempre da sotto
Con lui si và.
Aspetti qua,
Or calo giù…
Finirà quando…
Per me non sò…
Che cosa o a fare?
Devo crepare?
Crepar non vò…
Ah, che i miei guai
Mai sono a termine,
Le mie disgrazie
Non finiranno, io già lo sò…
Meschino me, questo cosè.
Non hò quiete, pace non hò… Le professioni di “venerazione” al genio pergolesiano sono, nella prefazione, profuse copiosamente a dimostrazione di un successo artistico che non era scemato e che ormai si propagava su un vastissimo territorio. LEuropa riconosce ben presto il ruolo dellautore jesino così come era capitato nella città delezione che in virtù del felice esito de Lo frate nnammorato apre le porte della sua Cappella Reale. Nella maggiore istituzione cittadina, ambita da tutti gli artisti del regno e non, nel novembre del 32 Pergolesi accede per aver «composto molte opere, e presentemente pure ha dato saggio di sé nellopera composta nel teatro de Fiorentini che riesce con applauso universale, oltre poi il bisogno, che tiene la Cappella Reale de sogetti che compongono sopra il gusto moderno».
APPENDICE Aria di Nena «Va solcando il mar damore» (III.4)
© drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it
|
|