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Paologiovanni Maione

“Lo frate nnammorato” «se rappresentaje ll’anno 1732. […] e lo ssa agnuno; cco cquanto gusto, e ssodesfazeone»

Data di pubblicazione su web 28/12/2018
Lo frate nnamurato

Le parole de Napole ’mpastate
Non songo, frate mio, d’oro pommiento
Ma de zuccaro e mele.
G.C. Cortese, Viaggio di Parnaso

Oh bello tiempo antico,
o canzune massicce,
o parole chiantute,
o concierte a doi sole,
o museca de truono,
mo' tu non siente mai cosa de buono.
G.B. Basile, Calliope overo La museca

Noi cavalieri erranti
Balliam con ogni ceto. A noi, a noi,
Llarai llarà…
G. Federico, Lo frate nnammorato

Nell’autunno del 1732 l’esigente pubblico partenopeo rimase forse attonito dinanzi alla levata dei cartelli delle sale teatrali cittadine: tra stupore e attese constata debutti eccellenti, riprese rassicuranti, ritorni desiderati, novità aspirate, tributi dovuti.[1] 

L’abbagliante sala votata all’ufficialità regia del San Bartolomeo accoglie il frutto ultimo del gran poeta che a Napoli aveva mosso i primi passi raccogliendo allori proprio su quelle tavole ora pronte a ospitare l’Issipile, da poco restituita alle asburgiche scene.[2] La recente fatica metastasiana giunge all’ombra del vulcano trasportata da una eco possente, rinnovando il legame indissolubile tra la “fedelissima” e il cesareo poeta; un ponte ideale, e non solo, collega l’aquila bicipite all’ammaliante sirena, il sodalizio politico consolida quello artistico in uno scambio intensissimo e fecondissimo senza eguali.[3] La gara innescatasi all’indomani dell’allestimento viennese del titolo di Trapassi vede un’accesa contesa tra più piazze e naturalmente le città teatralissime d’Italia programmano nuove intonazioni per i concettosi versi del romano. Dopo l’abito musicale della première confezionato da Francesco Conti[4], la Serenissima si rivolge per il nuovo debutto a Giovanni Porta[5] mentre il golfo fa risuonare il prezioso testo con le vaghissime invenzioni armoniche di Johann Adolph Hasse;[6] quest’ultimo da tempo beniamino della platea napoletana e accorsatissimo maestro in ogni latitudine. A coronare l’impresa promossa al San Bartolomeo provvede un cast stellare che ruota intorno all’eroina eponima sostenuta da Faustina Bordoni, da un biennio in Hasse, e che annovera, tra gli altri, Gioacchino Conti detto Gizziello, Lucia Facchinelli, Francesco Tolve.[7] 

Un omaggio a colui che fu un altro eccellente cantore metastasiano viene dalla produzione al Teatro Nuovo sopra Toledo de La festa di Bacco che Leonardo Vinci compose nel 1722 per il Teatro dei Fiorentini.[8] In quest’occasione l’opera fu rimessa in scena grazie alle cure di Leonardo Leo chiamato ad accomodare la partitura in virtù del tempo trascorso e della mutata compagnia che vede a raccolta artisti del calibro di Simone de Falco (specialista nei ruoli di “vecchia” en travestì e già presente nel ’22), Laura Monti (tra le maggiori “servette” della commedia musicale napoletana), Giovanni Romaniello (anche questi già impegnato alla prima rappresentazione della commeddeja su testo di Tullio), Antonia Colasanti.[9] Al teatro di Montecalvario nella stessa stagione è allestita anche la commeddeia pe’ museca di Tullio La vecchia trammera posta in musica dal veterano del genere Antonio Orefice con alcune arejelle approntate da Leo.[10] 

A connotare fortemente l’offerta della sala inaugurata nel 1724 è il registro linguistico tutto modulato sulle declinazioni della lingua napoletana a differenza dei prodotti esibiti sulle tavole del Fiorentini in cui si opta per testi dove coesistono il “toscano” e il napoletano in una stratificazione lessicale assai ardita.[11] Le sale della commedia ancora una volta mostrano l’“alterità” dell’offerta non solo nei titoli prescelti ma nella strenua ricerca di un manufatto originale da sottoporre agli attenti fruitori spesso artefici e protagonisti, attraverso modalità quanto mai disparate, degli esiti estetici delle produzioni.[12] 

È la sperimentazione a muovere principalmente il repertorio praticato dalle “piccole” stanze dedite non solo al genere spettacolare nato e forgiato in città ma anche a quelle forme performative di collaudata tradizione le cui ricadute sull’esperienza della scena musicale arrecano benefici ineguagliabili.[13] 

Negli anni Trenta la «chelleta, [o] stà commesechiamma»[14] aveva raggiunto livelli altissimi grazie a un raffinato e solerte lavoro teso a sondare le molteplici possibilità performative del genere che mostra ben presto la propria natura onnivora assorbendo stili, registri, mode, idee, storie, pensieri nonché tecniche attoriali dissimili finalizzate a definire una categoria d’artisti dalla forte professionalità e specializzazione. Appare chiaro che a Gennaro Antonio Federico[15] l’accolita di artisti, riunita dall’impresario Domenico de Nicola, suggerisca una griglia di ruoli e azioni attenta a soddisfare e a valorizzare appieno le potenzialità dei singoli; così come il giovane, talentuoso e protetto Giovanni Battista Pergolesi[16] concerterà con attenzione lo spettacolo affinché nessun cantante sia lasciato ingovernato.[17] 

La scrittura de Lo frate nnammorato è il risultato, complesso e ingegnoso, in cui tutti gli artefici dell’impresa contribuiscono alla riuscita dello spettacolo. Già dalla tabula si rivelano i fondamenti su cui si muoverà l’operazione:

PERZONAGGE.
MARCANIELLO viecchio, Patre de Luggrezia, e dde D. Pietro.
Lo Sio Jacovo d’Ambrosio.
NENA, e NINA sore carnale, Romane: nnammorate tutte doje d’Ascanio.
La Sia Marian. Ferrante, e la Sia Teresa de Palma
ASCANIO giovene nnammorato de tutte doje, che ppo se trova frate lloro co lo nomme de Lucio: cresciuto a la casa de Marcaniello.
La Sia Teresa Passaglione.
LUGGREZIA figlia de Marcaniello, nnammorata d’Ascanio.
La Sia Rosa Gerardini.
CARLO Zio de Nena, e dde Nina, Romano: nnammorato de Luggrezia.
Lo Sio Giammattista Ciriaci.
VANNELLA, crejata de Carlo.
La Sia Margarita Pozzi.
CARDELLA, crejata de Marcaniello.
La Sia Maria Morante.
D. PIETRO giovene schirchio, figlio de Marcaniello.
Lo Sio, Gerolamo Piano, vertovuso de la Cappella rejale de Napole.[18] 

Il poeta, nell’intessere l’azione, ribalta forse le consuetudini e i passaggi previsti dalle prammatiche della Commedia; di sicuro, messo a parte dei recitanti che agiranno e riconosciute le loro abilità, predispone il soggetto affinché «si sappia il contenuto della comedia, s’intenda dove hanno da terminare i discorsi, e si possa indagare concertando qualche arguzia».[19] La concertazione, alla quale è chiamato per contratto,[20] non si esaurisce nella lettura de «il suggetto solo, ma di esplicare i personaggi coi nomi, e qualità loro, l’argomento della favola, il luogo ove si recita, le case, discifrare i lazzi, e tutte le minuzie necessarie».[21] Gli attori, riconosciutisi nei tratti disegnati dalla “guida”, durante le sedute di lavoro che avvengono tra case private e teatro in un andirivieni di “sedie” destinate agli innumerevoli spostamenti delle maestranze possono, «udito il soggetto», suggerire

qualche cosa preparatasi, o sia fatta apposta per quella comedia, che si chiamano doti proprie per quella, di qualche specialità di fatto, di racconto, o di cosa a quella concernente, o di cose universali, che si tengono in memoria per applicarsi a qualsivoglia comedia o favola, come sono le sudette primuscite, disperazioni, concetti, dialoghi, rimproveri, saluti, paralleli, e ciò c’habbiamo detto, o grave, o ridicolo; avertendo a saperli collocare ed attaccare di modo che non pajano poste a pigione, ma che necessariamente vi cadano, e non far come certi che per haver qualche cosa di buono, o ridicolo, o grave, per dirla non si curano di porla là dove per pensiero non ci va, e così viene a porsi una pezza bianca sul nero, e si dà uno sfregio al povero soggetto per una cosa mal situata.[22] 

Va da sé che le regole coniate al tramonto del diciassettesimo secolo abbiano una loro validità e veridicità anche all’interno di un prodotto che solo da pochi decenni è esposto all’attenzione del mondo. I meccanismi dell’Arte si insinuano naturalmente in una macchina costruita da artefici che recano con loro un magistero acquisito su molteplici palcoscenici e fondato su una sapienza plurisecolare tesa a coniugare gli esiti culturali più disparati. 

La locandina di Federico è costruita su due gruppi familiari del tutto simili chiamati a “conversare” secondo una pluralità di linguaggi determinata dalla provenienza e dal ceto d’appartenenza. Capeggiate da uomini “sodi”, ciascuno mosso da crepuscolari appetiti amorosi, i due nuclei domestici comprendono rispettivamente una figlia, un figlio, un ragazzo adottato, una serva e due nipoti orfane, una cameriera. I rapporti che passano e passeranno tra di loro sono annunciati sin dall’inizio nelle puntuali osservazioni che seguono l’onomastica dei personaggi. Il nodo della vicenda è tutto da ricercare nei conflitti amorosi che genera il trovatello Ascanio «giovene nnammorato» di Nena e Nina, «che ppo se trova frate lloro», amato anche da Lugrezia. 

La fitta rete d’interessi affettivi accumulati sul “segnato” Lucio è vieppiù complicata dalle incertezze sue nella vertigine sentimentale destata dagli inopportuni e plurimi trasporti – frenati e costipati verso la figura “sororale” di Lugrezia e avvertiti come immorali per l’eguale impeto provato al cospetto delle due sorelle romane. Alle battaglie interiori e a quelle esibite fa da contraltare il patto sancito dai capifamiglia per il “finale lieto” che vedrebbe appagate le loro frenesie matrimoniali con le rispettive giovani donne di casa nonché la sistemazione della coppia “giovane” Pietro-Nena che rafforzerebbe ulteriormente i legami parentali. L’esito finale scompaginerà i piani dei maturi “contraenti”, diraderà le torbide incertezze amorose del conteso, vedrà compirsi un solo legame matrimoniale fino ad allora assai improbabile e mostrerà una conclusione agrodolce decisamente lontana da quella inizialmente auspicata.[23] 

Ancora una volta il librettista fa tesoro di una tradizione collaudata. L’arte performativa aveva adoperato espedienti analoghi sin dal Cinquecento sull’onda di un immaginario letterario autorevole: fratelli divisi da incresciose avversità e destinati a esperienze avventurose per poi ri-trovarsi costellano le scene. Spesso sono creature attratte da inspiegabili ardori sentimentali che non sfociano in immondi incesti grazie a miracolose e opportune agnizioni. I due felici rivali di Jacopo Nardi, l’anonimo Panfilo e Filogenia, Il Commodo di Antonio Landi, Nina di Giovanbattista Pescatore, Lo specchio d’amore di Bernardino Bizzarri, Il Vespa di Cornelio Lanci, Fortunio di Vicenzo Giusti narrano le peripezie di fratelli e sorelle disgiunti in tenera età che per una serie di coincidenze vengono in contatto e provano un’empatia destinata a rivelarsi, attraverso amuleti voglie nei monili scritti, consanguineità.[24] Ma anche i patti stipulati tra anziani per le nozze con giovani figlie o pupille si rintracciano, ad esempio, ne L’Altilia di Anton Francesco Raneri, ne La gelosia e ne La Sibilla di Anton Francesco Grazzini, ne Il donzello di Gianmaria Cecchi.[25] 

I modelli trovano consensi anche nel repertorio dell’Arte; la commedia all’improvvisa accoglie generosamente queste situazioni e le pone all’interno dei suoi meccanismi rappresentativi. Una rappresentanza di tali figure emerge, tra l’altro, dal manoscritto tardo-seicentesco dello Gibaldone de soggetti da recitarsi all’impronto raccolti da Annibale Sersale conte di Casamarciano.[26] La preziosa fonte partenopea consente di verificare non solo l’incidenza di simili personaggi ed espedienti in un vasto campionario di scenari, ma la loro presenza e persistenza in un circuito teatrale napoletano. Tale fonte permette inoltre di ipotizzarne, con sicurezza, la conoscenza diretta da parte degli artefici del nuovo genere musicale. Le sale dedite alla commedeja pe mmuseca hanno una spiccata vocazione all’Arte che continuerà a interagire con la nuova offerta spettacolare per lungo tempo.[27] 

L’esperienza dell’improvvisa, in vario modo, è assimilata dalla scena musicale, e più volte è possibile individuare intrecci, tecniche, meccanismi di chiara ascendenza della Commedia, se non, addirittura, la presenza di artisti provenienti dalla sua scuola o a questa assimilabile.[28] Nel canovaccio La donzella di lavoro[29] è Donna Ines a provare pulsioni amorose per Don Prospero che si svelerà esserle fratello mentre nella Balia grande l’intreccio risulta più complesso e artificioso, partendo da indicazioni già eloquenti: 

Dottore    Lutio fratello supposto
    di Isabella 
Oratio creduto figlio    Rosetta balia
Coviello e
Pollicinella, servi

    Tartaglia padre
    Angiola figlia[30]

Quindi si giunge allo scioglimento che vede i rapporti mutati e soprattutto sventato l’incestuoso amore tra Oratio e Isabella:

Dottore    Oratio fratello di
    Isabella
Lutio sua figlio    Rosetta balia
Coviello e    Tartaglia padre
Pollicinella, servi    Angiola figlia
    

Più eloquente per il plot adoperato da Federico è il canovaccio La stravaganze d’amore[31] in cui la schiava Eurilla, che ama riamata Claudio, è al centro della cupidigia amorosa dei “vecchi” Graziano (che, padre dell’amoroso Claudio, intende sposare in giornata la fanciulla) e Pascarello, nonché di Lucio che si scoprirà fratello dell’oggetto desiato: 

Scena 10
Lucio, poi Covello e detti

Lucio saluta Claudio, quale lo rimprovera d’infedele; in questo esce Covello e dice a Claudio che dentro quella borsa ci sono certi anelli che non sono di Pascarello, che se li pigli, perché uno è di Lucio e l’altro è d’Eurilla, Pascarello caccia l’anelli dalla borsa e vede esservi in quelli la sua impresa, e domanda a Lucio dove havea havuto qu<ell>’ anello? Lucio dice che l’hebbe quando fu rapito da masnadieri, mentre essendo lui picciolo andava con suo padre, e con loro vi era anche una sua sorella picciola, chiamata Lucretia, e che poi lui se ne fuggì, e dice anche havere un morso di cane nel piede destro, Pascarello lo conosce per figlio e l’abbraccia, e dice a Claudio che mandi a chiamare <E>urilla per saper nova dell’altro anello, e Covello va a chiamarla

Scena 11
Eurilla e detti

Domandata da Pascarello dell’anello? risponde haverlo havuto da quando fu venduta, che si chiamava Lucrezia, Pascarello li domanda se ha qualche segno per la vita, Eurilla haverne uno di latte sotto la poppa destra, e Pascarello la conosce per figlia e l’abbraccia; in questo

Scena Ultima
T<utt>i

Dicono il tutto a Gratiano, si fa il matrimonio tra Eurilla e Claudio, e con allegrezza finiscono l’opera.[32] 

Le assonanze tra le indicazioni contenute nel testo dell’improvvisa, nel momento culminante dell’ultimo atto, e quelle messe in campo da Federico sono palesi; la presenza di un personaggio femminile dal nome Lucrezia/Luggrezia, il dato onomastico di Lucio per il fanciullo disperso, la vicenda del rapimento effettuato dai masnadieri, il segno fisico rivelatore («un morso di cane nel piede destro» e «al braccio un segno»), il gioiello eloquente (l’anello per gl’istrioni e la medaglia per gli armonici), le nozze singole a fronte di quelle vagheggiate nel corso della storia. La scrittura del poeta per musica sembra pertanto la stesura “regolare” delle indicazioni all’“impronto”:

CarloE discoprir ne ha fatto
Un gran bene per noi. Mi dica in grazia,
Come si trova in suo potere   Ascanio?
MarcanielloPerché lo bo sapè?
Carlo La sua ferita
Volli osservar, e vidi al braccio un segno,
Che Lucio avea, quel piccolo figliuolo;
Che perdè il mio Germano.
MarcanielloIo quanno jette
A Romma, a lo ttornà (creo, ca mo songo
Quase decessett’anne) quanno fuje
A la Fajola, nterra llà l’asciaje,
E a Nnapole co mmico lo portaje.
CarloIvi il perdè il German: salvando appena
Queste ragazze; allor, che gli convenne
Fuggir da masnadieri.
NinaEra ei d’etade
Circa a quattr’anni, il padre ne diceva.
MarcanielloGnorsì da lloco jeva.
NenaAl collo appesa
Avea certa medaglia.
MarcanielloAppunto.
CarloÈ desso.
Nena-NinaO mio dolce fratello.
AscanioA lo passato
Mo penzo. Io v’era FRATE, e ppe sta causa
De tutte doje stea tanto NNAMMORATO.[33]

Alcune varianti rispetto ai plots consaputi, come la duplicazione delle sorelle nel libretto, rientrano in quei meccanismi di opportunità drammaturgiche dettate da fattori contingenti come l’assortimento degli attori chiamati a raccolta; per soddisfare i requisiti performativi della “gente di teatro” i “corago” debbono mettere in campo tutta la loro esperienza e la loro sapienza teatrale. I “tavolini volanti” (la scrittura militante non si nutre di silenzi stanziali ma di rutilanti voci reclamanti la giusta valorizzazione), lontani da ponderate quanto virtuali riflessioni, si confrontano con il quotidiano che si consuma tra le mura del teatro e delle case abilitate al “concerto” in un incessante lavoro finalizzato al felice esito della rappresentazione.[34] Su un prontuario di contenitori prefissi e formule che avvantaggiano il virtuoso della penna si costruiscono prodotti di grande impatto, il montaggio e lo smontaggio di meccanismi consolidati e restituiti alla teorica offrono un rassicurante viatico agli interpreti che all’interno di schemi e strutture precostruite aggiungono “ornamenti” originali. 

Le tavole della commedeja non provano alcun sussulto ad accogliere Lo frate nnammorato in quanto vi riconoscono una serie di tecniche risapute sebbene possano aver avvertito la vertigine nel magistero dell’assemblaggio effettuato dal geniale poeta. Dai boccascena inconsapevoli fratelli e sorelle innamorati o incontinenti anziani destinati con patti ad allettanti nozze con giovani donne recalcitranti avevano già occhieggiato più volte. Nel 1710 Tullio, il primo fautore di una commedia in napoletano destinata alla musica, pone in scena Li viecchie coffejate in cui gli attempati padri di Lisa e Prizeta, Nardo Cognola e Cesarone Spaviento (ruolo sostenuto da Gioacchino Corrado), contraggono un accordo che li vedrebbe sposi delle rispettive figlie. L’ingranaggio dell’azione in una girandola di travestimenti porterà le fanciulle a nozze gradite mentre ai due vegliardi non resterà che perdonare, “magnare”, “scialare”, “abballare”, “zompare”.[35] 

Un padre vedovo affida temporaneamente alla sorella la figlia Lavinia conducendo in nave con sé il piccolo Edoardo. Durante la navigazione verso la Spagna la nave è «da una Corzara Turca assalita» e il fanciullo è rapito e reso schiavo. Dopo lunghe peripezie Edoardo ritorna in Italia dove sarà oggetto di amorose attenzioni da parte di Lavinia che, dopo un fitto intreccio all’insegna di insidiosi intrighi, si rivelerà sua sorella. Questa è, in sintesi, la storia de La sorella amante che Hasse compose, su testo di Bernardo Saddumene, nel 1729 per il Teatro Nuovo e che anticipa di pochi anni le vicende intonate da Pergolesi.[36] 

La serialità di occorrenze narrative non va disgiunta da quelle degli espedienti di tradizione che fanno “camminare” uno spettacolo e dalle tipologie consolidate dei personaggi. Sfogliando le pagine Dell’arte rappresentativa premeditata, ed all’improvviso di Perrucci non poche regole sembrano ispirare Federico sebbene sarebbe forse opportuno parlare di una tradizione che si perpetua più per conoscenza diretta sulla pratica che per “ozioso” studio. Eppure il prezioso trattato illumina i lati oscuri di una pratica “artigianale” dove schemi ed esemplificazioni ragguagliano sugli strumenti delle industriose officine drammatiche fatti di calchi e istruzioni efficacissimi destinati ad agevolare e accelerare la creatività degli affaccendati scrittori.[37] Eloquenti sono le disposizioni offerte nella decima regola della seconda parte, De’ Sali, Motti, Arguzie, ed altre vivezze per le parti ridicole,[38] che è la «più difficile, ch’è l’inventare ed haver arguzie pronte, improvise, frizzanti ed a tempo»;[39] l’oggetto analizzato è aggredito inizialmente definendo le coordinate di massima: 

il motteggiare […] è di due maniere, uno continuo, e l’altro breve. Il primo è per tutta la comedia, il secondo a tempo breve, ed acuto, e sono questi granelli di sale, che si spargono, ma di modo che non facciano la cosa soverchio salsa.[40] 

Inoltre sono enumerate le “maniere” del «soggetto da ridere»: 

la prima per li vizii dell’animo, motteggiando i vanagloriosi, parasiti ed avari, e de vizii del corpo […].
La seconda maniera è nell’imitazione, con la quale si fa schernevole un gobbo, un zoppo, o qualche difetto della voce o del corpo […].
La terza è nella somiglianza, contrafacendo un Francese, un Germano, un Turco, un Spagnolo, e contrafacendo i matti, e gli ubriachi.
La quarta è nel dispregio, che si fa torcendo la bocca, aprendola, cavar fuori la lingua, ridere scioccamente, ruzzare, sibilare o piangere smoderato e sgarbato.
La quinta è nella disonestà delle parole, e se questa fu tacciata in Plauto Etnico, noi le habbiamo sin da principio inveito contro.
La sesta è delle parole ingiuriose, degne solo de’ servi, de’ buffoni e parasiti.
E la settima è nel parlare contadinesco e servile, e ve ne sono d’altra maniera.[41] 

I punti elencati da Perrucci sintetizzano e traggono linfa da una antica letteratura e svelano la lunga gittata che avranno nei secoli successivi. Si tratta di parametri del comico ancora presenti nella vivace saggistica del secolo breve che tanta attenzione ha prestato ai meccanismi del comico. Bachtin, Bergson, Freud, Frye, Mauron, Pirandello indagano un ambito blasonatissimo la cui efficacia è ampiamente comprovata da un’antica tradizione che già aveva enucleato le caratteristiche basilari su cui si fondava l’industria del “riso”. Appare normale che Federico, con i suoi compagni impegnati nella stessa impresa, ricorra con sollecitudine e urgenza creativa a quelle prammatiche familiari che tendono una prodiga mano a coloro che son chiamati a dilettare il teatro del mondo. Nella successione delle “maniere” è difficile non ravvisare le categorie alle quali egli ricorre per definire le tipologie che prenderanno vita sulle assi gloriose. Marcaniello, con la sua patologia di inabilità alla deambulazione disinvolta a causa della podagra, è soggetto a rientrare nella “seconda maniera” prestabilita e nella casella delle parti di vecchio che, nella sua regola, è destinato, tra l’altro, ai “facili innamoramenti” nonché ad “essere ingannato, e burlato da servi astuti”. La vanità “continuata” di Don Pietro, magnificata da “robbe” quali lo specchio[42] la parrucca lo “pejattiello de russo”,[43] è oggetto di un sapiente montaggio di occorrenze disseminate nel trattato dell’abate. Innanzitutto si ravvisano i tratti espunti dalle Parti de’ Capitan Bravi, et altre[44] in cui si osserva che «oggi si pratticano in diversi linguaggi, havendoli alcuni fatti in Toscano, altri in Napoletano»[45] sebbene in molti li hanno «fatti anche in spagnuolo, in romanesco, in calabrese, ed in siciliano»:[46] 

È questa una parte ampollosa di parole e di gesti che si vanta di bellezza, di grazia, e di ricchezza; quando per altro è un mostro di natura, un balordo, un codardo, un pover’huomo, e matto da catena, che vuol vivere col credito d’esser tenuto quello che non è, de’ quali non pochi si ragirano per lo mondo. […] Tutti li sudetti capitan bravi serviranno per parte di terzi, o secondi innamorati, ma per lo più scherniti, delusi, beffati, e dileggiati dalle donne, da servi, e dalle fanti; poiché mostraranno bravure, e saranno poltroni, ostentaranno liberalità, e sono spilorci, vantaranno nobiltà, e ricchezze, essendo plebei, forfanti, e poverissimi; non essendovene in vero pochi di costoro, che si sostentano in vita a spese della semplicità di chi crede alle loro sbraciate, e spaventacchi, e quel ch’è peggio vi son di quei, che se ne vagliono per bravi; quando gli stimati leoni, son più di loro conigli.[47] 

La natura di Pietro non si discosta da questa: è naturale che il poeta forgi la sua creatura assemblando solo alcuni tratti, e trae spunto anche da un esempio contenuto nella regola decima della seconda parte 

Pasq. Frà le muraglia di questa Rocca è sempre battuta la bellezza; non posso movere il piè, ch’io non sia adorata. S’io vo in Mercato mi gridan dreto, come s’io fussi l’imagine della Dea Venere, oh che fa l’esser bella! eh che come vi sono queste Poppone, che paiono due zucche prataie, vanno pazzi costoro di me.[48]   PietroQuesta faccia
Ha fatto rivoltà Capo di monte.
   MarcanielloTe lo ccreo; nn’aje avuto allocche, e fische.
   PietroFischi? Allucchi? È bugia: uomini, e donne
Per potermi mirare han fatto a punia:
Chi di quà, chi di là: io però intrepido,
Passato me ne son, tisico, e musico.[49]

Il linguaggio utilizzato per il “giovene schirchio” («dicesi ad uomo scomposto, disordinato, sregolato. Stravolto»)[50] è declinato su una girandola di registri che vanno dall’uso dell’idioma francese (paradigmatica è l’arietta «Mon Dieù combien de sciarm! / Sgiè donne des allarm / O meme cupidon. / Tirì tiri nti nton»[51]; si pensi inoltre al reiterato «donnè moè tabacco»[52] o al chiasmo «Madama: Le mon coeur… […] Ah le mon coeur, Madama»)[53] all’uso delle auliche immagini “serie” da frequentatore del genere, capace anche di mettere a frutto cognizioni di retorica, sebbene inevitabili appaiano le cadute di tono: «Stelle, inclementi stelle! e lo mirate, / E pur non vendicate i torti miei? […] Ma cosa disse a te? tu che dicesti / A quella Fiera, a quella Tigre armena?»[54] o «Io stongo malinconico e stizzoso, / E ntra la stizza, e la malinconia, / Che ti fa questo core arrosso sia! / Sembra una nave in mezzo a un mar, cruccioso».[55] Lo stesso idioma mostra una gamma di livelli che vanno dall’italiano forbito al napoletano “basso” attraversando tutte le nuances possibili. Ancora una arguzia dell’Arte dà vita a una scena incentrata sullo “specchio”; pertanto si riportano le indicazioni contenute nel canovaccio L’oggetto odiato[56] e di seguito uno stralcio della scena diciottesima del secondo atto de Lo frate

Scena 17 
Merciaro, Oratio e Policinella

Merciaro vendendo robbe, Oratio piglia un specchio dalla sporta per guardarsi il volto, che li disse Policinella esser sporcato; in questo

Scena <18> 
Floridaura e detti

Floridaura si pone dietro ad Oratio, sicché Oratio vede nel specchio l’effiggie di quella e si conturba, e lascia il specchio a Policinella, Floridaura si fa a vedere, dice le solite parole di «Perfido etc.», e parte, Oratio via, Policinella si va mirando nel specchio; in questo 

Scena <19> 
Coviello, Policinella e Merciaro

Coviello si pone una mascara di demonio e poi si mette dietro a Policinella mentre si sta mirando, Policinella vedendo il demonio nel specchio fa suoi lazzi, e con questi lazzi finiscono l’atto primo.[57] 

Dà lo specchio a Cardella, e nfratanto Vannella se ride de Don Pietro, e le fa la baja da dereto, e Cardella se n’addona.
Cardella(Si Don Pietro,
Vannella è llà, e ve sta a ffa la baja).
Don PietroBaja? Perché mi Baja? a Vannella.
Vannella Che nne volite
Da fatte mieje? Vuje site
Proibbeto co mmico. Scosta, scosta.
Don PietroScosta scosta a sta facce? Oh l’è ingiusta!
CardellaVide quanta malizia! Essa faceva
Le gguattarelle; e ppo…


Don Pietro Perché facevi
Le guattarelle?
VannellaA mme? Chesta cca propio
Nce ll’ha commico. Me sta sempe a ttuzzo,
Sempe a despietto. Sempe a encia; e io…
Mo nce vo… Che le faccio? Nzomma vedo,
Ca songo nata co la mala sciorte.
E llevamenne, o morte. chiagne.
Cardella (Uh la nennella
Chiagne: sarvate mo).
Don Pietro Non pianger, bella:
Che fai di nuovo scolorirmi. Tergi,
Su tergi il pianto… o Dio!…
CardellaSì sì facitele
Li scquase.
Don PietroTaci. a Cardella. E ppe despietto tuio,
Te, tieneme sto specchio. a Vannella.
CardellaA cchi?
VannellaNon serve.
Don PietroVia su tenitemillo tutte doje.
CardellaNo.
VannellaNo.
Don Pietro Mo a ccapo a ccapo
Io ve tozzo ncoscienza.
Tenite.
Cardella Vi che ffreoma!
VannellaChe ppacienzia!
Cardella e Vannella teneno lo specchio na mano pe d’una, e Don Pietro s’acconcia la perucca.

L’urbanità di Carlo non è avulsa da ingranaggi già sperimentati; la rigorosa etichetta formale all’insegna di un galateo rispettato con compiaciuta e maniacale ostentazione garantisce costruzioni di dialoghi fondati su modelli di sicuro effetto. Efficace a tal proposito appare la scena di presentazione dello zio delle due orfane. I convenevoli con la triplice anafora di Pietro per le occorrenze «Eh burla» e «Vi creggio» si attengono l’uno a quei passaggi indicati come “rispondere e rifiutare” e l’altro a un ipotetico espediente del “rispondere e accettare”: 

CarloAl suo Signor Don Pietro
Un servo obbligatissimo ha l’onore
D’inchinarsi umilmente.
Don PietroRiverito parente,
Ge sui votr serviteur.
CarloAnzi, padrone.
Don PietroEh burla.
Carlo Dissi poco: padronissimo.
Don PietroEh burla.
CarloNon mi crede?
Don PietroEh burla.
CarloO Dio!
Fa grave ingiuria al mio
Rispetto ossequiosissimo,
Che protesto per lei…
Don PietroOr via, vi creggio.
CarloE protesterò in ogni congiuntura…
Don PietroVi creggio.
CarloIn ogni tempo…
Don PietroVi creggio.
Carlo In ogni loco…
Don Pietro (O benaggia oje).
CarloCostantissimamente.
Don Pietro(Ahu benaggia craje).
Cardella(Va tiene, quanno
Sto Romano se mette ncompremiente).[58]

La “scena di complimenti” ritorna con modalità alquanto simili nell’ultimo atto alla scena seconda sempre tra gli stessi interlocutori; la petulanza di Carlo sul bon ton è inesauribile e temuta dalle nipoti che allestiscono per lui il “lazzo della riverenza” alle scene settima e ottava del primo atto. 

Puntualmente le apparizioni di Carlo destano ilarità nella servitù e molestia negli altri. La rigorosa etichetta porta il personaggio anche a elargire istruzioni per ben effettuare le “cerimonie”. È Marcaniello a usufruire di questa “lezione” da suggerire all’inurbana Luggrezia sebbene ambigua pare la sua osservazione ai rimbrotti del futuro genero quando ribatte: «Uscia / Pazzea, parla de tratte, e zeremonie»[59] senza badare alle maggiori urgenze. In effetti l’impedito padre, squarciando la finzione scenica, sa che nella educazione della sua “figliola” non è mancata la conoscenza e la pratica di tutti i “lazzi”. 

Le capacità improvvisative degli attori-cantanti non vanno escluse all’interno di un sistema molto più fluido di quanto si possa immaginare. Senza alcun dubbio una serie di accorgimenti “estemporanei” sorprendevano l’attento pubblico, pronto a cogliere le mille finezze racchiuse in questi sofisticati orditi. La caleidoscopica sfera degli affetti è calibrata su dominо variegati «cioè domandando, dubitando, rispondendo, affermando, negando, rifiutando, concedendo, ammonendo, schernendo, beffando, dissimulando, minacciando, deridendo, bestemmiando, desiderando e meravigliando».[60] Le “arguzie” messe in campo dai drammaturghi per «arrichire i discorsi o premeditati o all’improviso, che si fanno per arte, o con le figure armoniche, che consistono nelle azioni, quali sono proprie de rappresentanti, consistendo l’arguzie e le facezie in parole ed in fatti»[61] attingono da un campionario infinito in cui ci 

sono ignoranza, dimostrazione, narrazione, insegnamento, didaschia, affirmazione, negazione, ironia, reticenza, preterizione, giuramento, attestazione, considerazione, parentesis, correzzione, repetizione, estenuazione, commemorazione, presagio, dubio, domanda, risposta, interpetrazione, occupazione, finzione, imagine, espressione, prosopopeja, apostrofe, ratiocinazione, confusione, epifonema, compendio, perplessità, approvazione, comando, aviso, ossequio, carezze, saluto, supplica, venerazione, abbominazione, rimprovero, irrisione, esecrazione, desiderio, invocazione, voto, detestazione, raccomandazione, concessione, ringraziamento, ricusa, allegrezza, iattanza, congratulazione, applauso, pianto, improperio, penitenza, speranza, disperazione, istoria, vergogna, audacia, imprudenza, escandescenza, minaccie, giustizia, commiserazione, confessione, preghiere, e simili.[62] 

Perrucci non manca di offrire indicazioni immediate ma suggerisce al collega lettore di poter «ritrovare a tua posta gli esempii in tanti ed infiniti autori»[63] rintracciandoli «o nelle metafore ingegnose argute di somiglianza, attribuzione, equivoco, ipotiposi, iperbole, laconismo, opposizione e decezzione fondate sopra le categorie di sostanza, qualità, quantità, figura, relazione, azzione, passione, luogo, moto, tempo ed abito, delle quali l’iperbole, e la decezzione sono più proprie per li ridicoli nelle comedie, e più maestose e più fiere nelle tragedie».[64] 

Federico e Pergolesi si assicurano dei personaggi atti a soddisfare la “maniera” sesta con l’uso «delle parole ingiuriose» (ma già Basile aveva redatto modelli di grande efficacia). È a Cardella e Vannella che tocca il compito di prodursi nella scena delle ingiurie lungamente preparata nel corso dell’azione dalle tensioni accumulatesi tra le due create in un contenzioso esplicito e implicito che assomma lemmi suggeriti copiosamente nella regola ottava alla voce Disperazione Napoletana di Primo Zanni: «ciantella, cacatronola, vommeca vracciolle, cierne pedeta, scola vallane, piede de papara, tallune fatte a provola, scumma vruoccole, femmena pezzolle, jetta cantare nzelle che tenze. Carosa, zellosa, zantragliosa, rognosa, vrognolosa, perogliosa, schefenzosa, vozzolosa, scrofolosa, pedocchiosa, guallarosa. Ciantella, scrofella, pelatella, scianchella, nasella, pezzentella, scalorciella, guittarella, gliannolella, cajordella, perchiolella, ianarella».[65] 

CardellaVia allegramente su, via: ca stasera
S’ha da saglì a la zita.


Don PietroSaliremo alla forche.
Vannella(Chesta è bella).
CardellaComme no?… perché ride, ne Vannella?
VannellaRido, ca sti segnure
Tu staje a ddelleggiare.


CardellaLe buoje tu coffeare
co sta resella
VannellaA mme? Vi che ttrammera!
CardellaIo trammera? Aje cchiù ttramme, e cchiù malizie,
Che non so ffrunne a st’arvole.
VannellaUh chi parla! chi è cchiena de trestizie.
CardellaMa non faccio la nzemprece.
VannellaMa io non so sfacciata.
MarcanielloChe cos’è sta bajata? Via fenite.
CardellaTutta mm’è mmusse, e ppicce.
VannellaTutta mm’è smorfie, e sturce.
CardellaChe ssinghe accisa.
VannellaMpesa.
CardellaStrascenata..
VannellaScannata.
CardellaVa a ppesta, schefenzosa.
VannellaVa a la forca, moccosa.
CardellaZantraglia.
VannellaPettolella
CardellaBirbante.
Vannella Lazzarella.
CardellaScalorcia.
Vannella Brutta fatta.
CardellaE ttu nne vuoje.
VannellaE ttu vuoje, ch’io te vatta.
Vanno pe se dà de mano, ma Don Pietro le sparte.
MarcanielloO descenzo v’afferra.
Don PietroPiano, piano.
Parlate, e state sode co lle mmano.
CardellaAje gran fortuna.
VannellaNon è tiempo mone.
MarcanielloVia saglietenne ncoppa a Cardella.
Via, si plachi. a Vannella.
CardellaVa, ca nziemo sarrimmo.
Si non te voglio… ah! va nce vedarrimmo.
VannellaVa, ca nziemo sarrimmo.
Si non te voglio… ah! va nce vedarrimmo.
Vannella
Nce vedarrimmo gnorsì gnorsì,
Non mme fa filo ss’ammenacciare.
Co cchi te cride d’avè che ffare?
Nce vedarrimmo, che d’è? che d’è?
Ssi zerolille
Ssi recciolille
Te le sdellanzo, te le spetaccio.
Si tu nce ncappe, io non te faccio
Pe ppiezzo, e ppiezzo cchiù bene avè. trase.[66]

È questo un pezzo di bravura destinato alle serve ma anche alle “vecchie”, ormai entrato da tempo nel repertorio della commedeja che con cupidigia assorbe le esperienze più disparate dell’arte rappresentativa e dispensa a piene mani i propri modelli ai generi che l’attorniano.[67] 

Nella duplicazione delle amorose il virtuosismo del poeta e del musicista è massimamente esposto e risolto con indubbia abilità; gli stilemi cui si affida il librettista provengono dall’ambito serio e alle sue tipologie attinge, ricalcandone strutture e convenzioni senza evitare di palesare i debiti con l’ormai poeta cesareo. 

Il tributo di Federico a Metastasio, di cui si offrivano i frutti ultimi sulle scene del San Bartolomeo, è esplicito nell’aria di Nena «Va solcando il mar d’amore»[68] dove il rinvio è all’aria di Arbace «Vo solcando un mar crudele» dalla scena quindicesima del primo atto dell’Artaserse; testo che Pergolesi organizza con straordinaria maestria in una complessa aria con flauto obbligato. Tuttavia tale brano non è traghettato nella ripresa del 1734 quando viene sostituito da «A un’alma innamorata». La forma segue l’impianto dell’aria tripartita nella sua versione pentapartita con la ripresa “dal segno” secondo il più evoluto esercizio del “dramma per musica”; l’“andante” in tempo ordinario della sezione A è avviato da un’introduzione strumentale con il flauto solista che espone la linea melodica poi ripresa dalla voce. Pergolesi sfoggia un campionario di soluzioni musicali tese ad amplificare le immagini testuali lasciando “spirare l’aure” tra lievi abbellimenti vocali e sfuggenti passaggi flautistici (nel secondo segmento di A il disegno di «dolce spira» è a imitazione tra la voce e lo strumento), sottolineando la “calma” con lunghe note tenute mentre il traversiere disegna il disciplinato gioco dell’“onda” per poi unirsi nella descrizione dell’inevitabile “naufragar” dell’«alma innamorata».[69] 

L’universo “comico” non sfugge a regole e cerimoniali cui i compositori sono assoggettati sebbene costoro abbiano il libero arbitrio di poter infrangere, cautamente e con il consenso di quanti affollano il teatro, schemi collaudati per sperimentare nuove soluzioni drammaturgico-musicali. I maestri di cappella, coadiuvati dai temerari scrittori, battono strade insospettabili. Già la fattura dei libretti mostra sostanziali segnali innovativi in quella ricerca di modellare scene in controtendenza con i parametri più divulgati. Eppure i musicisti invitati a intonare i testi, non soddisfatti dell’ordito poetico, provvedono talvolta a cimentarsi in ardite costruzioni musicali al fine di destabilizzare anche quelle strutture che alla lettura rinviano alle rassicuranti architetture dell’aria tripartita,. Esemplare ne Lo frate è il recitativo e aria di Ascanio «Addo’ vao? Addo’ stongo? / Chi dà pace, chi dà carma»[70] in cui il musicista accorpa i primi due versi della strofa A al recitativo, elimina B e realizza l’aria, di appena trentatré battute senza “da capo”, con il solo distico rimanente della prima quartina riorganizzando il materiale poetico: 

Gennarantonio FedericoGiovanni Battista Pergolesi
Recitativo
Addo’ vao? Addo’ stongo?
Cche resorvo? Che ffaccio? Ah! Ca mme sento
De chell’affritte into a le rrecchie ancora
Le voci e lo lamiento; e cchisto affanno
E cchillo che mme da’ la passione,
Prova’ me fanno ognora
De la morte li spaseme e le ppene.
Addo’ vao? Addo’ stongo?
Cche resorvo? Che ffaccio? Ah! Ca mme sento
aria
Chi dà pace, chi dà carma
A cchest’arma?
Sento dire: non nc’è pace,
Non nc’è carma cchiù ppe tte.
Strascenato
So’ ad amare
E a la forza
Che mme sforza
Io non pozzo contrasta’.
Recitativo
Addo’ vao? Addo’ stongo?
Cche resorvo? Che ffaccio? Ah! Ca mme sento
De chell’affritte into a le rrecchie ancora
Le voci e lo lamiento; e cchisto affanno
E cchillo che mme da’ la passione,
Prova’ me fanno ognora
De la morte li spaseme e le ppene.
Addo’ vao? Addo’ stongo?
Cche resorvo? Che ffaccio affritto mene?
Chi dà pace, chi dà carma
A cchest’arma? Chi? Chi?
aria
Sento dire: non nc’è pace,
Sento dire: non nc’è carma cchiù ppe tte
No’, no’, non nc’è pace cchiù ppe tte
No’, no’, non nc’è carma cchiù ppe tte.[71]

Il ricorso a un recitativo accompagnato con slarghi ariosi è forse un tributo alla pagina conclusiva immaginata da Metastasio per Didone in cui lo smarrimento, che reclama gesti “eloquenti” e sapienza spaziale, è pressoché simile: «Vado… Ma dove?… Oh dio! / Resto… Ma poi, che fo! / Dunque morir dovrò / senza trovar pietà?». 

La commedia per musica sin dal suo apparire ha mostrato una libertà formale quanto mai inusitata sia mantenendo desta la tradizione tardo-seicentesca nell’organizzazione delle scene sia aggiornandosi sui più avanzati progressi coevi sia lasciando sopravvivere forme ormai accantonate dalle progredite sorti del dramma sia scompaginando le equilibrate strutture. Tra gli anni Venti e Trenta il genere è però disciplinato con maggiore rigore e certe intemperanze sono messe da parte in virtù di un prodotto ormai destinato a oltrepassare i confini cittadini; eppure inalterata resta la varietà delle forme musicali abilitate a partecipare alla realizzazione delle commedie. Strutture strofiche (da quella più rassicurante della canzone a quelle più ardite che da questa derivano) e arie (in tutte le declinazioni possibili) sono gli ambiti nei quali Pergolesi mostra la propria versatilità che si fonda sulle tecniche apprese alla “bottega”. Gli espedienti per una efficace costruzione dei brani gli vengono dalla disciplina affinata presso i suoi maestri in una pratica che si fonda sull’acquisizione di schemi che all’occorrenza si rivelano guide portentose per la scrittura: l’esercizio costante cui è stato sottoposto negli anni di apprendistato consolida il giovane jesino pronto a mettere in mostra la propria cifra stilistica.[72] 

La canzone in 12/8 «Passa ninno» intonata da Cardella e Vannella ad apertura del primo atto è un espediente d’avvio ampiamente testato nelle commedeje, il Larghetto in sol minore è un topos rassicurante che rinvia a tanta letteratura precedente e futura, la canzone introduttiva in tonalità minore e in tempo ternario introduce un gran numero di commedie immergendo l’ascoltatore in un paesaggio sonoro familiare. Il tratto “popolare” sta in quella spolverata di retorica musicale che è ormai memoria flebile di un antico folclore già patrimonio di un campionario colto e stilizzato che nulla ha da dividere con quell’oralità che proseguiva i suoi percorsi in bell’autonomia lasciandosi di tanto in tanto imbrigliare dalle carte pentagrammate perdendo così la sua natura. Le due serve còlte in faccende domestiche – l’una «scopanno» e l’altra «coglienno shiure da le tteste ncoppa a lo barcone de la casa soja» (si noti la descrizione che rinvia a una scenografia praticabile) –[73] attendono alle loro mansioni; cantando e celiando rivelano immediatamente il loro temperamento. Analogamente nella scena successiva un’altra canzone presenterà adeguatamente Don Pietro che mirandosi allo specchio vagheggia le «Pupillette, fiammette d’amore» in tempo di minuetto sul quale “abballerà”. Tale sortita canora disegna alla perfezione l’umore del giovane che mostra anche la sapienza con la quale elabora l’arietta «Queste vostre pupillette» contenuta ne La Dirindina di Domenico Scarlatti del 1715 (forse da lui ascoltata in occasione della sua realizzazione romana al Teatro Caprinica?) rivelandosi intendente di cose musicali e teatrali. È quest’ultimo un requisito più volte ostentato nel corso dell’azione.[74] 

Ampio è lo spettro formale destinato ai buffi ai quali Pergolesi assicura un florilegio di numeri destinati a valorizzare i loro mezzi vocali e performativi. Non mancano brani “cinetici” atti ad amplificare la padronanza scenica. Ad esempio Girolamo Piano (Don Pietro), blasonato esponente dell’organico di Palazzo, si esibisce nell’aria «Si stordisce il villanello»[75] che è un pezzo di notevole difficoltà sia per tessitura (giunge al Fa4) che per virtuosismo. Quest’aria di inarrivabile bravura attinge a piene mani (per iperbole) a quei codici “seri” qui parodiati ma non sempre adoperati con tali modalità. Talvolta si ricorre alla sintassi musicale aulica perché è l’unica a restituire appieno le pulsioni affettive provate dal personaggio. La contaminazione dei linguaggi musicali è pratica complessa i cui segnali sono non sempre univoci. Le caratteristiche “comiche” rilevabili nella grande aria di Nena non diminuiscono il portato “serio” della pagina così come quando sulle scene regie ai fulgidi eroi e alle altere eroine sono offerte modalità apparentemente poco consone al loro lignaggio non scema né crolla la tensione. Pergolesi perviene a una pratica capace di coniugare stili e tecniche diverse; non a caso nell’estrema creazione sacra dello Stabat Mater trasferisce i desolanti accenti dell’aria «Gnore mio, stongo io legato»[76] di Ascanio in due pagine quali «Quando corpus morietur» e «Vidi suum ducem natum»: «nella sua poetica […] ciò che viene posto sempre e comunque in primo piano è la verità del sentimento».[77] 

La mescidanza dei codici va dalla commistione dei generi alla retorica dei “sentimenti” passando per il severo stile contrappuntistico; attraverso accenti familiari e domestici o all’insegna del gesto “melodrammatico” riesce a far vibrare le corde più nascoste in un processo proiettato verso i disarmanti requisiti della “semplicità” e della “naturalezza”. Attributi questi – o meglio trabocchetti di una “sprezzatura” arditissima – che sovente accompagnano la musica “napoletana”, tratti mai smentiti da generazioni di artisti consapevolmente compiaciuti di essere salvaguardati da tali “allegorie” destinate a proteggere una sofisticata disciplina, rigorosa e ferrea. 

Nei trentacinque numeri previsti dalla partitura fanno bella mostra di sé due duetti – tra Don Pietro e Marcaniello «Tu si ggruosso quanto a n’aseno» (I.20) e Don Pietro e Vannella «Io ti dissi, e a dirti torno» (III.15) –, un terzetto – Ascanio, Nena e Nina «Se ’l foco mio t’infiamma» (II.14) –, un quintetto – Marcaniello, Carlo, Don Pietro, Cardella e Vannella «Facite chiano» (II.19) – e il tutti conclusivo «Su su a le gioje». Anche negli ensemble, che è tratto precipuo del genere, è possibile notare diverse nuances stilistiche che non obliano le architetture care alla scrittura degli intermezzi. 

Sta Commedeja se rappresentaje ll’anno 1732. nne lo stisso Triato, addò s’ha da rappresentare mo, e lo ssa agnuno; e cco cquanto gusto, e ssodesfazeone di chi la ntese, puro agnuno lo ssa. Se torna a llebbrecare, perche da cchiù d’uno è stata cercata. Se spera, che boglia avè la stessa fortuna, ch’avette tanno. Te s’avisa, ca non se ll’è cagnato autro, se non che cierte poch’arie, che bedarraje segnate co cchisto signo §, co l’accaseone, che l’è parzo de buono a lo Masto de Cappella de cagnarence la Museca, secunno l’abbeletà de chi l’ha da cantare; e ppe farela no poco cchiù breve, s’è accortata no poco all’Atto Terzo. E statte buono.[78] 

Il consenso della platea induce lo stesso impresario del ’32 Domenico de Nicola a ripresentare Lo frate nnammorato nel 1734 sottoponendolo alle cure rappresentative dello stesso gruppo. Il procuratore dell’imprenditore paga a Pergolesi venti ducati «per l’accomodatione, refezione d’arie, et altro fatto nella 4 opera del Carnevale intitolata lo frate innamorato rappresentato nel Teatro de fiorentini, come anco de concerti fatti dallo medesimo, et ogni altro».[79] Anche il dedicatario resta «D. LUISE / SANSEVERINO / Prencepe de Besegnano, &c. Cavaliero de lo / Tesone d’Oro, Primmo Barone, e Gran / Justenziero perpetuo de lo Regno / de Napole, e Grande de / Spagna de primma / Classe, &c.» affinché «non perda la grolia, ch’avette ll’autra vota, de portà scritto nfronte lo nomme de V. Acc.; e […] renovasse, anze cchiù astregnesse le ccatene de la servetù mia».[80] 

La compagnia di canto è pressoché invariata e presenta nuovi esecutori per il ruolo di Nina sostenuto da Maria Negri, Luggrezia da Costanza Baiardo e Cardella da Virginia Gasparrini. Le varianti apportate allo spettacolo del ’32 non scaturiscono dalle esigenze dei diversi cantanti: solo per Luggrezia è prevista un’aria alternativa, alla scena settima del terzo atto in cui al posto di «Chillo è dde chisto pietto» si trova «Ch’io mm’aggia da scordare». Marianna Ferrante chiamata a sostenere nuovamente Nena è fornita invece di tre nuove arie 

1732
ATTO PRIMMO
SCENA X.
Nena.
1734
ATTO PRIMMO
SCENA X.
Nena.
Pasce il mio cor la speme,
Timor l’affanna, e preme;
E pur non so sperare,
E pur non so temere,
Fra speme, e fra timor.
Per farmi più penare,
Per farmi più languire,
Un tal nuovo martire
Inventar seppe Amor.
È strano il mio tormento,
È nuovo il mio martire.
No, che nol puoi soffrire,
Povero amante cor.

E chi sì duro stento,
Chi ti dà tanti affanni?
Oimè son due tiranni:
La speme, ed il timor.
ATTO SECUNNO
SCENA IX.
Nena.
ATTO SECUNNO
SCENA IX.
Nena.
Tu sei
De’ pensier miei.
L’abominato oggetto;
E, s’anche a mio dispetto
Volesse amarti il core,
Dal sen mi strapperò il cor malnato.
Non chiedermi più amore,
Pietà non sperar mai!
Già per tuo mal vedrai,
Ch’odio non vi sarà il più ostinato.
Son pur chiari i sensi miei:
Io non t’amo,
Non ti bramo;
Troppo sei
Odioso a questo cor.

Folli sono i tuoi pensieri;
E se speri
La speranza è ben fallace;
Datti pace,
Cangia voglie, e cangia amor.
ATTO TERZO
SCENA IV
Nena
ATTO TERZO
SCENA IV.
Nena.
Va solcando il mar d’amore
Or quest’alma innamorata.
Dolce spira aura feconda,
L’onda è in calma; e sventurata!
Pur costretta è a naufragar.
Ahi! l’esempio di sventura,
La più strana, la più dura,
Solo in me si può trovar.
A un’alma innamorata
Sempr’è nemico amore:
O armato è di rigor,
O colmo è di pietà.

Quell’alma è sol beata,
Che a un mostro sì crudele
Fedele esser non sa.

Ancora una volta Federico fornisce versi di rara finezza. La eco cólta si perde nei meandri di una letteratura le cui tracce rallegravano gli attenti spettatori: nella prima strofa dell’aria «Son pur chiari i sensi miei» si ravvisa l’immagine poetica di Isabella Andreini «Ma sappi, ch’io non t’amo / Crudel, e non ti bramo»[81] mentre nella seconda fa capolino la matrice del «Datti pace e cangia amor / muta voglie e un altro adora» di Noris per il personaggio di Decio ne I due tiranni al soglio (I.8) musicato da Antonio Sartorio. Tuttavia per il repertorio di locuzioni presenti nell’ultima aria affidata a Nena il librettista attinge a piene mani da un baule di “frasi favorite” spesso presenti nelle impalcature cesaree, quasi a fare ammenda del taglio impartito alla prima versione che in maniera esplicita a quel modello si rifaceva. 

Per Ascanio, nella tredicesima scena del primo atto, al posto di «Doje vipere arraggiate» compare «Ogne pena cchiù spiatata»; nell’undicesima del secondo per Don Pietro si sostituisce «Si stordisce il Villanello» con «Il fior di questo core»; nella seconda del terzo a Carlo si affida «Degno al fin di un tanto onore» invece di «Al grande onore» e nello stesso atto ma alla scena ottava Ascanio intona «Vorria poterme sciogliere» anziché «Gnore mio, stongo io legato». Il testo non presenta poi grandi diversità nella condotta dell’azione se non nelle scene precedenti quella conclusiva della commeddeja pe mmuseca in cui si operano alcune variazioni, dei tagli ed è eliminata l’aria di Don Pietro «In singolar tenzone»:

1732

SCENA XVI.
Cardella da la casa, e ppo Ascanio.


SCENA XVI.
Cardella da la casa
CardellaIo no nce pozzo sta: mme sento friere
Propio le mmano. Si no la straviso
A cchella muzzecutola,
No mm’accojeto. Uh te veccote Ascanio;
E mme pare na statola.
CardellaIo no nce pozzo sta. Mme sento friere
Propio le mmano. Si no la straviso
A cchella mozzecutola,
No mm’accojeto propio.
se sente rommore de spate da dinto.
Ma che beo? Mara me! Don Pietro, e Ascanio
Co le spate. Corrite, aggente, aiuto,
Corrite, bene mio! Trase.
AscanioPuro torno a lo luoco,
Che cchiù assaje de lo ffuoco
Io dovarria foì: si perche, o Dio!
CardellaLa causa è cca d’ogne ttormiento mio.
Ommo da bene, schiavo.
Oh tu cca staje?
Che se fa? tu che ffaie? che ffa Luggrezia?
(Pare <st>orduto).



SCENA XVII.
D. Pietro, e li stisse.
D. Pietro(Ecco il fellone).
AscanioE Nena,
E Nina, saje, che ffanno?
D. Pietro Ed ancor osa
Nominar Nina, e Nena il labro audace?
Mori.
CardellaAh fermate.
AscanioChe bo dì sta cosa?
D. Pietro tira co la spata contra Ascanio e cchillo se defenne.
AscanioSi Don Pie…
Cardellabene mio! Aggente, aiuto.
trase

D. PietroDifenditi se puoi.
AscanioAh so fferuto.
Ascanio sentennose ferito, tira contra a Don Pietro, e chille se repara, e sse fa arreto.
(O mmalora  la cosa non va bona!)
D. PietroChiano…
Ascanio

D. Pietro
Lassa sta spata.
le guadagna la spata.

Amico hai vinto, io ti perdon perdona.
lassa la spata e ffuje.


SCENA XVIII.
Carlo, e Ascanio.
SCENA XVII.
Carlo, e ppo Ascanio
CarloOr crederò ben io,
Ch’ogni noja avrà fin.
AscanioSciorte mmardetta
Nce sta autro pemme?

Carlo

Che miro! o Dio che fu?
CarloSignor Ascanio
Ma che fu? che vi accadde?
AscanioLassame ire;
So fferuto a lo vraccio.
AscanioLassame ire;
So fferuto a lo vraccio.
CarloOimè! osserviamo.CarloOimè! osserviamo.
AscanioNo: lassa.AscanioNo: lassa.
CarloRitiriamci
Qui dentro al mio cortil.
CarloRitiriamci
Qui dentro al mio cortil.
AscanioSi friddo nterra mm’avesse lassato.
trase co Carlo.


AscanioSi friddo nterra mm’avesse lassato.
trase co Carlo.


SCENA XIX.
Vannella a lo barcone, po Luggrezia a la strata, e ppo Marcaniello e Cardella.
SCENA XVIII.
Vannella a lo barcone, e ppo Luggrezia a la strata.
VannellaAggio ntiso cca bascio
No remore de spate,
E Cardella strellà.
VannellaAggio ntiso cca bascio
No remmore de spate,
E Cardella strellà.

Luggrezia

Che nc’è, Vannella?
Tu staje sbattuta?

Luggrezia

Che nc’è, Vannella?
Tu staje sbattuta?

Vannella

Sia Luggrezia mia,
Spate arrancate…

Vannella

Sia Luggrezia mia,
Spate arrancate…

Luggrezia

Comme?



Luggrezia

Comme...

SCENA XIX.
Cardella, che porta appojato Marcaniello e li ditte.
Marcaniello Addò so gghiute?
Cca no nc’è nnullo.
MarcanielloAddò so gghiute?
Cca no nc’è nnullo.
CardellaCca mo se teravano.
Cardella

Lla’ mo se teravano.
Marcaniello 
O figlio pazzo, o arrojenato mene!

MarcanielloO figlio pazzo! O arrojenato mene!
LuggreziaChe ffarrà? Gnore…LuggreziaChe ffarrà? Gnore…
Marcaniello O figlia!MarcanielloO figlia!
VannellaIo voglio scennere.VannellaIo voglio scennere.
LuggreziaCardè, che ccosa è stata?

LuggreziaCardè, che ccosa è stata?
CardellaDon Pietro co la spata contr’Ascanio;
Ll’avarrà acciso.

CardellaDon Pietro co la spata contr’Ascanio.
Ll’avarrà acciso.
LuggreziaAh negra me mo moro!LuggreziaAh negra me! mo moro.

Marcaniello

Cardella

Non te partì, Cardella,
Appojame: io so mmuorto.

(Nce voleva
Sto pisemo porzì).

Marcaniello


Cardella

Non te partì, Cardella:
Appojame. Io so mmuorto.

(Nce voleva
Sto pisemo porzì).
Marcaniello 
Sto figlio cano,
Ave da sconquassà la casa mia.
Mannaggia quanno maje… Uh che dderria.                                                     
MarcanielloSto figlio cano,
Ave da sconquassà la casa mia.
Mannaggia quanno maje… Uh che dderria!

SCENA XX.
Don Pietro, e li stisse.

SCENA XX.
Don Pietro, e li stisse.
D. PietroChe fo? dove m’inselvo? ove m’intano?D. PietroChe fo? dove m’inselvo? ove m’intano?
MarcanielloAh frabbuttone, tu ch’aje fatto?MarcanielloAh frabbutone, tu ch’aje fatto?
D. PietroO Padre…D. PietroO Padre…
LuggreziaParla: che nn’è d’Ascanio?LuggreziaParla: che nn’è d’Ascanio?
D. PietroOr varca l’onde,
Cred’io, del nero fiume.
D. PietroOr varca l’onde,
Cred’io, del nero fiume.
CardellaStace frisco
Comme non fosse niente.
CardellaStace frisco
Comme non fosse niente.
MarcanielloNon vuoje dire,
Co Ascanio ch’aje avuto?
MarcanielloNon vuoje dire,
Co Ascanio ch’aje avuto?
D. PietroDe’ suoi misfatti egli pagò il tributo.
In singolar tenzone
Difesi mia raggione.
Io vincitor restai,
Egli mi cadde al piè.
La vita io gli donai,
Perché quel cano perro
Già guadagnò il mio ferro,
Ed allippar mi fe.
D. PietroVoleva il mascalzone
Corrivar me con Nena, e lei con Nina;
L’incontrai, lo sfidai, tirò, tirai.
Quindi, con suo rossore, e con mia gloria
Ei vinto in campo, io vincitor restai.
MarcanielloQuanno va, ch’isso ave abbuscato all’ultemo.

Le vicende narrate da Federico e musicate da Pergolesi hanno una forte ricaduta nell’immaginario cittadino se ancora nel 1748 ne è allestita una ripresa al Teatro Nuovo.[82] Nel lungo scritto prefatorio a quella nuova versione, destinato all’«Amico lettore», sono tracciate le linee guida di tale ripresa. Dopo aver intessuto le lodi al «parto dell’Erudita, o Graziosa penna del fù Gennarantonio Federico nostro Napoletano» e assicurati gli ascoltatori che «religiosamente si è pensato di non toccare in parte alcuna la musica del presente Dramma, come parto del singolare ingegno del fù Gioanbattista Pergolesi», il redattore passa alle urgenze rappresentative determinate dal differente cast impegnato segnalando di essersi «procurato di adattarla al meglio, che si è possuto a personaggi, che doveano rappresentarla» e sottolineando, polemicamente, di aver rispettato la condotta testuale senza 

mutarla in cosa alcuna nella sua essenza, come altre volte si è fatto, poiché chi ha avuto il carico di gridarla ha penzato di non tradire la verità, e di non farsi merito, con far cose inutili, anzi dannose così all’onor suo, come all’interesse dell’Impresario; all’onor suo, perche da sensati certamente per sciocco, o temerario è stimato colui, che cerca, e si dà il vanto di accommodare ciò, che intieramente altre volte è stato giudicato per buono, ed incapace di correzzione; All’interesse dell’Impresario, perché non riuscendo facilmente, come si è veduto altre volte, ciò che di nuovo si è fatto in tali composizioni, e particolarmente quando si è fatto a solo capriccio, e senza necessità alcuna, ancorché da penne maestre, erudite, e che in tali materie il primo luogo vantano, ciò fattosi fusse.[83] 

Il ruolo di Luggrezia è tradotto in italiano (non confacendosi l’idioma napoletano all’interprete) e viene aggiunto, in maniera indolore, il personaggio di Moscardino. L’introduzione di nuovi ruoli all’interno di libretti preesistenti non rappresenta una “novità”: lo stesso Federico nel ’33 era stato retribuito per scrivere una «parte di più» ne L’Ottavio «stante che non haveva […] l’obligo di componere detta opera à nove parti, mà solo tanto ad otto».[84] In tale occasione Federico aveva aggiunto il ruolo di Cassandra che si inseriva nell’impianto del libretto, già redatto con minimi stravolgimenti desumibili dalla collazione tra la versione modificata e quella del ’36 in cui il poeta è costretto, per esigenze rappresentative, a eliminare il personaggio.[85] L’operazione compiuta dall’accomodatore de Lo frate non appare dissimile da quella messa in atto dalla “penna maestra”. Gli interventi di Moscardino sono sempre presenti a inizio d’atto – alla fine della seconda scena del primo e alla fine della prima del secondo e terzo atto – senza comportare alcuno stravolgimento dell’azione originale. «Molte arie, che non si adattavano alla voce, ò alla abilità di alcuni presenti personaggi della rappresentazione dovendosi mutare si è procurato di scegliere altr’arie dell’istesso Pergolesi, che si sono ritrovate in altre sue opere, ed acciò avessero avuto connessione le parole, con ciò, che si ricercava nella presente Commedia, si sono quelle mutate, ed adattate alla musica, ed alle scene, che occorrevano».[86] Ad esempio alla scena diciottesima del secondo atto, che corrisponde alla diciassettesima dell’antico testo, è affidato a Carlo il travestimento del brano di Uberto «Sempre in contrasti» da La serva padrona che sostituisce l’aria «Mi palpita il core»: 

Sempre da sotto
Con lui si và.
Aspetti qua,
Or calo giù…
Finirà quando…
Per me non sò…
Che cosa o a fare?
Devo crepare?
Crepar non vò…
Ah, che i miei guai
Mai sono a termine,
Le mie disgrazie
Non finiranno, io già lo sò…
Meschino me, questo cos’è.
Non hò quiete, pace non hò…

Le professioni di “venerazione” al genio pergolesiano sono, nella prefazione, profuse copiosamente a dimostrazione di un successo artistico che non era scemato e che ormai si propagava su un vastissimo territorio. L’Europa riconosce ben presto il ruolo dell’autore jesino così come era capitato nella città d’elezione che in virtù del felice esito de Lo frate nnammorato apre le porte della sua Cappella Reale.[87] Nella maggiore istituzione cittadina, ambita da tutti gli artisti del regno e non, nel novembre del ’32 Pergolesi accede per aver «composto molte opere, e presentemente pure ha dato saggio di sé nell’opera composta nel teatro de Fiorentini che riesce con applauso universale, oltre poi il bisogno, che tiene la Cappella Reale de sogetti che compongono sopra il gusto moderno».[88]


APPENDICE

Aria di Nena «Va solcando il mar d’amore» (III.4)



























































































“Recitativo e aria di Ascanio «Addo’ vao? Addo’stongo? / Chi dà pace, chi dà carma» (III.5)”



















[1] Per la Napoli spettacolare di primo Settecento si vedano almeno F. COTTICELLI-P. MAIONE, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli». Materiali per una storia dello spettacolo a Napoli nel primo Settecento, Milano, Ricordi, 1996 e Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Settecento, a cura di F. COTTICELLI e P. MAIONE, Napoli, Turchini, 2009.

[2] Ancora imprescindibile per l’esperienza metastasiana all’ombra del Vesuvio resta R. CANDIANI, Pietro Metastasio da poeta di teatro a “virtuoso di poesia”, Roma, Aracne, 1998. Inoltre si rinvia ai volumi scaturiti dai diversi incontri promossi dal comitato metastasiano, tra cui Il melodramma di Pietro Metastasio: la poesia la musica la messa in scena e l’opera italiana nel Settecento, a cura di E. SALA DI FELICE e R. CAIRA LUMETTI, Roma, Aracne, 2001 e Legge, poesia e mito. Giannone Metastasio e Vico fra “tradizione” e “trasgressione” nella Napoli degli anni Venti del Settecento, a cura di M. VALENTE, Roma, Aracne, 2001.

[3] Per uno sguardo sulla Napoli del Viceregno austriaco si rinvia a Settecento napoletano. Sulle ali dell’aquila imperiale 1707-1734, catalogo della mostra a cura di W. PROHASKA e N. SPINOSA (Vienna, 10 dicembre 1993-20 febbraio 1994; Napoli, 19 marzo-24 luglio 1994), Napoli, Electa, 1994 e G. GALASSO, Storia del Regno di Napoli, Torino, UTET, 2006-2007, 5 voll., vol. IV, pp. 3-275.

[4] Cfr. R. MELONCELLI, Conti, Francesco Bartolomeo, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 1983, vol. 28, consultato on line (cui si rinvia anche per la bibliografia). Si veda anche: H.W. WILLIAMS, Francesco Bartolomeo Conti: His Life and Music, Aldershot, Ashgate, 1999 (ristampa: New York, Routledge, 2018).

[5] Cfr. V. ANZANI, Porta, Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. 85, consultato on line (cui si rinvia anche per la bibliografia).

[6] A tal proposito cfr. R. MELLACE, Johann Adolf Hasse, Palermo, L’Epos, 2004, p. 104.

[7] Per la cronologia del teatro di San Bartolomeo si veda COTTICELLI-MAIONE, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., pp. 323-360: 357.

[8] Cfr. K.S. MARKSTROM, The Operas of Leonardo Vinci, “Napoletano”, Hillsdale, Pendragon Press, 2007.

[9] Per la cronologia del Teatro Nuovo si veda COTTICELLI-MAIONE, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., pp. 383-390: 388. Sulla versione del ’32 si rinvia a P. MAIONE, «La museca è na nzalata mmescata»: la commedia “pasticciata” nel primo Settecento a Napoli, in Il Pasticcio. Responsabilità d’autore e collaborazione nell’opera dell’età barocca. Atti del convegno internazionale di studi (Reggio Calabria, 2-3 ottobre 2009), a cura di G. PITARRESI, Reggio Calabria, Laruffa, 2011, pp. 257-324: 269-272.

[10] Per il cast di quest’opera si rinvia nuovamente alla cronologia in COTTICELLI-MAIONE, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., p. 388. Per l’operazione di Leo cfr. MAIONE, «La museca è na nzalata mmescata», cit., pp. 266-269.

[11] Sulle “lingue” della commedia si veda almeno P. MAIONE, Le lingue della “commedeja”: «na vezzarria; che non s’è bista à nesciuno autro state», in L’idea di nazione nel Settecento, a cura di B. ALFONZETTI e M. FORMICA, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2013, pp. 179-195.

[12] A tal proposito si veda P. MAIONE, La scena napoletana e l’opera buffa (1707-1750), in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Settecento, cit., vol. I, pp. 139-205.

[13] Per informazioni sulla commedeja pe museca e le sale che l’ospitarono (oltre alle informazioni reperibili in F. FLORIMO, La scuola musicale di Napoli e i suoi conservatorii, Napoli, Morano, 1880-1883, 4 voll., rist. anast. Bologna, Forni, 1669), si vedano B. CROCE, I teatri di Napoli. Secolo XV-XVIII, Napoli, Pierro, 1891, pp. 233-252 e passim (l’opera è stata più volte ristampata, con aggiunte e modifiche, presso Laterza; della quarta edizione si è avuta una ristampa a cura di G. GALASSO, Milano, Adelphi, 1992); M. SCHERILLO, L’opera buffa napoletana durante il Settecento: storia letteraria, Palermo, Sandron, 1916; A. DELLA CORTE, L’opera comica italiana nel ’700: studi ed appunti, Bari, Laterza, 1923; H. BENEDIKT, Das Königreich Neapel unter Kaiser Karl VI. Eine Darstellung auf Grund bisher unbekannter Dokumente aus den österreichischen Archiven, Wien-Leipzig, Manz, 1927, pp. 631-633; U. PROTA-GIURLEO, Breve storia del teatro di corte e della musica a Napoli nei secoli XVII-XVIII, in Il Teatro di Corte del Palazzo Reale di Napoli, a cura di F. DE FILIPPIS e U. P.-G., Napoli, L’arte tipografica, 1952, pp. 17-146; G. TINTORI, L’opera napoletana, Milano, Ricordi, 1958 (studio confluito, rivisto e ampliato, in ID., I napoletani e l’opera buffa, Napoli, Edizioni San Carlo, 1980); U. PROTA-GIURLEO, I teatri di Napoli nel ’600. La commedia e le maschere, Napoli, Fiorentino, 1962, pp. 121-143 (ora si veda ID., I teatri di Napoli nel secolo XVII, a cura di E. BELLUCCI e G. MANCINI, Napoli, Il quartiere, 2002, 3 voll.). Per una rifondazione critica del problema cfr. E. BATTISTI, Per un’indagine sociologica sui librettisti napoletani buffi del Settecento, in «Letteratura», VIII, nn. 46-48, 1960, pp. 114-164; F. DEGRADA, L’opera napoletana, in Storia dell’Opera, a cura di A. BASSO, Torino, UTET, 1977, 3 voll., vol. I, tomo I, pp. 244 e 250-251; ID., Origini e destino dell’opera comica napoletana, in ID., Il palazzo incantato. Studi sulla tradizione del melodramma dal Barocco al Romanticismo, Fiesole, Discanto, 1979, 2 voll., vol. I, pp. 41-65; ID., La commedia per musica a Napoli nella prima metà del Settecento: una ricerca di base, in Trasmissione e recezione delle forme di cultura musicale. Atti del XIV congresso della Società Internazionale di Musicologia (Bologna, 27 agosto-1° settembre 1987; Ferrara-Parma, 30 agosto 1987), a cura di L. BIANCONI, F.A. GALLO, A. POMPILIO e D. RESTANI, Torino, EDT, 1990, 3 voll., vol. III, pp. 263-274; ID., Lo frate ’nnamorato e l’estetica della commedia musicale napoletana, in Napoli e il teatro musicale in Europa tra Sette e Ottocento. Studi in onore di Friedrich Lippmann, a cura di B. M. ANTOLINI e W. WITZENMANN, Firenze, Olschki, 1993, pp. 21-35; F.C. GRECO, Teatro napoletano del ’700. Intellettuali e città tra scrittura e pratica della scena, Napoli, Pironti, 1981, pp. LXXXI-LXXXIV; M. RAK, L’opera comica napoletana di primo Settecento, in Musica e cultura a Napoli dal XV al XIX secolo, a cura di L. BIANCONI e R. BOSSA, Firenze, Olschki, 1983, pp. 217-224; P. SIMONELLI, Lingua e dialetto nel teatro musicale napoletano del ’700, ivi, pp. 225-237; M.F. ROBINSON, L’opera napoletana (1972), a cura di G. MORELLI, trad. it. di G. MORELLI e L. ZOPPELLI, Venezia, Marsilio, 1984, pp. 211-296; P. WEISS, Ancora sulle origini dell’opera comica: il linguaggio, in «Studi pergolesiani», I, 1986, pp. 124-148; ID., La diffusione del repertorio operistico nel Settecento: il caso dell’opera buffa, in Civiltà teatrale e Settecento emiliano, a cura di S. DAVOLI, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 241-256; R. STROHM, Aspetti sociali dell’opera italiana del primo Settecento, in «Musica/Realtà», II, n. 5, 1981, pp. 117-141; ID., L’opera italiana nel Settecento (1979), trad. it. di L. CAVARI e L. BIANCONI, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 141-169; S. CAPONE, Autori, imprese, teatri dell’opera comica napoletana. Documenti per una storia del teatro napoletano del ’700 (1709-1737), Foggia, Books & News, 1992; ID., L’opera comica napoletana (1709-1749). Teorie, autori, libretti, e documenti di un genere del teatro italiano, Napoli, Liguori, 2007; COTTICELLI-P. MAIONE, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit.; ID., “Commedeja pe Museca”: A New Database, a New Approach to the History of a Musical Genre, in «Eighteenth-Century Music», XII, 2015, 1, pp. 120-122; L. TUFANO, Da “Don Anchise” ai “Litiganti”. L’esordio librettistico di Giambattista Lorenzi fra teatro di parola e opera in musica, in Belliniana et alia musicologica. Festschrift für Friedrich Lippmann zum 70. Geburstag, a cura di D. BRANDENBURG e T. LINDNER, Wien, Praesens, 2004, pp. 268-300; G. CICALI, Attori e ruoli nell’opera buffa italiana del Settecento, Firenze, Le Lettere, 2005; P. MAIONE, «Tanti diversi umori a contentar si suda»: la “commeddeja” dibattuta nel primo Settecento, in Leonardo Vinci e il suo tempo. Atti dei convegni internazionali di studi (Reggio Calabria, 10-12 giugno 2002; 4-5 giugno 2004), a cura di G. PITARRESI, Reggio Calabria, Iiriti Editore, 2005, pp. 407-439; ID., The “Catechism” of the “commedeja pe’ mmuseca” in the Early Eighteenth Century in Naples, in Genre in Eighteenth-Century Music, a cura di A. DelDonna, Ann Arbor, Steglein Publishing, 2008, pp. 3-35; ID., La scena napoletana e l’opera buffa (1707-1750), cit.; ID., «La museca è na nzalata mmescata», cit.; ID., “Cantata” e “disfida” per un esercizio teatrale: Jommelli e la scena comica, in N. JOMMELLI, Don Trastullo, Napoli, Teatro di San Carlo, 2012, pp. 11-35; ID., Le lingue della “commedeja”, cit.; ID., Jommelli tra il Nuovo e il Fiorentini: un debutto in piena regola, in Niccolò Jommelli: l’esperienza europea di un musicista “filosofo”. Atti del convegno internazionale di studi (Reggio Calabria, 7-8 ottobre 2011), a cura di G. PITARRESI, Reggio Calabria, Edizioni del Conservatorio di Musica “F. Cilea”, 2014, pp. 3-82, http://cilea.altervista.org/images/pubblicazioni/jommelli2014/3%20-%20Maione%20-%20Saggio.pdf (ultimo accesso: 24 febbraio 2018); ID., Os inícios de Jommelli e as Suas Experiкncias Cómicas: a Máquina do Teatro Burlesco Napolitano, in “Della Gloria, e dell’Amor”. Olhares sobre a Obra de Niccolò Jommelli (1714-1774) em Portugal, Lisboa, OPART, 2014, pp. 27-30; ID., Le carte degli antichi banchi e il panorama musicale e teatrale della Napoli di primo Settecento (1726-1736): la scena della “commedeja pe museca”, a cura di F. COTTICELLI e P. MAIONE, «Studi pergolesiani», IX, 2015, pp. 733-763; F. OLIVA, “Lo castiello saccheato”. Commeddea. In appendice: “L’Emilia”, commedia per musica di Francesco Oliva e Pietro Trinchera, edizione critica a cura di P. MAIONE, Venezia, lineadacqua, 2015, pp. 300, http://www.usc.es/goldoni/doc/oliva-locastiello-oliva-trinchera-emilia-maione-bibliotecapregoldoniana10-definitivo.pdf (ultimo accesso: 24 febbraio 2018); P. MAIONE, The Role of Neapolitan Song in Comedic Dramaturgy of the Late Eighteenth and Early Nineteenth Centuries, in The Neapolitan Canzone in the Early Nineteenth Century as Cultivated in the Passatempi musicali of Guillaume Cottrau, a cura di P. SCIALТ, F. SELLER e A.R. DELDONNA, Lanham, Lexington, 2015, pp. 33-49; ID., Le molte vite de Lo castiello sacchejato” di Francesco Oliva, in Goldoni «avant la lettre»: esperienze teatrali pregoldoniane (1650-1750). Atti del convegno (Santiago de Compostela, 15-17 aprile 2017), a cura di J. GUTIÉRREZ CAROU, Venezia, lineadacqua, 2015, pp. 259-269; ID., Vokalität und schauspielerische Virtuosität: Comici im Neapel der ersten Hälfte des Settecento, in Singstimmen: Дsthetik, Geschlecht, Vokalprofil, a cura di S.M. WOYKE et al., Würzburg, Königshausen & Neumann, 2017, pp. 225-242.

[14] Lo scassone, Napoli, s.e., 1720, p. n.n. (Francesco Oliva-Leonardo Vinci, Napoli, Teatro dei Fiorentini, 1720).

[15] Per notizie su Federico si veda N. BALATA, Federico, Gennaro Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, cit., 1995, vol. 45, consultato on line (cui si rinvia anche per la bibliografia). Si consulti anche V. GALLO, Gennarantonio Federico e Placido Adriani: dall’opera buffa alla commedia dialettale, in «Misure critiche», 1995, 94-96, pp. 23-33 e ID., La commedia dialettale napoletana del primo ’700. Nicolò Maresca e Gennaro Antonio Federico, in «Esperienze letterarie», 1999, 2, pp. 39-62.

[16] Su Pergolesi si veda C. TOSCANI, Pergolesi, Giovanni Battista, in Dizionario biografico degli italiani, cit., vol. 82 (2015), consultato on line (cui si rinvia per la bibliografia).

[17] Notizie sulla vita del Teatro Nuovo in questi anni sono in COTTICELLI-MAIONE, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., pp. 137-158 e P. MAIONE, L’alternativa drammaturgica a Napoli: il Teatro Nuovo, in «Ariel», XIV, 1999, 1, pp. 73-84.

[18] LO / FRATE / NNAMMORATO / COMMEDDEJA / PE MMUSECA / DE JENNARANTONIO FEDERICO / NAPOLITANO / Da rappresentarese a lo Triato de li / Shiorentini l’Autunno de chist’ / anno 1732 […] NAPOLE / A spese de Nicola de Biase, s.d. [ma 1732], p. n.n. (d’ora in poi Frate 1732).

[19] A. PERRUCCI, Dell’arte rappresentativa premeditata, ed all’improviso, Napoli, nella nuova stampa di Michele Luigi Mutio, 1699. Riproposto a cura di A.G. BRAGAGLIA (Firenze, Sansoni, 1961), è ora disponibile in edizione bilingue italiano-inglese: cfr. A. PERRUCCI, A Treatise on Acting, from Memory and by Improvisation (1699), trad. e cura di F. COTTICELLI, A. GOODRICH HECK e T.F. HECK, Lanham-Md.-London, Scarecrow, 2008, da cui si cita (citazione a p. 193).

[20] Sul ruolo di concertatore di Federico si riporta, ad esempio, il seguente pagamento: Gennaro Marrocco versa 10 ducati «à don Gennaro federico, disse sono in Conto dell’opera si dovrà dal medesimo componere, e concertare nel Teatro de fiorentini per la forma della conventione passata trà detto don Gennaro con il Signor domenico de Nicola Impressario, et Amministratore del Teatro de fiorentini» (Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco dello Spirito Santo, matricola 1260, partita estinta il 3 giugno 1733). Il documento è riportato nel CD-rom Spoglio delle polizze bancarie di interesse teatrale e musicale reperite nei giornali di cassa dell’Archivio del Banco di Napoli per gli anni 1726-1737, progetto e cura di F. COTTICELLI e P. MAIONE, allegato a «Studi pergolesiani», IX, 2015.

[21] PERRUCCI, A Treatise on Acting, cit., p. 193.

[22] Ivi, p. 196.

[23] Sui finali poco “felici” delle commedie primo settecentesche si veda MAIONE, La scena napoletana e l’opera buffa, cit., passim.

[24] Si veda A. MANGO, La commedia in lingua nel Cinquecento: bibliografia critica, s.l., Lerici, 1966, pp. 82, 87, 114, 167, 168 e 227.

[25] Ivi, pp. 146, 216, 225.

[26] Si veda Gibaldone de soggetti da recitarsi all’Impronto, alcuni proprij, e gli altri da diversi raccolti di Don Annibale Sersale, Conte di Casamarciano, Napoli, Biblioteca nazionale Vittorio Emanuele III, ms. XI AA 41 e Gibaldone comico di varij suggetti di comedie ed opere bellissime copiate da mé Antonino Passanti detto Oratio il Calabrese per comando dell’Eccellentissimo Signor Conte di Casamarciano = 1700, ivi, m ms. XI AA 40. Un’edizione critica moderna è The Commedia dell’Arte in Naples. A Bilingual Edition of the 176 Casamarciano Scenarios / La Commedia dell’Arte a Napoli. Edizione bilingue dei 176 Scenari Casamarciano, I. English edition, a cura di T.F. HECK, A. GOODRICH HECK e F. COTTICELLI); II. Edizione italiana, introduzione, nota filologica, bibliografia e trascrizione di Francesco Cotticelli, Lanham-Md.-London, Scarecrow, da cui si cita.

[27] Sulla scena dei comici a Napoli si vedano almeno: F. COTTICELLI, Il teatro recitato, in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli, cit., vol. I, pp. 455-509 e ID., Le carte degli antichi banchi, cit., pp. 765-778.

[28] Su questo aspetto cfr. COTTICELLI-MAIONE, «Onesto divertimento, ed allegria de’ popoli», cit., pp. 179-192; ID., «Abilitarsi negli impieghi maggiori»: il viaggio dei comici fra repertori e piazze, in Europäische Musiker in Venedig, Rom und Neapel (1650-1750), a cura di A. GOULET e G. ZUR NIEDEN, «Analecta Musicologica», LII, 2015, pp. 326-346; P. MAIONE, «Il possesso della scena»: gente di teatro in musica tra Sei e Settecento, in «Drammaturgia», XII / n.s. 2, 2015, pp. 97-108 e ID., Vokalität und schauspielerische Virtuosität, cit., 225-242.

[29] Cfr. The Commedia dell’Arte in Naples, cit., pp. 228-231.

[30] Ivi, p. 370.

[31] Ivi, pp. 172-175.

[32] Ivi, p. 175.

[33] Frate 1732, III.21.

[34] Sui dibattiti e le riflessioni si veda MAIONE, «Tanti diversi umori a contentar si suda», cit., pp. 407-439.

[35] Cfr. Li viecchie coffejate, Venezia, Pe l’Arede de Casparro Stuorto, 1710 (Francesco Antonio Tullio su musica anonima; Napoli, Teatro dei Fiorentini).

[36] Cfr. La sorella amante, Napoli, s.e., 1729 (Bernardo Saddumene-Johann Adolph Hasse; Napoli, Teatro Nuovo). Per questa commedia si veda R. MELLACE, «Io v’era frate». Sorelle e fratelli innamorati tra Pergolesi e Hasse, in «Studi pergolesiani», IX, 2015, pp. 197-210.

[37] Su Perrucci si legga almeno F. COTTICELLI, Il trattato “Dell’arte rappresentativa premeditata, ed all’improvviso”. L’impresa bellissima e pericolosa di Andrea Perrucci, in «Commedia dell’Arte. Annuario internazionale», IV, 2011, 4, pp. 47-91.

[38] PERRUCCI, A Treatise on Acting, cit., pp. 163-176.

[39] Ivi, p. 163.

[40] Ivi, pp. 163-164.

[41] Ivi, p. 164.

[42] Frate 1732, I.2: «Don Pietro co no specchio mmano mmirannose».

[43] Ivi, II.18: «Don Pietro co la facce conciata, ch’esce correnno co la perucca mmano, e Cardella co lo pejattiello de russo».

[44] PERRUCCI, A Treatise on Acting, cit., pp. 145-148.

[45] Ivi, p. 145.

[46] Ibid.

[47] Ivi, pp. 145 e 147.

[48] Ivi, pp. 173-174.

[49] Frate 1732, III.9.

[50] B. PUOTI, Vocabolario domestico napoletano e toscano, Napoli, Libreria e tipografia Simoniana, 1841, p. 395.

[51] Frate 1732, II.18.

[52] Ivi, I.4-5.

[53] Ivi, I.19.

[54] Ivi, II.10.

[55] Ivi, II.11.

[56] Cfr. The Commedia dell’Arte in Naples, cit., pp. 118-121.

[57] Ivi, p. 119.

[58] Frate 1732, I.3.

[59] Ivi, II.17.

[60] PERRUCCI, A Treatise on Acting, cit., p. 168.

[61] Ivi, p. 175.

[62] Ibid.

[63] Ibid.

[64] Ibid.

[65] Ivi, p. 153.

[66] Frate 1732, III.12.

[67] Altri esempi sono in MAIONE, La scena napoletana e l’opera buffa, cit., pp. 148-150.

[68] Frate 1732, III.4.

[69] La partitura dell’aria de Lo frate nnammorato è riportata in Appendice.

[70] Frate 1732, III.5.

[71] La partitura dell’aria de Lo frate nnammorato è riportata in Appendice.

[72] Sulla formazione dei musicisti e la didattica a Napoli si vedano, almeno, L. TUFANO, Il mestiere del musicista: formazione, mercato, consapevolezza, immagine, in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Settecento, cit., vol. II, pp. 733-771; R. CAFIERO, La trattatistica musicale, in ivi, pp. 593-656 e G. SANGUINETTI, The Art of Partimento. History, Theory, and Practice, Oxford, Oxford University Press, 2012.

[73] Sulla scenografia cfr. P. CIAPPARELLI, I luoghi del teatro e l’effimero. Scenografia e scenotecnica, in Storia della musica e dello spettacolo a Napoli. Il Settecento, cit., vol. II, pp. 223-329.

[74] Su La Dirindina si veda il bel saggio di F. DEGRADA, Una sconosciuta esperienza teatrale di Domenico Scarlatti: “La Dirindina”, in ID., Il palazzo incantato: studi sulla tradizione del melodramma dal Barocco al Romanticismo, Fiesole, Discanto, 1979, vol. I, pp. 67-97.

[75] Frate 1732, II.11.

[76] Ivi, III.8.

[77] DEGRADA, Lo frate ’nnamorato e l’estetica della commedia, cit., p. 35.

[78] «LO / FRATE / NNAMMORATO / COMMEDDEJA PE MMUSECA / DE JENNARANTONIO FEDERICO / NAPOLITANO / Da rappresentarese a lo Triato de li / Shiorentini lo Carnevale de / chist’anno 1734. […] NAPOLE / A spese de Nicola de Biase», s.d. [ma 1734], p. n.n.

[79] Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco dello Spirito Santo, matricola 1277, partita estinta il 3 marzo 1734. Il documento è riportato nel CD-rom Spoglio delle polizze bancarie, cit.

[80] Frate 1734, p. n.n.

[81] Rime d’Isabella Andreini Padouana Comica Gelosa […], In Milano, appresso Girolamo Bordone, & Pietromartire Locarni compagni, 1601, p. 105.

[82] «LO / FRATE NNAMMORATO / COMMEDDEA PE MUSECA / DE / JENNARO-ANTONIO FEDERICO / NAPOLITANO / DA RAPPRESENTARESE / A lo Triato Nuovo ncoppa Toleto / lo Vierno de chist’anno 1748. […] IN NAPOLI MDCCXLVIII. / Per Domenico Langiano […]».

[83] Ivi, p. n.n.

[84] Archivio Storico del Banco di Napoli, Banco dello Spirito Santo, matricola 1266, partita estinta il 8 agosto 1733. Il documento è riportato nel CD-rom Spoglio delle polizze bancarie, cit.

[85] Cfr. MAIONE, Le carte degli antichi banchi, cit., pp. 743-744.

[86] P. n.n.

[87] Su questo episodio cfr. F. COTTICELLI-P. MAIONE, Le istituzioni musicali a Napoli durante il Viceregno austriaco (1707-1734). Materiali inediti sulla Real Cappella ed il Teatro di San Bartolomeo, Napoli, Luciano, 2012, pp. 32-34.

[88] Il documento è riportato in ivi, p. 33.



 
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