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Paola Ventrone

Politica e recitazione a Firenze prima del Principato

Data di pubblicazione su web 20/06/2015
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Pubblichiamo la relazione tenuta da Paola Ventrone al convegno internazionale di studi Firenze e la nuova storia del teatro organizzato dalle Università di Firenze, Pisa e Siena, Dottorato di ricerca interuniversitario Pegaso in Storia delle Arti e in Storia dello Spettacolo, in collaborazione con la fondazione Teatro della Toscana (Firenze, Teatro della Pergola, 23-24 aprile 2015).

A Firenze, fra Quattro e primo Cinquecento, le élites di governo elaborarono un uso particolare della recitazione, funzionale alle necessità della comunicazione politica di una città il cui regime repubblicano rendeva estremamente fluide le alleanze fra le fazioni e determinava una costante attenzione per l’orientamento della pubblica opinione.

Fin dall’istituzionalizzazione di forme festive e cerimoniali, avvenuta nel periodo di egemonia della famiglia Albizzi (1382-1434) e poi perfezionata durante il regime mediceo, le figure dell’araldo della Signoria e di altri intrattenitori pubblici ebbero un ruolo centrale sia nell’impostazione di una recitazione civile, legata soprattutto a componimenti poetici di natura gnomica, morale e sentenziosa, sia nell’elaborazione della sacra rappresentazione come genere drammaturgico inizialmente concepito per l’educazione “di massa” dei fanciulli fiorentini riuniti in confraternite, fondate appositamente per il loro indottrinamento civile e religioso, e ben presto esteso alla condivisione con il resto della popolazione.[1]

L’uso del teatro come strumento della comunicazione politica a sostegno dell’ideologia repubblicana non venne meno neppure dopo la cacciata dei Medici nel 1494, l’esecuzione di Girolamo Savonarola, nel 1498, il gonfalonierato a vita di Piero Soderini (che vide anche l’apice della carriera politica del Machiavelli) e il rientro dei Medici nel 1512, fino alla fine della seconda repubblica nel 1530, cui seguì l’instaurazione del principato, venendo a declinarsi, in questi anni, anche nella elaborazione di farse e di commedie morali. Fra queste opere vi sono le anonime Comedia di opinione fra gli dei, Farsa dell’uomo che si vuol quietare e vivere senza pensieriConmedia di adulatione, Farsa in qua dannati sunt iuvenes, o i testi degli araldi quali la Commedia della Ingratitudine, di Giovanbattista di Cristofano dell’Ottonaio, e la Comedia di Fortuna, di Jacopo del Polta, detto Bientina, per ricordarne solo alcuni.[2]

Questi componimenti sono di grande interesse per varie ragioni. In primo luogo, per la loro anomalia tematica e strutturale sia rispetto alla moda delle egloghe, dei drammi mitologici, dei volgarizzamenti e delle riscritture di testi classici, delle “drammaturgie di attori” (e penso in particolare allo Strascino e ai suoi compagni senesi trapiantati a Roma),[3] sia nei confronti della commedia erudita di imitazione plautina e terenziana, che proprio nel primo decennio del ’500 si andava irradiando, soprattutto dalla Ferrara di Ercole I d’Este, ad altre corti della Penisola.[4] In secondo luogo, per il comune denominatore del loro essere, per la maggior parte, apertamente opera di specialisti dell’intrattenimento, quali gli araldi e i cosiddetti “uomini faceti” (definizione tutta fiorentina e derivata dalla novellistica), che mi indusse, in un precedente lavoro, a cercare nelle testimonianze scritte di quei componimenti tracce della mentalità orale e delle tecniche di recitazione che presiedevano alla loro creazione ed esecuzione prima della loro sedimentazione nella scrittura.[5] Infine, per la peculiarità, anch’essa tutta fiorentina, delle tematiche rappresentate e dei loro modi e contesti performativi, legati tanto all’associazionismo cittadino di brigate e confraternite, quanto agli ambienti istituzionali del palazzo dei Signori.

Agli araldi si devono, dunque, molti dei testi qui considerati. Essi erano attori con mansioni più “ufficiali” degli altri recitanti perché erano incaricati di rappresentare il governo repubblicano nelle ambascerie e nelle cerimonie ufficiali in città e all’estero, di esibirsi in occasione delle feste e dei banchetti organizzati dalla Signoria, di fornire prestazioni “di routine”, quali il canto di capitoli e sonetti morali, durante i pasti quotidiani dei magistrati e in qualsiasi altro momento fosse loro ordinato.[6]

Le abilità richieste per la copertura di questo ufficio erano di carattere letterario e performativo: i candidati dovevano essere in grado da un lato di approntare versi di occasione su svariati argomenti di carattere morale, storico, attuale, gnomico, encomiastico, attingendo con rapidità e prontezza a un non modesto bagaglio di conoscenze personali; dall’altro di recitare e cantare componimenti o già confezionati o “improvvisati”, dimostrando la perfetta padronanza tecnica dell’uso della voce – nelle sue diverse articolazioni ed inflessioni come nella chiarezza e correttezza della dizione – e di quello della memoria.

Le competenze indispensabili per l’esercizio di questo ufficio non erano, a quel tempo, molto comuni, non solo perché presupponevano la conoscenza di specifiche tecniche di composizione poetica e di espressione mimica, ma anche perché esigevano una particolare perizia nell’uso della parola e della voce. La padronanza della parola era, infatti, il frutto di una conquista culturale rilevante anche per la determinazione dello status sociale di chi ne era in possesso, perciò la scelta di recitanti che svolgessero le mansioni di intrattenimento e di rappresentanza previste dall’ufficio dell’araldo, dettata dalla difficoltà di reperire altri individui in possesso delle abilità necessarie, comportò anche una loro promozione sociale.

I testi poetici e drammatici composti da questi specialisti dell’intrattenimento talvolta non sono di immediata comprensibilità, in quanto legati a situazioni contingenti molto precise delle quali non sempre è possibile ricostruire i contorni. È il caso dell’interconvivio Dello Inganno di Jacopo del Polta detto Bientina,[7] la cui datazione e interpretazione rimangono incerte. Fu scritto per cercare di ricomporre una controversia giudiziaria fra la confraternita fiesolana di Santa Cecilia e il contiguo convento francescano presso il quale essa aveva sede, e potrebbe essere collocabile in un periodo successivo al 1527, perché il manoscritto che lo conserva qualifica l’autore come araldo della Signoria,[8] carica che ricoprì da quell’anno fino alla morte avvenuta nel 1539.[9] Se si accetta questa datazione, però, rimangono da spiegare le motivazioni che indussero il Bientina a scegliere, in un’età ormai dominata dalla commedia regolare, una struttura drammaturgica ibrida e caratterizzata, più che da veri e propri dialoghi, quasi da una successione di monologhi in terza rima, la cui “irregolarità” (ossia il non rispetto delle regole classiche di composizione della commedia quali quelle indicate da Orazio nell’Ars poetica) è ulteriormente sottolineata dall’intitolazione di Interconvivio, che sembrerebbe volerne indicare la circostanza performativa durante un pasto dei monaci forse uniti ai confratelli della Cecilia. Non è un problema di poco conto, questo, perché costringe a riflettere sul rapporto tra la scelta della forma dei testi recitativi in rapporto alla loro funzione nella cultura della comunicazione.

Anche l’anonima Comedia di opinione fra li dei, a dispetto del titolo, presenta una struttura irregolare, molto più vicina a quelle della sacra rappresentazione e del contrasto, sia per l’uso dell’ottava rima, sia per l’alternanza dialogica dei diversi personaggi chiamati a esprimere il proprio parere sul miglior modo di reggere una città. Quanto alla datazione, il testo potrebbe dar voce tanto alla scontentezza dei fiorentini negli anni appena successivi al rogo del Savonarola – quando la situazione politica generale, unitamente alle rivalità di fazione interne all’oligarchia, rendevano la città di fatto ingovernabile –,[10] quanto all’analoga insoddisfazione quasi immediatamente subentrata alla sofferta elezione del Gonfaloniere a vita. In quest’ultimo caso si trattava di una sperimentazione politica nella quale il nuovo sistema di governo, pur conservando il carattere elettivo delle cariche tipico della repubblica fiorentina, copiava il modello del dogado veneziano per l’incarico vitalizio conferito al Gonfaloniere di giustizia, massimo esponente della Signoria.[11] Sebbene fosse stata scelta nella speranza di dare stabilità al reggimento cittadino, questa soluzione si era ben presto rivelata poco efficace, soprattutto per l’incapacità del Soderini ad amministrare la giustizia e a mantenere una linea politica rigorosa e coerente con il supporto dei consigli cittadini. Egli preferiva, infatti, agire di proprio arbitrio, cercando di non scontentare né gli ottimati né il popolo, e sortendo così il risultato opposto, come si legge nei vividi resoconti dei cronisti dell’epoca.[12]

Pur consapevole che l’analisi puntuale di questi testi potrebbe essere di grande interesse per far luce sulla loro funzione nei meccanismi della comunicazione politica del Rinascimento, in questa sede ho preferito cercare di elaborare alcune riflessioni che, prendendo spunto dall’eccezionalità della situazione fiorentina, possano sollevare nuovi interrogativi e sollecitare nuovi indirizzi di ricerca anche per città e contesti differenti, italiani ed europei. Le commedie e le farse fiorentine, unitamente alle loro tecniche e occasioni performative, non sono, infatti, interessanti solo nel ristretto ambito della storia locale, benché siano ad essa intrinsecamente legate visto che solo una loro capillare contestualizzazione ne può chiarire i significati, ma possono aiutare a capire alcuni meccanismi di base della comunicazione politica, esercitata attraverso le pratiche della performance orale e/o teatrale, in maniera più limpidamente ricostruibile che altrove.

La concatenazione dei generi recitativi fiorentini, prima dell’avvento del principato, si può, in linea di massima, così tracciare: il fondamento della tradizione di questa drammaturgia è la letteratura gnomica, morale, politica, declamata sia ufficialmente (dagli araldi, ma anche dai vari funzionari chiamati a presentare discorsi in pubbliche occorrenze), sia in occasioni private (adunate di brigata, circoli di amici, le compagnie di piacere proto-cinquecentesche),[13] ma probabilmente anche nei canti delle strade dove, come ricorda don Vincenzio Borghini (un erudito al servizio del duca Cosimo I de’ Medici), i due buontemponi Nanni Cieco e Giovanbattista di Cristofano dell’Ottonaio intrecciavano dispute animate fermando i passanti.[14]

Questo tipo di poesia elaborava temi civili e governativi, affini a quelli di molte orazioni cancelleresche pronunciate per le visite degli ospiti illustri,[15] ma era anche spesso generato dall’attualità più immediata, come i sonetti dell’araldo Antonio di Matteo di Meglio diretti a papa Eugenio IV in occasione del concilio del 1439,[16] o le invettive sorte dalla guerra fra Firenze e Milano (degli anni 1390-1402, contro Gian Galeazzo Visconti, e 1423-1440 contro il nuovo duca Filippo Maria). Queste ultime, in particolare, se dalla parte fiorentina furono prodotte tanto da intellettuali e politici, quanto da normali cittadini, canterini e araldi della Signoria, dalla parte milanese furono opera solo di pochi umanisti di corte,[17] a testimonianza di quanto la composizione e la recitazione in versi fosse radicata nel sistema della comunicazione politica fiorentina a molti e diversi livelli sociali e culturali.[18]

Questi temi, a Firenze, passarono direttamente anche alla drammaturgia più strutturata come la sacra rappresentazione, la farsa e la commedia, per il tramite degli stessi araldi, come il di Meglio, autore della Rappresentazione del dì del giudicio del 1448 circa, la più antica nota,[19] fino all’Ottonaio, cimentatosi con tutti i tre generi nei primi decenni del Cinquecento.[20]

Chiave di volta per l’interpretazione di questi testi è proprio la centralità dell’uso politico della recitazione, una recitazione che non esito a definire “civile”, per una città come Firenze, nella quale la vivacità delle dinamiche sociali, la rissosità fra i partiti, la necessità di articolare la propaganda, il rapido alternarsi della fortuna (non a caso tema ricorrente in diversi testi recitativi)[21] nelle sorti delle famiglie di più antica o recente aristocrazia, e certamente anche altri fattori ancora da sondare ma riconducibili alla concretezza della situazione storica contingente, contribuirono a moltiplicare non solo la creazione di specializzazioni legate alle abilità degli intrattenitori, ma anche le loro forme espressive in termini letterari, con la conseguenza che le farse e le commedie del primo Cinquecento si configurano più come nuove e aggiornate morfologie delle canzoni morali diffuse fin dai tempi di Dante (seppure, nel contempo, permeabili alle istanze della cultura classicistica ormai ben radicata in città), che come un totale ripensamento delle stesse sul piano politico e funzionale.

Perfino Niccolò Machiavelli coltivò doti di improvvisatore riconosciutegli dai contemporanei,[22] e i suoi Capitoli affrontano, non a caso, i temi tradizionali della poesia gnomica (la Fortuna, l’Ingratitudine, l’Ambizione),[23] contribuendo a far emergere un’interrelazione fra le strutture logiche del pensiero orale e le condizioni performative del discorso politico-morale, nelle diverse forme della letteratura recitativa fin qui elencate, non estranee neppure alla composizione di commedie encomiastiche e più accuratamente “regolate” in senso classico quali i Due felici rivali di Jacopo Nardi, la Iustitia di Eufrosino Bonini e la Mandragola stessa.[24]

D’altro canto, in una società, pur notevolmente alfabetizzata come quella fiorentina, in cui la maggior parte della comunicazione politica e religiosa passava attraverso l’oralità, cioè attraverso l’abilità tecnica di leggere o di memorizzare e declamare un messaggio – fosse esso legge, bando, orazione, canzone o quant’altro –, e attraverso la capacità di esprimerlo in una forma retorica corretta e comprensibile all’ascolto, è scontato che il riconoscimento di queste doti in chi le deteneva ed esercitava non potesse che essere di primaria importanza e oggetto di attenzione e di valutazione da parte dei concittadini, come dimostrano i frequentissimi attestati di apprezzamento equamente distribuiti a ogni livello culturale: dal più dozzinale cantimpanca, ai canterini intimi di palazzo Medici, come Michele del Giogante o Antonio di Guido, fino agli umanisti più colti quali un Landino o un Ficino.[25]

Da quanto esposto finora si delinea la parabola della “recitazione civile” fiorentina, che si può far risalire, nelle sue manifestazioni ufficiali, alla produzione gnomica di canterini, banditori e araldi della Signoria, composta da una selva di canzoni, frottole, sonetti, sirventesi, in certi casi ancora in attesa di essere adeguatamente pubblicati e decrittati.[26] Ricordo, per tutti, il capitolo quaternario di Antonio di Matteo di Meglio Eccelsa patria mia, però che amore, perché è un esempio unico di oratoria politica, trasferita in una prestazione attorica, del quale è possibile seguire il processo di rielaborazione dalla evenemenzialità dell’occasione recitativa fino alla “messa in pagina” per la sua conservazione manoscritta. Di questo testo si conoscono tre testimoni, due dei quali ne riportano la stesura riveduta e limata per la circolazione cartacea,[27] mentre il terzo ne conserva l’originaria versione recitata, come ha convincentemente suggerito Nicoletta Marcelli, cui si deve la scoperta del codice e l’edizione del sirventese in questione.[28] Questo manoscritto, a differenza dagli altri due, è introdotto da una «lunga didascalia, che sconfina quasi nel territorio della prosa proemiale, trascritta dal copista prima del testo poetico vero e proprio».[29] Essa descrive la circostanza e le motivazioni che indussero l’Araldo a comporre questi versi, perciò vale la pena leggerla per intero, insieme alle prime quartine:

Ebbono e Fiorentini una rotta da Filippo Maria, ducha di Milano, nell’anno 1423 a Zagonara,[30] volendo socchorere il traditore chonte Alberigho, il quale aveva preso soldo dai Fiorentini e finse essere istato asediato dall’esercito del ducha di Milano: fecie uno trattato doppio ed era chonfederato chol detto ducha. Andandovi e Fiorentini co lloro esercito, egli uscí fuori insieme co lle gienti del ducha e perchossono e Fiorentini. Avenne che lle gienti del ducha di Milano facievano grandi aquisti in Romagnia di nostri luoghi e terre. Era in quello tenpo in Firenze grande isbigotimento e grande ischompiglio per chi voleva porre gravezze [scil.: introdurre nuove tasse] a uno modo e chi a uno altro: questa contenzione facieva il Chomune abandonare, perché molti cittadini richiesti, cho·lla Signoria raunati, non si achordavano, e chosí bastò piú giorni in Firenze; il perché messer Antonio, Referendario de’ nostri Signori, fecie questo seghuente chapitolo in quadernario e nel Chonsiglio de’ detti richiesti lo disse, per che, chome piaque a Iddio, subito s’achordorono e presono partito che poi per lla grazia di Dio fu buono, e disse cosí:

Eccielsa patria mia, però che amore
Di te m’increscie tanto
Che non potrei dir quanto,
Sfogar? parlando mi chonvien? nel[31] chore,
Sì pieno d’ansi<e>tà e di dolore
Per ll’e<n>fortuni tuoi,
Che non so qual? me[glio] annoi
O vivere o morir? chon chotal? pena:
La qual? se forse oltre a dover? mi mena
A dimostrammi aldacie
Per parllare effichacie,
Mi schusi l’affezion?, chagion? del duolo.[32]

L’occasione della performance del di Meglio fu, dunque, il «grande isbigotimento e grande ischompiglio» provocato nella cittadinanza dalla rotta di Zagonara. In questa cruciale battaglia l’esercito fiorentino, guidato dal comandante generale Carlo Malatesta, era stato sbaragliato da quello di Filippo Maria Visconti, anche a causa del tradimento del capitano Alberigo da Barbiano, e aveva costituito una sconfitta pesante per la politica estera del “reggimento”, capeggiato da Rinaldo degli Albizzi, che aveva richiesto alla popolazione ingenti sforzi economici per sostenere la guerra.[33] La didascalia proemiale allude proprio a questi antefatti e all’incapacità dei membri della Signoria e del Consiglio dei Richiesti[34] di trovare un accordo sulla necessità di introdurre nuove tasse per fronteggiare la situazione. Per questa ragione il Referendario dei Signori[35] aveva deciso di intervenire per convincere i governanti a perseguire l’amore per la patria e per il bene comune,[36] senza timore di spingersi oltre il suo dovere istituzionale usando “parole troppo audaci, purché il suo parlare risultasse più efficace”.

Sul piano dell’intreccio fra prestazione attorica e comunicazione politica questa testimonianza mi appare eccezionale perché mostra tanto le intenzioni dell’autore del testo, quanto la sua ricezione da parte del trascrittore e il suo effetto sui destinatari. Nel primo caso, infatti, il di Meglio si mostra consapevole che l’efficacia della propria esortazione, pronunciata durante una riunione della Pratica dedicata a queste delicate questioni, sarebbe dipesa dall’enfasi della sua abilità oratoria; nel secondo, il copista del manoscritto non esitava a riconoscere proprio alla potenza persuasiva di quella recita il merito di aver convinto i consiglieri a ritrovare una serena sintonia nel prendere le decisioni migliori per la città.

Anche la sacra rappresentazione, intesa come teatro civile, costituì una nuova elaborazione morfologica, declinata in termini drammaturgici, della funzione didascalica della poesia gnomica, unita al messaggio religioso e morale della predicazione, in questo caso rivolta all’educazione prima dei fanciulli, poi dei cittadini tutti. Non a caso nella sua invenzione e produzione furono sempre coinvolti gli araldi come creatori e innovatori del genere, a partire dal di Meglio fino all’Ottonaio, ma chissà quanti testi anonimi potrebbero essere ricondotti all’autografia di compositori direttamente implicati nella sfera dell’intrattenimento.

La duplice natura, politica e religiosa, delle sacre rappresentazioni, o meglio, i loro soggetti religiosi e morali molto spesso trattati in maniera politica, ne evidenzia la contiguità ideologica con la produzione poetica gnomica, ne motiva il progetto educativo “di massa” che presiedette alla loro invenzione e istituzione all’interno delle compagnie di fanciulli, e ne giustifica anche l’impiego come strumenti destinati a orientare la pubblica opinione, come nella Rappresentazione di San Giovanni e Paulo del Magnifico, o nei testi savonaroliani di Castellano Castellani, per fare due soli esempi particolarmente significativi.[37]

Oltre a questa funzione civica e propagandistica, la sacra rappresentazione svolse anche un ruolo di continua autocritica e auto-riflessione dei fiorentini su sé stessi e sul proprio sistema politico e sociale, configurandosi non solo come la naturale articolazione della poesia gnomica, ma anche come il terreno fertile per l’elaborazione di un modo aristofaneo di pensare la commedia, anch’esso, non per caso, esperienza peculiarmente fiorentina nel panorama del teatro del Rinascimento.[38] La sperimentazione drammaturgica dei primi testi cinquecenteschi, non vincolata da regole teleologiche ma duttile nel rielaborare ogni spunto compositivo utile alla trasmissione del messaggio, da un lato, sul piano del contenuto, oscillò fra il modello polemico e derisorio di Aristofane e la sentenziosità delle tematiche topiche (Amicizia, Adulazione, Invidia,  Fortuna); dall’altro, su quello della forma, non esitò a muoversi disinvoltamente fra l’ecletticità delle varianti disponibili: dalla sacra rappresentazione – con la prevalenza dell’ottava rima, bilanciata dall’inclinazione polimetrica per la terzina, la ballata, la lauda, la frottola –, alla morfologia della commedia antica, tanto greca quanto latina, fino a contemplare la trasgressione della prosa, certamente maturata dalla dialogicità della novella.[39]

Indipendentemente dai livelli culturali dei loro autori, quello che, anche simbolicamente, accomuna testi strutturalmente così disparati come lirica gnomica, sacra rappresentazione, farsa e commedia è la funzione civica legata al palazzo dei Signori – luogo deputato anche ad altri esercizi di retorica e di eloquenza quali le ambascerie e le orazioni di accoglienza di visitatori illustri o quelle per altre occasioni particolari –, e quella di altri spazi urbani destinati a esibizioni recitative come i cantari e le sacre rappresentazioni, in un continuum del quale, in questo ordine di discorso, mi sembra più importante sottolineare le analogie che le differenze. Tale procedimento aiuta a comprendere meglio i successivi passi di definizione strutturale, letteraria e funzionale del genere commedia in Italia nel suo “professionalizzarsi” sia attraverso le sponsorizzazioni cortigiane (come a Ferrara, Mantova, Urbino, Roma e Padova con il sodalizio Beolco-Cornaro), sia con l’imprenditoria veneziana che inaugurò tanto i primi luoghi di spettacolo a pagamento, quanto il primo e più prolifico mercato di editoria teatrale d’Italia.[40]

Ma a Firenze si vede anche bene come temi gnomici classici quali quello dell’amicizia possano essere stati declinati per decenni, senza soluzione di continuità, costituendo l’oggetto del Certame coronario del 1441,[41] per attraversare gli exempla della sacra rappresentazione,[42] fino ad approdare a una commedia di imitazione classica come l’Amicitia del Nardi.[43] Perciò a Firenze si possono seguire le tracce di un percorso teatrale condotto su un doppio binario: da un lato quello del teatro come forma della comunicazione politica nella città in tutte le sue articolazioni; dall’altro quello del rinnovarsi e del trasformarsi dei diversi generi in un costante scambio reciproco, ma tutti uniti dal comune denominatore della perfomance orale, sia essa poetica, oratoria o drammaturgica.

Di conseguenza, l’insistenza su una precisa contestualizzazione e sul tentativo di datare i testi non risponde all’esigenza di stabilire una teleologica successione (è stata scritta prima la Mandragola o la Cassaria?) o di definire inutili primati, ma, al contrario, alla volontà di individuare l’occasione e il motivo che hanno provocato la “necessità” della produzione di un determinato testo in un determinato momento e con una determinata struttura, per capirne il significato in sé e in relazione ai committenti e ai fruitori. Ad esempio, come ricordavo prima, la Comedia di opinione fra gli dei diede voce alle turbolenze politiche del periodo immediatamente post-savonaroliano o di quello soderiniano? E la forma drammaturgica scelta per esprimerne i contenuti a quale modello retorico e recitativo rispondeva, e perché proprio a quello piuttosto che a un altro? In sostanza, penso che il caso di Firenze possa aiutare a distinguere, meglio che altrove, la varietà e la dinamicità delle strutture recitative utilizzabili prima della fissazione di canoni estetici più vincolati ai generi classici.

Inoltre, il riconoscimento della permeabilità degli ambienti di produzione e di ricezione di testi appartenenti a generi apparentemente disparati, ma accomunati dalla performance orale e dalla funzione civile, può aiutare a superare le fittizie barriere, squisitamente letterarie, che hanno impedito di leggere a tutto tondo, a meno di considerarle come anomalie o stravaganze, l’attività poetica e le matrici culturali di personaggi famosi per produzioni più serie, come, fra tutti, il Machiavelli. Egli, infatti, non solo si dilettava nell’improvvisazione, ma aveva anche iniziato a comporre una sacra rappresentazione, benché, come drammaturgo, sia passato alla storia quasi esclusivamente per le commedie “regolate”:  Mandragola e Clizia.[44] Ma come dimenticare che anche Lorenzo de’ Medici, il poliedrico “signore” – mecenate – politico – letterato, era noto per le sue capacità di cantore alla lira e di improvvisatore?[45]

Certo, l’esemplificazione che porto è tutta fiorentina, e Firenze non può certamente essere considerata la regola nel panorama della storia del Rinascimento ma, caso mai, una vistosa eccezione. Tuttavia la sua “differenza” può, in realtà, aprire nuovi sguardi e nuove prospettive storiografiche,[46] magari rivelando inaspettate somiglianze, sulle relazioni fra “teatro e città”, secondo la via aperta da Ludovico Zorzi,[47] intendendo il teatro come una delle articolazioni più efficaci dei linguaggi politici, di relazione e di propaganda, nel quale i portatori delle tecniche e delle abilità necessarie alla sua realizzazione non erano dei meri esecutori ma dei veri motori e inventori.

Si pensi, a questo proposito, alla complessità di uno spettacolo come la milanese Festa del paradiso del 1490, di Leonardo da Vinci e Bernardo Bellincioni, non a caso due fiorentini “esportati” nella corte di Ludovico il Moro.[48] Di questo evento sono state sottolineate soprattutto l’eccezionalità scenotecnica, dovuta alla perizia del suo ideatore, e la somiglianza dell’apparato con gli ingegni del Brunelleschi per il paradiso della rappresentazione dell’Annunciazione nella chiesa di San Felice in Piazza. L’attenzione prevalentemente rivolta alla “ricostruzione” dell’evento spettacolare milanese ha, però, impedito di comprendere, dandola per scontata, quanto eclettica e disinvolta vi fosse la fusione di generi e di tecniche diversi, come l’adattamento della macchina del cielo a un tema mitologico quale la discesa degli dei dell’Olimpo e l’inserimento di entrambi (impianto scenico “sacro” e azione scenica “profana”) in un’altra occasione topica della cerimonialità del tempo, quella dell’ambasceria, con il suo accompagnamento di danze e costumi esotici e di iperbolica retorica diplomatica.[49]

Proprio la “fabbrilità” del teatro fiorentino del periodo qui considerato, i cui artefici non si preoccupavano di stabilire artificiali gerarchie fra i generi ma li adoperavano e riciclavano indistintamente, piegandoli agli scopi contingenti dell’occasione perfomativa, è uno dei proficui percorsi di indagine che questa particolare esperienza può suggerire di intraprendere nello studio di altre realtà locali, italiane ed europee, con uno sguardo libero da preconcetti e da sterili classificazioni.

 



[1] Ho affrontato ampiamente questo argomento in P. VENTRONE, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento, Firenze, Le Lettere, 2015.

[2] Si possono leggere, nell’ordine, in: F. NERI, Sulle prime commedie fiorentine, in «Rivista teatrale italiana», XIV (1915), pp. 1-14: 7-14; Farsa dell’uomo che si vuol quietare e vivere senza pensieri, a cura di B. CROCE, Firenze, Le Monnier, 1951; F. PINTOR, Un’antica commedia fiorentina, in Miscellanea di studi critici pubblicati in onore di Guido Mazzoni dai suoi discepoli, per cura di A. DELLA TORRE, P.L. RAMBALDI, Firenze, Galileiana, 1907, vol. I, pp. 433-465: 441-465; Farsa in qua dannati sunt iuvenes qui uxorem capiunt libertatem eorum admittentes voluntarie, Firenze, Biblioteca nazionale centrale (da ora in poi BNCF), ms. Magliabechiano VII.76, cc. 26r-35r. Il testo è stato pubblicato, sulla base di questo manoscritto, in Un’antica farsa fiorentina pubblicata da F. Pintor, Firenze, tip. Galileiana, 1901 (nozze Salza-Rolando e Gentile-Nudi); COMMEDIA DELLA IN/gratitudine composta per messer/Giovan batista di Christopha/no Araldo della Excelsa Signo/ria di Firenze./ Glinterlocutori sono questi/ Gualtieri e Camillo suo figluo/lo & Ulivieri ingrato & un Si/gnore con dua cortigiani cioe Iulio & Fabritio & uno Frate/ che conforta Gualtieri a pati/entia come vedrete. [In fine], Finita la Commedia della Ingrati/tudine nuovamente stampata &/ ricorrecta dal proprio auctore/che lha composta ad istantia di/ maestro Francesco di Giovan/ni Benvenuto sta dal can/to de Bischeri addì/ XIII di Gennaio/ MDXXVI. Esemplare conservato alla BNCF, Palatino 2.10.2.13; COMEDIA DI FORTUNA./ Interconuiuio di Fortuna reci/tato in una Cena della com/pagnia del Lauro. Com/posto p[er] Maestro Ia/copo del Bientina/ Cerusico Fio/rentino./[...]. [In fine] fece stampare Bartholomeo di/ Mattheo Castelli. Adì XXVII./ di Gènaio. M.D./XX IIII, in BNCF, Landau Finaly, 537.2. Per una interpretazione politica di questi testi cfr. N.A. DE MARA, Republican reform and the Florentine “Farsa morale”, 1495-1515, «Forum italicum», XIV (1980), pp. 378-408.

[3] A proposito dei quali cfr. C. VALENTI, Comici artigiani. Mestiere e forme dello spettacolo a Siena nella prima metà del Cinquecento, Modena, Panini, 1992; M. PIERI, Lo Strascino da Siena e la sua opera poetica e teatrale, Pisa, ETS, 2010; P. VENTRONE, L’opera dello Strascino, in «Bullettino senese di storia patria», CXVIII (2011), pp. 423-430.

[4] L. ZORZI, Ferrara: il sipario ducale, in ID., Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino, Einaudi, 1977, pp. 3-59; F. CRUCIANI-C. FALLETTI-F. RUFFINI, La sperimentazione a Ferrara negli anni di Ercole I e Ludovico Ariosto, «Teatro e storia», IX (1994), 16, pp. 131-217; F. BORTOLETTI, Egloga e spettacolo nel primo Rinascimento. Da Firenze alle corti, Roma, Bulzoni, 2008 (per uno sguardo d’insieme sulle varie corti italiane, con particolare attenzione per la diffusione del genere recitativo dell’egloga, e per la nutrita e aggiornata bibliografia); L’attore del Parnaso. Profili di attori-musici e drammaturgie d’occasione, a cura di ID., Milano-Udine, Mimesis, 2012 (anch’esso con ampia bibliografia).

[5] P. VENTRONE, Gli araldi della commedia. Teatro a Firenze nel Rinascimento, Ospedaletto (PI), Pacini, 1993, pp. 143-162.

[6] R.C. TREXLER, The “Libro cerimoniale” of the Florentine Republic by Francesco Filarete and Angelo Manfidi, introduction and text, Genève, Droz, 1978; VENTRONE, Gli araldi della commedia, cit., pp. 137-143.

[7] Il testo è pubblicato in M. CATAUDELLA, Jacopo da Bientina e un suo interconvivio, in «Filologia romanza», VII (1960), pp. 143-156: 148-156. Cfr. anche I. INNAMORATI, Due «commedie morali» del primo Cinquecento fiorentino, in «Quaderni di teatro», V (1982), 18, pp. 89-105.

[8] Dello inganno/ della compagnia della cicilia/ composta per maestro Jacopo del Bientina/ araldo della magnifica S.ia di Firenze, BNCF, ms. Magliabechiano VII. 1186, cc. 85-92.

[9] Cfr. I. INNAMORATI, Del Polta, Jacopo, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Società grafica romana, 1990, vol. 38, pp. 243-244.

[10] Cfr. D. WEINSTEIN, Savonarola e Firenze. Profezia e patriottismo nel Rinascimento, Bologna, il Mulino, 1976 (ed. or. Savonarola and Florence. Prophecy and patriotism in the Renaissance, Princeton N.J., Princeton University Press, 1970); e L. POLIZZOTTO, The Elect Nation: The Savonarolan Movement in Florence 1494-1545, Oxford, Clarendon Press, 1994.

[11] Per un confronto fra le repubbliche fiorentina e veneziana, attento alle rispettive e conseguenti differenze cerimoniali, cfr. M. CASINI, I gesti del principe. La festa politica a Firenze e Venezia in età rinascimentale, Venezia, Marsilio, 1996.

[12] Cfr. R. VON ALBERTINI, Firenze dalla repubblica al principato. Storia e coscienza politica, Torino, Einaudi, 1970 (ed. or. Das florentinische Staatsbewußtsein im Übergang von der Republik zum Prinzipat, Bern, Francke Verlag, 1955); H.C. BUTTERS, Governors and Government in Early Sixteenth-Century Florence, 1502-1519, Oxford-New York, Clarendon Press-Oxford University Press, 1985, entrambi ricchi di testimonianze cronachistiche.

[13] Per un aggiornamento, anche documentario, sulle attività di queste compagnie cfr. T. MOZZATI, Giovanfrancesco Rustici, le Compagnie del Paiuolo e della Cazzuola: arte, letteratura, festa nell’età della maniera, Firenze, Olschki, 2008.

[14] Cfr. A. D’ANCONA, Origini del teatro italiano, Torino, Loescher, 18912, vol. II, p. 37.

[15] Alcuni testi di queste orazioni sono riportati in TREXLER, The “Libro cerimoniale”, cit., passim.

[16] R. BESSI, Eugenio IV e Antonio di Matteo di Meglio, in Firenze e il Concilio del 1439. Atti del convegno di studi (Firenze, 29 novembre-2 dicembre 1989), a cura di P. VITI, Firenze, Olschki, 1994, vol. II, pp. 737-750, e ID., Umanesimo volgare. Studi di letteratura fra Tre e Quattrocento, Firenze, Olschki, 2004, pp. 79-101, dove sono pubblicati e commentati i testi dei sonetti.

[17] I testi di questa contesa politico-letteraria sono riportati in A. LANZA, Firenze contro Milano (1390-1440), Anzio, De Rubeis, 1991.

[18] Per l’attività di diffusione della cultura e della propaganda politica svolta da recitanti, canterini e specialisti dell’intrattenimento in varie città italiane cfr. R. SALZBERG-M. ROSPOCHER, Street Singers in Italian Renaissance Urban Culture and Communication, «Cultural and Social History», 9 (2012), Issue 1, pp. 9–26; ID.-R. SALZBERG, «El vulgo zanza»: spazi, pubblici, vocia Venezia durante le guerre d’Italia, «Storica», 48 (2010), pp. 83-120.

[19] Cfr. ANTONIO di MATTEO di MEGLIO, ARALDO-FEO BELCARI, Rappresentazione del dì del Giudicio, in Sacre rappresentazioni dei secoli XIV, XV e XVI, raccolte e illustrate per cura di A. D’ANCONA, Firenze, Le Monnier, 1872, vol. III, pp. 499-523. Ho analizzato questo testo in relazione al messaggio educativo e politico da esso portato in VENTRONE, Teatro civile, cit., pp. 174-183.

[20] Sull’attività drammaturgica dell’Ottonaio cfr. I. INNAMORATI, Dell’Ottonaio, Giovanni Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit., 1990, vol. 38, pp. 94-96.

[21] Come la già citata Comedia di Fortuna (si riveda n. 2).

[22] Si veda in proposito il convincente contributo di L. DEGL'INNOCENTI, Machiavelli canterino, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», in corso di pubblicazione. Ringrazio l’autore per avermene concesso la lettura in fase di elaborazione.

[23] Se ne veda l’edizione critica in N. MACHIAVELLI, Scritti in poesia e in prosa, a cura di A. CORSARO et al., coordinamento di F. BAUSI, Roma, Salerno, 2012, pp. 75-128 e la Nota introduttiva di N. MARCELLI, pp. 67-74.

[24] I primi due testi sono pubblicati in Tre commedie fiorentine del primo ’500, ediz. critica e introd. di L. STEFANI, Ferrara-Roma, Corbo, 1986, rispettivamente pp. 61-108 e 109-150; per la Mandragola rimando all’edizione contenuta in N. MACHIAVELLI, Tutte le opere, a cura di M. MARTELLI, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 868-890.

[25] Le lodi tributate a canterini e recitanti sono frequentemente riportate da F. FLAMINI, La lirica toscana del Rinascimento anteriore ai tempi del Magnifico, Pisa, Nistri, 1891, passim.

[26] Un’ampia esemplificazione di questi testi si trova in FLAMINI, La lirica toscana, cit.; A. LANZA, Polemiche e berte letterarie nella Firenze del primo Quattrocento. Storia e testi, Roma, Bulzoni, 1972; Lirici toscani del ’400, a cura di ID., Roma, Bulzoni, 1973-1975; R. RUINI, Quattrocento fiorentino e dintorni: saggi di letteratura italiana, Firenze, Phasar, 2007. Un riferimento obbligato, per l’edizione filologica e per il commento storico-critico di molte di queste poesie, è il periodico annuale «Interpres: rivista di studi quattrocenteschi fondata da Mario Martelli» che, con i suoi trentuno numeri pubblicati fino a oggi, è stato lo strumento principale della ricomposizione, tessera per tessera, di parte di quel mosaico variegato e ricchissimo costituito dalla letteratura fiorentina di età repubblicana.

[27] Si tratta dei mss. Plut. 41 31 della biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze e Vat. Barb. Lat. 4051 della biblioteca Vaticana.

[28] N. MARCELLI, Eros, politica e religione nel Quattrocento fiorentino. Cinque studi tra poesia e novellistica, Manziana, Vecchiarelli, 2010, pp. 223-250. Il manoscritto è il BNCF, Conventi Soppressi C 1 1588, ivi descritto e illustrato alle pp. 223-233, mentre il testo del capitolo del di Meglio vi è pubblicato alle pp. 234-239.

[29] Ivi, p. 239.

[30] In realtà la disfatta avvenne il 28 luglio 1424.

[31] «nel: erroneo per il attestato nel resto della tradizione»: cfr. ivi, p. 235.

[32] Ibid. Miei i corsivi.

[33] La pressione fiscale avrebbe, infatti, portato, nel 1427, all’istituzione del catasto per introdurre un sistema di tassazione teoricamente più equo in quanto proporzionato ai redditi dei cittadini: su questo argomento cfr. E. CONTI, L’imposta diretta a Firenze nel Quattrocento (1427-1494), Roma, Nella sede dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1984. Una più dettagliata illustrazione della contingenza politica è in MARCELLI, Eros, politica e religione, cit., pp. 240-244.

[34] Questo consiglio, detto anche Pratica, si riuniva per le procedure straordinarie di governo, come, appunto, nei casi di guerra e di introduzione di nuove tasse: cfr. G. GUIDI, Il governo della città-repubblica di Firenze del primo Quattrocento, Firenze, Olschki, 1981, vol. I, pp. 87-91.

[35] Prima di essere intitolato “araldo” l’ufficio ricoperto dal di Meglio era definito “miles curialis, sindicus et referendarius” della Signoria, come sottolineato da TREXLER, The “Libro cerimoniale”, cit., pp. 33-44.

[36] Il «chorale amore», come viene chiamato in un verso successivo: cfr. MARCELLI, Eros, politica e religione, cit., p. 235, v. 25, ma si veda anche l’esortazione alla concordia, alludente alla discendenza dei fiorentini dal glorioso ceppo dei romani, dei vv. 110-114, pp. 237-238: «Per Dio, intendetevi insieme!/ O grorïoso seme / Sceso di pianta tanto eccielsa e chara, / Strignietevi insieme e per suoi asempri apara / Pigliar? [il] buon? [e i’] rio lasciando» (corsivi miei).

[37] Su questo argomento cfr. VENTRONE, Teatro civile, cit., pp. 229-246 e 281-300. I testi delle rappresentazioni in questione si possono leggere in Sacre rappresentazioni, cit. Sulla propaganda politica e la pubblica opinione in questo periodo cfr. M. ROSPOCHER, Propaganda e opinione pubblica: Giulio II nella comunicazione politica europea, in «Annali dell’Istituto Storico Italo-Germanico in Trento», 33 (2007), pp. 59-99, con bibliografia.

[38] Per l’influenza esercitata da Aristofane sulle prime commedie fiorentine cfr. E. RAIMONDI, Machiavelli, Giovio e Aristofane, in ID., Politica e commedia. Dal Beroaldo al Machiavelli, Bologna, il Mulino, 1972, pp. 235-252; DE MARA, Republican reform, cit., pp. 378-408.

[39] Sul rapporto performativo fra novella e commedia cfr. VENTRONE, Gli araldi della commedia, cit., pp. 91-135.

[40] Sull’importanza del mercato tipografico veneziano per l’affermazione del genere commedia cfr. R. GUARINO, Comici, stampe e scritture nel Cinquecento veneziano, in «Quaderni di teatro», VIII (1985), 29, pp. 103-134; L. DEGL'INNOCENTI, I «Reali» dell’Altissimo. Un ciclo di cantari fra oralità e scrittura, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2008, passim; PIERI, Lo Strascino, cit., passim.

[41] Si vedano, in proposito, G. GORNI, Storia del Certame coronario, in «Rinascimento», XII (1972), pp. 135-181, e L. BERTOLINI, De vera amicitia: i testi del primo Certame coronario, Ferrara, Franco Cosimo Panini, 1993.

[42] Sul tema dell’amicizia particolarmente significativa è la Rappresentazione di un miracolo di due pellegrini, in Sacre rappresentazioni, cit., vol. III, pp. 435-464.

[43] J. NARDI, Amicitia, ediz. critica in Tre commedie fiorentine del primo ’500, cit., pp. 15-60.

[44] Sulle doti di improvvisatore del Machiavelli si veda DEGL'INNOCENTI, Machiavelli canterino, cit. Sulla rappresentazione del santo pisano Torpè, della quale esistono solo un’ottava e qualche appunto biografico, cfr. M. MARTELLI, Machiavelli politico amante poeta, in «Interpres», XVII (1998), pp. 211-256: 211-225.

[45] Sulle competenze e i gusti musicali del Magnifico cfr. F.A. D’ACCONE, Lorenzo the Magnificent and Music, in Lorenzo il Magnifico e il suo mondo. Atti del convegno internazionale di studi (Firenze, 9-13 giugno 1992), a cura di G.C. GARFAGNINI, Firenze, Olschki, 1994, pp. 259-290: 271-278.

[46] Come sottolineavano Fabrizio Cruciani e Ferdinando Taviani: Discorso preliminare per una ricerca in collaborazione, in Il teatro dei Medici, a cura di L. ZORZI, numero monografico di «Quaderni di teatro», II (1980), 7, pp. 31-66. Ora parzialmente ristampato, con l’originario titolo L’indice fiorentino, in Teatro e culture della rappresentazione. Lo spettacolo in Italia nel Quattrocento, a cura di R. GUARINO, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 339-368.

[47] ZORZI, Il teatro e la città, cit.

[48] Data la vastità della bibliografia leonardesca sull’argomento, mi limito a rimandare a K. TRAUMANN STEINITZ, Leonardo architetto teatrale e organizzatore di feste, (lettura tenuta il 15 aprile 1969), in «Letture vinciane I-XII», 1974, pp. 249-274; C. PEDRETTI, Leonardo Architetto, Milano, Electa, 1978, pp. 290-294; M. ANGIOLILLO, Leonardo feste e teatri, Napoli, Società editrice napoletana, 1979, con ampi riferimenti alla bibliografia erudita otto-novecentesca; Leonardo e gli spettacoli del suo tempo, catalogo della mostra a cura di M. MAZZOCCHI DOGLIO et al. (Milano, 2 luglio–16 ottobre 1983), Milano, Electa, 1983, in partic. M. DOGLIO, Leonardo “apparatore” di spettacoli a Milano per la corte degli Sforza, pp. 41-76.

[49] Su questo aspetto dello spettacolo cfr. P. VENTRONE, Modelli ideologici e culturali nel teatro milanese di età viscontea e sforzesca, in «Studia Borromaica», 27 (2013), pp. 247-282, con bibliografia degli studi precedenti.



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