Pubblichiamo la relazione tenuta da Paola Ventrone al convegno internazionale di studi “Firenze e la nuova storia del teatro” organizzato dalle Università di Firenze, Pisa e Siena, Dottorato di ricerca interuniversitario “Pegaso” in Storia delle Arti e in Storia dello Spettacolo, in collaborazione con la fondazione Teatro della Toscana (Firenze, Teatro della Pergola, 23-24 aprile 2015). A Firenze, fra Quattro e primo Cinquecento, le élites di governo elaborarono un uso particolare della recitazione, funzionale alle necessità della comunicazione politica di una città il cui regime repubblicano rendeva estremamente fluide le alleanze fra le fazioni e determinava una costante attenzione per lorientamento della pubblica opinione. Fin dallistituzionalizzazione di forme festive e cerimoniali, avvenuta nel periodo di egemonia della famiglia Albizzi (1382-1434) e poi perfezionata durante il regime mediceo, le figure dellaraldo della Signoria e di altri intrattenitori pubblici ebbero un ruolo centrale sia nellimpostazione di una recitazione civile, legata soprattutto a componimenti poetici di natura gnomica, morale e sentenziosa, sia nellelaborazione della sacra rappresentazione come genere drammaturgico inizialmente concepito per leducazione “di massa” dei fanciulli fiorentini riuniti in confraternite, fondate appositamente per il loro indottrinamento civile e religioso, e ben presto esteso alla condivisione con il resto della popolazione. Luso del teatro come strumento della comunicazione politica a sostegno dellideologia repubblicana non venne meno neppure dopo la cacciata dei Medici nel 1494, lesecuzione di Girolamo Savonarola, nel 1498, il gonfalonierato a vita di Piero Soderini (che vide anche lapice della carriera politica del Machiavelli) e il rientro dei Medici nel 1512, fino alla fine della seconda repubblica nel 1530, cui seguì linstaurazione del principato, venendo a declinarsi, in questi anni, anche nella elaborazione di farse e di commedie morali. Fra queste opere vi sono le anonime Comedia di opinione fra gli dei, Farsa delluomo che si vuol quietare e vivere senza pensieri, Conmedia di adulatione, Farsa in qua dannati sunt iuvenes, o i testi degli araldi quali la Commedia della Ingratitudine, di Giovanbattista di Cristofano dellOttonaio, e la Comedia di Fortuna, di Jacopo del Polta, detto Bientina, per ricordarne solo alcuni. Questi componimenti sono di grande interesse per varie ragioni. In primo luogo, per la loro anomalia tematica e strutturale sia rispetto alla moda delle egloghe, dei drammi mitologici, dei volgarizzamenti e delle riscritture di testi classici, delle “drammaturgie di attori” (e penso in particolare allo Strascino e ai suoi compagni senesi trapiantati a Roma), sia nei confronti della commedia erudita di imitazione plautina e terenziana, che proprio nel primo decennio del 500 si andava irradiando, soprattutto dalla Ferrara di Ercole I dEste, ad altre corti della Penisola. In secondo luogo, per il comune denominatore del loro essere, per la maggior parte, apertamente opera di specialisti dellintrattenimento, quali gli araldi e i cosiddetti “uomini faceti” (definizione tutta fiorentina e derivata dalla novellistica), che mi indusse, in un precedente lavoro, a cercare nelle testimonianze scritte di quei componimenti tracce della mentalità orale e delle tecniche di recitazione che presiedevano alla loro creazione ed esecuzione prima della loro sedimentazione nella scrittura. Infine, per la peculiarità, anchessa tutta fiorentina, delle tematiche rappresentate e dei loro modi e contesti performativi, legati tanto allassociazionismo cittadino di brigate e confraternite, quanto agli ambienti istituzionali del palazzo dei Signori. Agli araldi si devono, dunque, molti dei testi qui considerati. Essi erano attori con mansioni più “ufficiali” degli altri recitanti perché erano incaricati di rappresentare il governo repubblicano nelle ambascerie e nelle cerimonie ufficiali in città e allestero, di esibirsi in occasione delle feste e dei banchetti organizzati dalla Signoria, di fornire prestazioni “di routine”, quali il canto di capitoli e sonetti morali, durante i pasti quotidiani dei magistrati e in qualsiasi altro momento fosse loro ordinato. Le abilità richieste per la copertura di questo ufficio erano di carattere letterario e performativo: i candidati dovevano essere in grado da un lato di approntare versi di occasione su svariati argomenti di carattere morale, storico, attuale, gnomico, encomiastico, attingendo con rapidità e prontezza a un non modesto bagaglio di conoscenze personali; dallaltro di recitare e cantare componimenti o già confezionati o “improvvisati”, dimostrando la perfetta padronanza tecnica delluso della voce – nelle sue diverse articolazioni ed inflessioni come nella chiarezza e correttezza della dizione – e di quello della memoria. Le competenze indispensabili per lesercizio di questo ufficio non erano, a quel tempo, molto comuni, non solo perché presupponevano la conoscenza di specifiche tecniche di composizione poetica e di espressione mimica, ma anche perché esigevano una particolare perizia nelluso della parola e della voce. La padronanza della parola era, infatti, il frutto di una conquista culturale rilevante anche per la determinazione dello status sociale di chi ne era in possesso, perciò la scelta di recitanti che svolgessero le mansioni di intrattenimento e di rappresentanza previste dallufficio dellaraldo, dettata dalla difficoltà di reperire altri individui in possesso delle abilità necessarie, comportò anche una loro promozione sociale. I testi poetici e drammatici composti da questi specialisti dellintrattenimento talvolta non sono di immediata comprensibilità, in quanto legati a situazioni contingenti molto precise delle quali non sempre è possibile ricostruire i contorni. È il caso dellinterconvivio Dello Inganno di Jacopo del Polta detto Bientina, la cui datazione e interpretazione rimangono incerte. Fu scritto per cercare di ricomporre una controversia giudiziaria fra la confraternita fiesolana di Santa Cecilia e il contiguo convento francescano presso il quale essa aveva sede, e potrebbe essere collocabile in un periodo successivo al 1527, perché il manoscritto che lo conserva qualifica lautore come araldo della Signoria, carica che ricoprì da quellanno fino alla morte avvenuta nel 1539. Se si accetta questa datazione, però, rimangono da spiegare le motivazioni che indussero il Bientina a scegliere, in unetà ormai dominata dalla commedia regolare, una struttura drammaturgica ibrida e caratterizzata, più che da veri e propri dialoghi, quasi da una successione di monologhi in terza rima, la cui “irregolarità” (ossia il non rispetto delle regole classiche di composizione della commedia quali quelle indicate da Orazio nellArs poetica) è ulteriormente sottolineata dallintitolazione di Interconvivio, che sembrerebbe volerne indicare la circostanza performativa durante un pasto dei monaci forse uniti ai confratelli della Cecilia. Non è un problema di poco conto, questo, perché costringe a riflettere sul rapporto tra la scelta della forma dei testi recitativi in rapporto alla loro funzione nella cultura della comunicazione. Anche lanonima Comedia di opinione fra li dei, a dispetto del titolo, presenta una struttura irregolare, molto più vicina a quelle della sacra rappresentazione e del contrasto, sia per luso dellottava rima, sia per lalternanza dialogica dei diversi personaggi chiamati a esprimere il proprio parere sul miglior modo di reggere una città. Quanto alla datazione, il testo potrebbe dar voce tanto alla scontentezza dei fiorentini negli anni appena successivi al rogo del Savonarola – quando la situazione politica generale, unitamente alle rivalità di fazione interne alloligarchia, rendevano la città di fatto ingovernabile –, quanto allanaloga insoddisfazione quasi immediatamente subentrata alla sofferta elezione del Gonfaloniere a vita. In questultimo caso si trattava di una sperimentazione politica nella quale il nuovo sistema di governo, pur conservando il carattere elettivo delle cariche tipico della repubblica fiorentina, copiava il modello del dogado veneziano per lincarico vitalizio conferito al Gonfaloniere di giustizia, massimo esponente della Signoria. Sebbene fosse stata scelta nella speranza di dare stabilità al reggimento cittadino, questa soluzione si era ben presto rivelata poco efficace, soprattutto per lincapacità del Soderini ad amministrare la giustizia e a mantenere una linea politica rigorosa e coerente con il supporto dei consigli cittadini. Egli preferiva, infatti, agire di proprio arbitrio, cercando di non scontentare né gli ottimati né il popolo, e sortendo così il risultato opposto, come si legge nei vividi resoconti dei cronisti dellepoca. Pur consapevole che lanalisi puntuale di questi testi potrebbe essere di grande interesse per far luce sulla loro funzione nei meccanismi della comunicazione politica del Rinascimento, in questa sede ho preferito cercare di elaborare alcune riflessioni che, prendendo spunto dalleccezionalità della situazione fiorentina, possano sollevare nuovi interrogativi e sollecitare nuovi indirizzi di ricerca anche per città e contesti differenti, italiani ed europei. Le commedie e le farse fiorentine, unitamente alle loro tecniche e occasioni performative, non sono, infatti, interessanti solo nel ristretto ambito della storia locale, benché siano ad essa intrinsecamente legate visto che solo una loro capillare contestualizzazione ne può chiarire i significati, ma possono aiutare a capire alcuni meccanismi di base della comunicazione politica, esercitata attraverso le pratiche della performance orale e/o teatrale, in maniera più limpidamente ricostruibile che altrove. La concatenazione dei generi recitativi fiorentini, prima dellavvento del principato, si può, in linea di massima, così tracciare: il fondamento della tradizione di questa drammaturgia è la letteratura gnomica, morale, politica, declamata sia ufficialmente (dagli araldi, ma anche dai vari funzionari chiamati a presentare discorsi in pubbliche occorrenze), sia in occasioni private (adunate di brigata, circoli di amici, le compagnie di piacere proto-cinquecentesche), ma probabilmente anche nei canti delle strade dove, come ricorda don Vincenzio Borghini (un erudito al servizio del duca Cosimo I de Medici), i due buontemponi Nanni Cieco e Giovanbattista di Cristofano dellOttonaio intrecciavano dispute animate fermando i passanti. Questo tipo di poesia elaborava temi civili e governativi, affini a quelli di molte orazioni cancelleresche pronunciate per le visite degli ospiti illustri, ma era anche spesso generato dallattualità più immediata, come i sonetti dellaraldo Antonio di Matteo di Meglio diretti a papa Eugenio IV in occasione del concilio del 1439, o le invettive sorte dalla guerra fra Firenze e Milano (degli anni 1390-1402, contro Gian Galeazzo Visconti, e 1423-1440 contro il nuovo duca Filippo Maria). Queste ultime, in particolare, se dalla parte fiorentina furono prodotte tanto da intellettuali e politici, quanto da normali cittadini, canterini e araldi della Signoria, dalla parte milanese furono opera solo di pochi umanisti di corte, a testimonianza di quanto la composizione e la recitazione in versi fosse radicata nel sistema della comunicazione politica fiorentina a molti e diversi livelli sociali e culturali. Questi temi, a Firenze, passarono direttamente anche alla drammaturgia più strutturata come la sacra rappresentazione, la farsa e la commedia, per il tramite degli stessi araldi, come il di Meglio, autore della Rappresentazione del dì del giudicio del 1448 circa, la più antica nota, fino allOttonaio, cimentatosi con tutti i tre generi nei primi decenni del Cinquecento. Chiave di volta per linterpretazione di questi testi è proprio la centralità delluso politico della recitazione, una recitazione che non esito a definire “civile”, per una città come Firenze, nella quale la vivacità delle dinamiche sociali, la rissosità fra i partiti, la necessità di articolare la propaganda, il rapido alternarsi della fortuna (non a caso tema ricorrente in diversi testi recitativi) nelle sorti delle famiglie di più antica o recente aristocrazia, e certamente anche altri fattori ancora da sondare ma riconducibili alla concretezza della situazione storica contingente, contribuirono a moltiplicare non solo la creazione di specializzazioni legate alle abilità degli intrattenitori, ma anche le loro forme espressive in termini letterari, con la conseguenza che le farse e le commedie del primo Cinquecento si configurano più come nuove e aggiornate morfologie delle canzoni morali diffuse fin dai tempi di Dante (seppure, nel contempo, permeabili alle istanze della cultura classicistica ormai ben radicata in città), che come un totale ripensamento delle stesse sul piano politico e funzionale. Perfino Niccolò Machiavelli coltivò doti di improvvisatore riconosciutegli dai contemporanei, e i suoi Capitoli affrontano, non a caso, i temi tradizionali della poesia gnomica (la Fortuna, lIngratitudine, lAmbizione), contribuendo a far emergere uninterrelazione fra le strutture logiche del pensiero orale e le condizioni performative del discorso politico-morale, nelle diverse forme della letteratura recitativa fin qui elencate, non estranee neppure alla composizione di commedie encomiastiche e più accuratamente “regolate” in senso classico quali i Due felici rivali di Jacopo Nardi, la Iustitia di Eufrosino Bonini e la Mandragola stessa. Daltro canto, in una società, pur notevolmente alfabetizzata come quella fiorentina, in cui la maggior parte della comunicazione politica e religiosa passava attraverso loralità, cioè attraverso labilità tecnica di leggere o di memorizzare e declamare un messaggio – fosse esso legge, bando, orazione, canzone o quantaltro –, e attraverso la capacità di esprimerlo in una forma retorica corretta e comprensibile allascolto, è scontato che il riconoscimento di queste doti in chi le deteneva ed esercitava non potesse che essere di primaria importanza e oggetto di attenzione e di valutazione da parte dei concittadini, come dimostrano i frequentissimi attestati di apprezzamento equamente distribuiti a ogni livello culturale: dal più dozzinale cantimpanca, ai canterini intimi di palazzo Medici, come Michele del Giogante o Antonio di Guido, fino agli umanisti più colti quali un Landino o un Ficino. Da quanto esposto finora si delinea la parabola della “recitazione civile” fiorentina, che si può far risalire, nelle sue manifestazioni ufficiali, alla produzione gnomica di canterini, banditori e araldi della Signoria, composta da una selva di canzoni, frottole, sonetti, sirventesi, in certi casi ancora in attesa di essere adeguatamente pubblicati e decrittati. Ricordo, per tutti, il capitolo quaternario di Antonio di Matteo di Meglio Eccelsa patria mia, però che amore, perché è un esempio unico di oratoria politica, trasferita in una prestazione attorica, del quale è possibile seguire il processo di rielaborazione dalla evenemenzialità delloccasione recitativa fino alla “messa in pagina” per la sua conservazione manoscritta. Di questo testo si conoscono tre testimoni, due dei quali ne riportano la stesura riveduta e limata per la circolazione cartacea, mentre il terzo ne conserva loriginaria versione recitata, come ha convincentemente suggerito Nicoletta Marcelli, cui si deve la scoperta del codice e ledizione del sirventese in questione. Questo manoscritto, a differenza dagli altri due, è introdotto da una «lunga didascalia, che sconfina quasi nel territorio della prosa proemiale, trascritta dal copista prima del testo poetico vero e proprio». Essa descrive la circostanza e le motivazioni che indussero lAraldo a comporre questi versi, perciò vale la pena leggerla per intero, insieme alle prime quartine: Ebbono e Fiorentini una rotta da Filippo Maria, ducha di Milano, nellanno 1423 a Zagonara, volendo socchorere il traditore chonte Alberigho, il quale aveva preso soldo dai Fiorentini e finse essere istato asediato dallesercito del ducha di Milano: fecie uno trattato doppio ed era chonfederato chol detto ducha. Andandovi e Fiorentini co lloro esercito, egli uscí fuori insieme co lle gienti del ducha e perchossono e Fiorentini. Avenne che lle gienti del ducha di Milano facievano grandi aquisti in Romagnia di nostri luoghi e terre. Era in quello tenpo in Firenze grande isbigotimento e grande ischompiglio per chi voleva porre gravezze [scil.: introdurre nuove tasse] a uno modo e chi a uno altro: questa contenzione facieva il Chomune abandonare, perché molti cittadini richiesti, cho·lla Signoria raunati, non si achordavano, e chosí bastò piú giorni in Firenze; il perché messer Antonio, Referendario de nostri Signori, fecie questo seghuente chapitolo in quadernario e nel Chonsiglio de detti richiesti lo disse, per che, chome piaque a Iddio, subito sachordorono e presono partito che poi per lla grazia di Dio fu buono, e disse cosí: Eccielsa patria mia, però che amore
Di te mincrescie tanto
Che non potrei dir quanto,
Sfogar? parlando mi chonvien? nel chore,
Sì pieno dansi<e>tà e di dolore
Per lle<n>fortuni tuoi,
Che non so qual? me[glio] annoi
O vivere o morir? chon chotal? pena:
La qual? se forse oltre a dover? mi mena
A dimostrammi aldacie
Per parllare effichacie,
Mi schusi laffezion?, chagion? del duolo. Loccasione della performance del di Meglio fu, dunque, il «grande isbigotimento e grande ischompiglio» provocato nella cittadinanza dalla rotta di Zagonara. In questa cruciale battaglia lesercito fiorentino, guidato dal comandante generale Carlo Malatesta, era stato sbaragliato da quello di Filippo Maria Visconti, anche a causa del tradimento del capitano Alberigo da Barbiano, e aveva costituito una sconfitta pesante per la politica estera del “reggimento”, capeggiato da Rinaldo degli Albizzi, che aveva richiesto alla popolazione ingenti sforzi economici per sostenere la guerra. La didascalia proemiale allude proprio a questi antefatti e allincapacità dei membri della Signoria e del Consiglio dei Richiesti di trovare un accordo sulla necessità di introdurre nuove tasse per fronteggiare la situazione. Per questa ragione il Referendario dei Signori aveva deciso di intervenire per convincere i governanti a perseguire lamore per la patria e per il bene comune, senza timore di spingersi oltre il suo dovere istituzionale usando “parole troppo audaci, purché il suo parlare risultasse più efficace”. Sul piano dellintreccio fra prestazione attorica e comunicazione politica questa testimonianza mi appare eccezionale perché mostra tanto le intenzioni dellautore del testo, quanto la sua ricezione da parte del trascrittore e il suo effetto sui destinatari. Nel primo caso, infatti, il di Meglio si mostra consapevole che lefficacia della propria esortazione, pronunciata durante una riunione della Pratica dedicata a queste delicate questioni, sarebbe dipesa dallenfasi della sua abilità oratoria; nel secondo, il copista del manoscritto non esitava a riconoscere proprio alla potenza persuasiva di quella recita il merito di aver convinto i consiglieri a ritrovare una serena sintonia nel prendere le decisioni migliori per la città. Anche la sacra rappresentazione, intesa come teatro civile, costituì una nuova elaborazione morfologica, declinata in termini drammaturgici, della funzione didascalica della poesia gnomica, unita al messaggio religioso e morale della predicazione, in questo caso rivolta alleducazione prima dei fanciulli, poi dei cittadini tutti. Non a caso nella sua invenzione e produzione furono sempre coinvolti gli araldi come creatori e innovatori del genere, a partire dal di Meglio fino allOttonaio, ma chissà quanti testi anonimi potrebbero essere ricondotti allautografia di compositori direttamente implicati nella sfera dellintrattenimento. La duplice natura, politica e religiosa, delle sacre rappresentazioni, o meglio, i loro soggetti religiosi e morali molto spesso trattati in maniera politica, ne evidenzia la contiguità ideologica con la produzione poetica gnomica, ne motiva il progetto educativo “di massa” che presiedette alla loro invenzione e istituzione allinterno delle compagnie di fanciulli, e ne giustifica anche limpiego come strumenti destinati a orientare la pubblica opinione, come nella Rappresentazione di San Giovanni e Paulo del Magnifico, o nei testi savonaroliani di Castellano Castellani, per fare due soli esempi particolarmente significativi. Oltre a questa funzione civica e propagandistica, la sacra rappresentazione svolse anche un ruolo di continua autocritica e auto-riflessione dei fiorentini su sé stessi e sul proprio sistema politico e sociale, configurandosi non solo come la naturale articolazione della poesia gnomica, ma anche come il terreno fertile per lelaborazione di un modo aristofaneo di pensare la commedia, anchesso, non per caso, esperienza peculiarmente fiorentina nel panorama del teatro del Rinascimento. La sperimentazione drammaturgica dei primi testi cinquecenteschi, non vincolata da regole teleologiche ma duttile nel rielaborare ogni spunto compositivo utile alla trasmissione del messaggio, da un lato, sul piano del contenuto, oscillò fra il modello polemico e derisorio di Aristofane e la sentenziosità delle tematiche topiche (Amicizia, Adulazione, Invidia, Fortuna); dallaltro, su quello della forma, non esitò a muoversi disinvoltamente fra lecletticità delle varianti disponibili: dalla sacra rappresentazione – con la prevalenza dellottava rima, bilanciata dallinclinazione polimetrica per la terzina, la ballata, la lauda, la frottola –, alla morfologia della commedia antica, tanto greca quanto latina, fino a contemplare la trasgressione della prosa, certamente maturata dalla dialogicità della novella. Indipendentemente dai livelli culturali dei loro autori, quello che, anche simbolicamente, accomuna testi strutturalmente così disparati come lirica gnomica, sacra rappresentazione, farsa e commedia è la funzione civica legata al palazzo dei Signori – luogo deputato anche ad altri esercizi di retorica e di eloquenza quali le ambascerie e le orazioni di accoglienza di visitatori illustri o quelle per altre occasioni particolari –, e quella di altri spazi urbani destinati a esibizioni recitative come i cantari e le sacre rappresentazioni, in un continuum del quale, in questo ordine di discorso, mi sembra più importante sottolineare le analogie che le differenze. Tale procedimento aiuta a comprendere meglio i successivi passi di definizione strutturale, letteraria e funzionale del genere commedia in Italia nel suo “professionalizzarsi” sia attraverso le sponsorizzazioni cortigiane (come a Ferrara, Mantova, Urbino, Roma e Padova con il sodalizio Beolco-Cornaro), sia con limprenditoria veneziana che inaugurò tanto i primi luoghi di spettacolo a pagamento, quanto il primo e più prolifico mercato di editoria teatrale dItalia. Ma a Firenze si vede anche bene come temi gnomici classici quali quello dellamicizia possano essere stati declinati per decenni, senza soluzione di continuità, costituendo loggetto del Certame coronario del 1441, per attraversare gli exempla della sacra rappresentazione, fino ad approdare a una commedia di imitazione classica come lAmicitia del Nardi. Perciò a Firenze si possono seguire le tracce di un percorso teatrale condotto su un doppio binario: da un lato quello del teatro come forma della comunicazione politica nella città in tutte le sue articolazioni; dallaltro quello del rinnovarsi e del trasformarsi dei diversi generi in un costante scambio reciproco, ma tutti uniti dal comune denominatore della perfomance orale, sia essa poetica, oratoria o drammaturgica. Di conseguenza, linsistenza su una precisa contestualizzazione e sul tentativo di datare i testi non risponde allesigenza di stabilire una teleologica successione (è stata scritta prima la Mandragola o la Cassaria?) o di definire inutili primati, ma, al contrario, alla volontà di individuare loccasione e il motivo che hanno provocato la “necessità” della produzione di un determinato testo in un determinato momento e con una determinata struttura, per capirne il significato in sé e in relazione ai committenti e ai fruitori. Ad esempio, come ricordavo prima, la Comedia di opinione fra gli dei diede voce alle turbolenze politiche del periodo immediatamente post-savonaroliano o di quello soderiniano? E la forma drammaturgica scelta per esprimerne i contenuti a quale modello retorico e recitativo rispondeva, e perché proprio a quello piuttosto che a un altro? In sostanza, penso che il caso di Firenze possa aiutare a distinguere, meglio che altrove, la varietà e la dinamicità delle strutture recitative utilizzabili prima della fissazione di canoni estetici più vincolati ai generi classici. Inoltre, il riconoscimento della permeabilità degli ambienti di produzione e di ricezione di testi appartenenti a generi apparentemente disparati, ma accomunati dalla performance orale e dalla funzione civile, può aiutare a superare le fittizie barriere, squisitamente letterarie, che hanno impedito di leggere a tutto tondo, a meno di considerarle come anomalie o stravaganze, lattività poetica e le matrici culturali di personaggi famosi per produzioni più serie, come, fra tutti, il Machiavelli. Egli, infatti, non solo si dilettava nellimprovvisazione, ma aveva anche iniziato a comporre una sacra rappresentazione, benché, come drammaturgo, sia passato alla storia quasi esclusivamente per le commedie “regolate”: Mandragola e Clizia. Ma come dimenticare che anche Lorenzo de Medici, il poliedrico “signore” – mecenate – politico – letterato, era noto per le sue capacità di cantore alla lira e di improvvisatore? Certo, lesemplificazione che porto è tutta fiorentina, e Firenze non può certamente essere considerata la regola nel panorama della storia del Rinascimento ma, caso mai, una vistosa eccezione. Tuttavia la sua “differenza” può, in realtà, aprire nuovi sguardi e nuove prospettive storiografiche, magari rivelando inaspettate somiglianze, sulle relazioni fra “teatro e città”, secondo la via aperta da Ludovico Zorzi, intendendo il teatro come una delle articolazioni più efficaci dei linguaggi politici, di relazione e di propaganda, nel quale i portatori delle tecniche e delle abilità necessarie alla sua realizzazione non erano dei meri esecutori ma dei veri motori e inventori. Si pensi, a questo proposito, alla complessità di uno spettacolo come la milanese Festa del paradiso del 1490, di Leonardo da Vinci e Bernardo Bellincioni, non a caso due fiorentini “esportati” nella corte di Ludovico il Moro. Di questo evento sono state sottolineate soprattutto leccezionalità scenotecnica, dovuta alla perizia del suo ideatore, e la somiglianza dellapparato con gli ingegni del Brunelleschi per il paradiso della rappresentazione dellAnnunciazione nella chiesa di San Felice in Piazza. Lattenzione prevalentemente rivolta alla “ricostruzione” dellevento spettacolare milanese ha, però, impedito di comprendere, dandola per scontata, quanto eclettica e disinvolta vi fosse la fusione di generi e di tecniche diversi, come ladattamento della macchina del cielo a un tema mitologico quale la discesa degli dei dellOlimpo e linserimento di entrambi (impianto scenico “sacro” e azione scenica “profana”) in unaltra occasione topica della cerimonialità del tempo, quella dellambasceria, con il suo accompagnamento di danze e costumi esotici e di iperbolica retorica diplomatica. Proprio la “fabbrilità” del teatro fiorentino del periodo qui considerato, i cui artefici non si preoccupavano di stabilire artificiali gerarchie fra i generi ma li adoperavano e riciclavano indistintamente, piegandoli agli scopi contingenti delloccasione perfomativa, è uno dei proficui percorsi di indagine che questa particolare esperienza può suggerire di intraprendere nello studio di altre realtà locali, italiane ed europee, con uno sguardo libero da preconcetti e da sterili classificazioni.
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