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Tiziana Iannuzzi

Per un teatro etico e civile: la Napoli sofferente e combattiva di Enzo Moscato

Data di pubblicazione su web 02/03/2015
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Silenzio e buio. Mancanza; di suoni, di luci, di voci: è così che si apre la pièce teatrale di Napoli '43, andata in scena per la prima volta al Teatro Nuovo di Napoli il 28 settembre 2013, in occasione del settantesimo anniversario delle quattro giornate partenopee[1]. L’assenza sembra dominare il palco, completamente oscurato, percorso dall’occhio indagatore dello spettatore che cerca, instancabile e frenetico, di scorgere qualche profilo scenografico o una sagoma di attore. Nulla. Una canzone, proveniente dal fondo e intonata a cappella, in dialetto, si insinua nelle orecchie del pubblico prima che pochi brandelli di luce illuminino il palco; e così da subito emerge la forte natura canora e popolare della città protagonista dell’opera di Moscato.

Napoli ’43 è, dunque, uno degli ultimi lavori di Enzo Moscato e lo si può inserire in un ambito che ha già in precedenza interessato il drammaturgo partenopeo: la storia. Questa, infatti, lo ha da sempre appassionato e lo ha portato a scrivere altri testi, anteriori a Napoli ’43, quali Sull’ordine e disordine dell’ex macello pubblico,che prende le mosse dalla rivoluzione napoletana del 1799, o Luparella, nel cui sfondo compare la violenza nazista, o ancora Kinder – Traum Seminar (“Seminario sui sogni dei bambini”), sul dramma dell’Olocausto. 

In questi pochi istanti è già condensato e preannunciato il messaggio finale, basato, come al solito, nel teatro di questo drammaturgo partenopeo, su un’ossimoria, che qui diventa perfino aporia ineliminabile. Il folclore, il chiasso dei vicoli, la continua e sfrenata partecipazione alle vicende umane e cittadine che caratterizzano la realtà di Napoli – peraltro ben rappresentante successivamente scena – mal si conciliano con un attuale, sempre più dilagante silenzio che nasce dall’indifferenza verso il passato, verso la nostra storia precedente e contemporanea, un mutismo disumano alimentato dall’oblio e dall’imperturbabilità che ormai sembrano aver plasmato l’oggi. 

Nel desiderio di un recupero effettivo e concreto di qualcosa che ci è, seppur indirettamente, appartenuto, che ci ha resi quello che siamo e si è impresso nella nostra storia temporale, personale e culturale si pone la scelta di Moscato di mettere in scena un testo come Napoli '43. Questa scrittura quindi, come afferma l’autore, 

nasce innanzitutto come un atto civico perché ho sentito il dovere, a settant’anni da quell’evento, di ricordare la prima città del mondo che si è liberata dai nazisti senza l’aiuto degli Alleati. Per me è stata una possibilità di reagire, di portare in scena le mie conoscenze, i miei studi e il sapere che avevo accumulato negli anni e di narrarlo con un piglio plebeo, evidente nello spettacolo, perché io mi sento molto figlio di quel popolo lì[2].

Napoli '43, infatti, fa rivivere, attraverso le storie individuali interpretate da venticinque attori, la ribellione partenopea che avvenne in quelle che ormai sono diventate note come le quattro giornate di Napoli. Un evento storico dunque, ma che, nella messa in scena moscatiana, di canonico non ha nulla. Dimentichiamo i libri su cui abbiamo studiato così dettagliatamente le date, i luoghi, gli appellativi di chi ha influenzato il corso politico degli eventi. Nella Napoli oppressa, sporca, bellicosa e castigata di Moscato non ci sono grandi nomi, quelli conosciuti, gli unici che sembra abbiano diritto di essere ricordati, ripetuti a memoria, a mo’ di cantilena, per nascondere una sommaria e troppo spesso superficiale conoscenza del nostro passato; non c’è una cronologia degli episodi, non gli antefatti, non le conseguenze, ma solo la vera, bruciante, istantanea vita di quegli ultimi giorni settembrini, nella volontà di approfondire e di penetrare e imprimere nell’animo, oltre che nelle menti, la nostra storia.

Perciò in questa Napoli vivono gli eroi comuni, il popolo, i ragazzini che incautamente imbracciano le armi, gli scugnizzi che, seppur non addestrati a usare un fucile o una bomba a mano, si rendono parte attiva degli scontri per osteggiare la presenza delle forze militari tedesche nella loro città. Non è solo incoscienza adolescenziale, non può esserlo, con una così alta probabilità di perdere la vita. Napoli, tutta, è stanca, mortificata, piegata, ma rabbiosa. È questo, si sa, l’iter comune alla nascita delle ribellioni, il più delle volte; eppure, nel caso delle famose quattro giornate, la rabbia, unita al coraggio e a una strenua azione, non si spense e riuscì in un obiettivo forse inizialmente solo sperato: la liberazione dall’oppressione nazista. E la specificità di questa insurrezione sta, oltre che nelle dinamiche concrete e sociali, nel merito indiscusso che ebbe la città, prima tra tutte quelle italiane, nella cacciata delle truppe tedesche.

Legato, come gran parte dei napoletani, da un rapporto antitetico e viscerale alla sua Napoli, Moscato non chiude gli occhi davanti alle brutture e alle storture, che porta palesemente in scena in molte delle sue opere, ma, allo stesso tempo, si scaglia contro l’attestazione di un cliché storico che le nega il riconoscimento di primati positivi. La lettura dei fatti avviene non in maniera superficiale e scontata ma tramite un punto di vista diverso e non deformante o necessariamente modellato su interessi politici. La volontà di riscattare i meriti conquistati dal popolo partenopeo non si deve però leggere come un incondizionato e unilaterale impulso d’amore o di orgoglio verso la propria gente; il teatro di Moscato è molto di più e non si fa conquistare dai facili sentimentalismi. 

Lo si capisce durante l’ora e mezza della rappresentazione e ancor più chiaramente nella chiusa che Antonio Casagrande recita a fine spettacolo, ricordando con grande amarezza la sconfitta intellettuale e culturale dei napoletani all’entrata degli Alleati in città e il relativo «depotenziamento di quella straordinaria energia trasformativa»[3]. Ma l’accusa che viene rivolta a quel popolo, allora così incosciente e sfinito, diventa attuale, si generalizza e trova una corrispondenza attraversando gli anni, le epoche, per giungere fino ai giorni nostri, caratterizzati da un appiattimento culturale, sentimentale e intellettivo, certamente ancor meno giustificabile.

È con l’intento di scuotere gli animi e le menti troppo spesso intorpidite che si misura l’opera di Moscato, tutta. Il teatro diventa un mezzo per allontanare l’uomo dall’alienante, caotica e banale esistenza e per ridestare in lui la voglia di esprimere il proprio pensiero, il proprio essere, la propria libertà: in un’intervista rilasciata ad Anna Barsotti, il drammaturgo ha infatti dichiarato, non nascondendo preoccupazione per le sorti che vive il teatro nella contemporaneità, che

la bellezza del teatro, rispetto alla tv o al cinema, è che ci dà la possibilità di essere altro, di incontrare altro, di perdersi, ecco perché dobbiamo pensare a salvare il teatro: vi immaginate se questi luoghi scenici un giorno non fossero più abitati? È quanto stiamo cercando di fare noi – artisti, studiosi – in questo momento storico in Italia, stiamo opponendo una resistenza feroce, che ci costa moltissimo, affinché ciò non accada; il teatro è un luogo di estrema libertà, non foss’altro perché alla fine puoi fischiare, puoi buttare le pietre: come l’artista ha la libertà di dire per un secondo la sua parola sul mondo, così lo spettatore può dirla[4].

In questa messa in scena, inoltre, Moscato ha anche posto l’accento sull’importanza di salvaguardare la storia, specificando che «Napoli ’43 è un pretesto per parlare di oggi. Se dimentichiamo il nostro passato siamo già condannati. Sul palco voglio evocare un’altra trincea che abbiamo il dovere morale di issare»[5]. Passato e contemporaneità, dunque. Memoria e azione concreta legate da un nuovo e urgente rapporto, che va riscoperto per non perdersi, annullarsi. La conoscenza delle proprie radici, della propria realtà locale e storica, risulta fondamentale per comprendere il perché del presente e per poter modificare un iter ormai deviato. Moscato si fa portavoce di questo necessario cambiamento. Lo fa esplicitamente in questa pièce teatrale, ma è convinto in assoluto di quanto il luogo teatrale possa essere il tramite per la diffusione di messaggi importanti e possa servire per acquisire una nuova conoscenza e coscienza:

Il teatro, come la psicoanalisi, concilia le parti dissociate dell’individuo. […] Per me è stato una salvezza perché io ero scisso, da ragazzino, tra numerose componenti di me, ho finito per farle convivere tutte, col tempo naturalmente, e ho capito che il teatro serve a questo, all’individuo innanzitutto e quindi alla collettività. Basta pensare che negli ex manicomi e nelle comunità a sedicente disagio il teatro è uno dei principali strumenti di terapia, di cura, perché dà la possibilità di vivere meglio.
Deve essere chiaro quindi che la prima utilità del teatro è in relazione all’individuo: lo spettatore innanzitutto va sanato o tentato di sanare e se lui coglie una scintilla di questa possibilità la trasmette anche agli altri. Io, quindi, non vedo il teatro come luogo di fruizione, di spettacoli, meno che mai di evasioni, eppure mi rendo conto che questa è l’idea attuale: il pubblico vuole divertirsi e ridere, ma non si rende conto che la risata vera è quella involontaria[6].

In un’ottica che guarda al teatro come strumento di salvazione della propria, scissa identità, si può comprendere l’idea secondo cui, per il drammaturgo partenopeo, non è necessario che tutto venga chiaramente esplicitato in scena, ma piuttosto, soprattutto, evocato. È anche per questa ragione che in Napoli ’43 non si rispetta un ordine logico e cronologico dei fatti, come verrebbe da pensare naturalmente quando si mette in scena un evento storico. La narrazione non è imbrigliata in schemi tradizionali. Frammenti di ricordi, di esperienze, di storie, di voci si rincorrono e si incastrano gli uni con gli altri dando vita a un tempo compatto, unico, condiviso da tutti in scena.

Siamo in una dimensione di atemporalità, seppur ben circoscritta a un periodo storico. Sappiamo che tutto ciò che accade sul palcoscenico è inscritto in una linea temporale ben specificata, ma non si fa quasi mai riferimento al trascorrere preciso dei giorni. Ci sono accenni, non una dettagliata spiegazione degli antefatti storici e manca un racconto dell’immediato futuro, di quello che successe dopo l’arrivo degli Alleati. Il discorso di Antonio Casagrande, solo in scena a fine spettacolo, è l’unico che, per un attimo, analizza cronologicamente la conclusione della vicenda storica raccontata, dalla vittoria popolare napoletana all’ingresso degli Americani in città.

La mancata linearità riscontrabile nel fattore temporale della rappresentazione, trova una corrispondenza immediata nelle peculiarità stilistiche e sintattiche che contraddistinguono la penna mai scontata, mai banalmente regolare, mai rigidamente narrativa, di questo drammaturgo. Ciò su cui ha infatti spesso insistito l’autore è che la sua è una scrittura “de-narrativa”, priva di quella coerenza espositiva a cui i fruitori di un testo sono ormai abituati; è piuttosto un racconto che si crea e si disfa, che lascia tracce per poi recuperarle in momenti inaspettati, è magma che esplode, è frammento che taglia, è poesia che commuove.

E in Napoli '43, più che in altri testi, diventa anche molteplicità di lingue, di suoni. In un impasto di napoletano, tedesco, italiano, greco prendono corpo le passioni vissute in quei quattro giorni, da tutti. Non esiste un’unica forma linguistica in questo spettacolo, come in quasi tutti i lavori di Moscato: le voci sono molteplici e si incastrano, si contaminano, si ripetono, si perdono. Una coralità che, però, ha in sé nette individualità, che prepotentemente vengono fuori. Nonostante ciò, è risaputo che i sentimenti e i pensieri diventano gli stessi per chi condivide la medesima sorte. È per questa ragione che un personaggio in scena può farsi latore di un intero popolo e del suo sentirsi maltrattato, esprimendo il proprio, profondo disprezzo verso le truppe tedesche in un dialetto che al proprio interno ospita neologismi e sa accostare termini ricercati al linguaggio comune:

V ‘avimme schifate, vuie ca nun v ‘arricurdate
V ‘avimme schifate, vuie ca schifàsteve sti date
27, 28, 29, 30, e inoltre ancora 1
Arò pe vuie nun murette mai nisciuno
V ‘avimme schifate, razza ‘e qualunquiste smemorate
V ‘avimme schifate, ca puzzate ben essere dannate
Voi ci riempiste cu ll ‘oro de ‘meraglie, che fu un gettare l ‘osso alla canaglia
Canaglia che fu anco scugnizzaglia, nonché na munnezzaglia-vampiraglia
Ancora adesso oggetto ‘e rappresaglia, non da parte di tetesca soldataglia
Ma c ‘o ‘nciènzo, l ‘esorcismo e le vostre farisaiche cape d ‘aglio...[7]

Allo stesso modo si dà spazio alle convinzioni delle forze militari avverse, tramite la voce dell’ufficiale fascista, impersonato da Moscato, che entra in scena cantando il suo sdegno per chi quella rivoluzione stava cercando di metterla in atto:

Nun bado si so ‘gruosse o piccerille
Sparanno d’‘a fenesta a chisto e a chillo
Pecchè ‘o faccio?
Nun ‘o ssaccio!
Me piace ‘e sparà ncuollo a sti pagliacce
Sta specie ‘e pirenizze, sempe arrizzo
Per cui non provo stima, sulo stizza[8].

Ancora, Inge, la spia tedesca fatta rivivere sul palco da Cristina Donadio, diventa il simbolo della lucida, consapevole e indecente azione dei capi nazisti, della loro spietata ed irriducibile indifferenza di fronte a un genocidio o del loro beffarsi delle paure del popolo. All’affastellarsi di voci femminili che rivelano la preoccupazione per i propri uomini, mariti, padri o figli; all’inquietudine che portò il popolo maschile a nascondersi disperatamente nei tombini, per non prendere parte alla Grande Guerra, Inge risponde così:

Sì l’uommene llore. Sì, lasciateli stare, lasciateli stà là dint ‘e saittelle tanto sono comm ‘e zoccole. Eccone qua una! Eccone qua una! Eccone qua una[9]!

Le diversità verbali si armonizzano in scena grazie al sapiente lavoro, quasi di direttore di orchestra, che esegue Moscato, il quale però non nasconde le difficoltà e le incomprensioni che una babele linguistica può provocare. Eloquente a tal proposito la scena in cui un napoletano, seguace del fascismo, cerca di salvarsi la vita volendo comunicare il suo credo politico alle forze naziste («ma comme cazze se dice “Ie so fascist” in tedesco?»)[10], ma senza ottenere alcun risultato.

Mettendo in scena le ragioni e i sentimenti del popolo napoletano, mosso da rabbia e disperazione, non si può prescindere dall’usare le parole della folla, di chi quella rivoluzione l’ha messa in atto; è questo il motivo per cui lo spettatore è catapultato in un pastiche linguistico dai toni bassi, perfino volgari. L’uso di un lessico vernacolare è quindi, oltre che una scelta, una necessità che nasce proprio dal fatto che i protagonisti appartengano a una classe sociale di bassa estrazione e, di conseguenza, si esprimono attraverso la lingua a loro più nota, il dialetto. E la carica comunicativa che appartiene al dialetto permette di esplicitare con un più forte vigore e con un travolgente realismo i pensieri, le paure, lo sdegno, le speranze che si insinuavano e si scontravano nell’animo di ogni individuo in quei terribili giorni. 

Ma, come il teatro greco affida la funzione del commento alla sublime e misterica eloquenza del Coro, così il drammaturgo napoletano si fa portavoce di alcuni messaggi che accenna, sospira e ripete in un lessico lontano dai toni popolari e populisti: «"Perdersi, smarrirsi, con nessuna possibilità di ritrovarsi” si sente ripetere da una delle voci protagoniste, che, con toni disillusi, riecheggiano la condizione attuale di un’umanità degradata, che ha smarrito la memoria del passato»[11].

Non manca, sempre sulla falsa riga del teatro classico, la funzione morale, che nel caso di Napoli ’43 è anche di denuncia, affidata al prologo antieroico e all’amara conclusione, entrambi letti da Antonio Casagrande. Ma sono molti i momenti di riflessione, non si possono ridurre solo all’introduzione e all’epilogo; sono nelle azioni, nei ricordi, nei commenti che si susseguono in scena. E i protagonisti di quelle giornate lo sanno, mentre lottano, mentre sperano, mentre muoiono, che nessuno potrà comprendere fino in fondo, perché chi quei giorni non li ha vissuti, li dimenticherà, o, ancor più vigliaccamente, ne parlerà come un semplice pezzo di storia passata, dimentico di tutte le vittime, delle ragioni sociali, del primato della ribellione napoletana.

Le parole di Benedetto Casillo, che interpreta un rivoluzionario, sono veritiere e sconcertanti allo stesso tempo:

La fine del mondo… ‘a fine do’o’munno… succedette chill’autunno!
A gente parla, parla, ma non sa niente, niente!
Nun sape manco chello che dice, ‘a gente!
‘E cape se mbrogliano, se scordano!
Se raccontano nu fatto pe n‘ ato, ‘ e cerevelle!
Fernesce sempe a ‘taralluccio e vino, chesto è ‘o bello!
‘Basta ca ce sta ‘o sole… basta ca ce sta ‘o mare…’, si succede ca se parla ‘e chillu Male!
‘Tanto, mo’è fernuto!’– pensano.
‘Ponno mica turnà arreto n’ata vota?’– dicene – ‘E magari fa 50mila cimiteri, n’ata vota!?’Bah!’A gente!’A gente! Ma po’chi fosse, ‘a gente?
S’essa mettere pe miezo, nziem ‘a essa, pur a me?
Ie nu ricordo sulo tengo: ‘ e Muorte…’e Muorte… A migliare. A meliune. A migliare ‘e meliune de migliare! Y ‘e tenene ncopp ’a cuscienza… ncopp ‘o stommaco, ‘e Muorte…
Si ‘e vulessene cuntà, nun ci ‘a facessene, s ‘addurmessene dopp’‘a primma centenara!
Pirciò parlano e parlano, senza sapè chello ca dicene: pe s’‘e scurdà! Pe non tenerli sempre nnanz’a ll’uocchie, pe nun ‘e sentì sempe dint’‘e recchie[12]!

 
Un momento dello spettacolo. Foto di Fiorenzo De Marinis.

L’amore e lo studio della storia, disciplina incontrata molteplici volte da Moscato durante il suo iter scolastico e formativo, è quindi sicuramente alla base dello spettacolo. Il drammaturgo partenopeo ha affermato, specificando le modalità di composizione di questa scrittura teatrale: «è un testo a cui lavoro da anni. L'anno scorso ho cominciato a mettere insieme i frammenti che avevo composto, legando dialoghi, monologhi, sketch emotivi, affidandomi alla dimensione caotica della parola»[13].

Nel passaggio dal copione alla rappresentazione ci sono state numerose modifiche, nate durante i mesi di prove e attribuibili soprattutto al reciproco confronto e scambio di esperienze e di ricordi degli attori:

Ho avuto un parterre di attori straordinari e ciascuno ha contribuito, a cominciare da Antonio Casagrande, che mi ha dato moltissimo dal punto di vista della memoria di quei giorni. I ragazzi, all’oscuro di quegli eventi, sono stati a sentire me che ero l’ultimo portavoce di questa grande tradizione orale di racconti delle quattro giornate. Sono cose che ho voluto raccogliere nelle mie mani perché non essendoci più anziani messi nel ruolo giusto, che è quello del narrare ciò che stato precedente a noi, mi sono messo io nei loro panni, pur non avendo un’età veneranda. Questo ha incentivato gli attori più giovani a leggere molto di storia e a documentarsi[14].

Non si può prescindere da una lettura attenta e dettagliata di materiali e volumi storiografici quando si decide di mettere in scena uno spettacolo come Napoli ’43: i momenti della ribellione, avvenuta nei giorni 27-30 settembre del 1943, infatti, sono il cuore della rappresentazione. Non mancano però riferimenti a tutto l’arco temporale della seconda guerra mondiale e, in particolar modo, ai giorni immediatamente precedenti all’attuazione della rivolta, come a volerne ricordare gli antefatti e le cause scatenanti. Si ricorda l’8 settembre, giorno dell’Armistizio di Cassabile e il senso di disorientamento che provocò negli animi di tutti; il 12 settembre e la relativa presa di potere e di comando assoluto su Napoli del colonnello Walter Shöll; le settimane successive a questi eventi, con l’occupazione tedesca e i soprusi che i napoletani furono costretti a subire. Il senso di oppressione, di disagio sociale, gli animi abbrutiti di una popolazione stremata, sconvolta, prigioniera in casa propria, emergono senza mezze misure e fanno rivivere in scena le emozioni che portarono all’attuazione di quelle quattro giornate.

Ma alla memoria storica si affianca anche quella personale; il drammaturgo ha infatti dichiarato: «c’è tanto della mia vita privata. È stato un far ritornare la mia infanzia nell’attualità. Mi sono anche servito dei racconti che mi hanno fatto i miei familiari, le zie, i cugini e i fratelli più grandi che vissero quei momenti»[15].

Ulteriore impulso proviene dal film di Nanni Loy, Le quattro giornate di Napoli, del 1962, in cui si racconta, secondo Moscato, il vero spirito di quelle giornate e si riesce a evidenziare i caratteri peculiari che le resero un unicum senza precedenti nel panorama storico di un’Italia straziata dal conflitto mondiale

Il film dice la verità: non solo fu così la rivoluzione napoletana, un po’ tragica e un po’ comica; ma fu uno strano tipo di guerriglia che i napoletani misero in atto contro i tedeschi, un po’ lontano dai moduli che CNN, il fronte di Liberazione nazionale, praticava nelle altre città. Fu una rivoluzione a se stante su cui molti scrittori di storia sono ritornati e sposano quello che io e altri scrittori napoletani pensiamo di quelle giornate[16].

La relazione con il film di Nanni Loy si esplicita anche attraverso i materiali audio presi in prestito dalla pellicola: dai proclami del colonnello Shöll, alle parole gridate durante la fucilazione del marinaio e i successivi applausi imposti. Non mancano registrazioni storiche che riproducono in sottofondo un affastellarsi di voci tedesche miste a quelle italiane o colpi di arma da fuoco o, ancora, il suono cupo dei passi di stivali.

Ancora una volta, come in tutti i lavori di Moscato, il piano sonoro rispecchia la necessità di una molteplicità di linguaggi e perciò si nutre di musiche dal vivo, canto, audio registrato, sottofondi musicali, esecuzioni corali. Non esiste la purezza, l’unicità, l’assoluto in scena, come nella vita, e nei lavori del drammaturgo napoletano c’è sempre spazio per questa concezione di un’arte e di una realtà sfaccettate, poliedriche. Il mescolarsi di codici sonori è sicuramente però anche una scelta tecnica, che produce una maggiore dinamicità nella messa in scena e quindi anche una possibile e più duratura presa sullo spettatore.

Ad aprire la pièce teatrale, come già detto, c’è l’esecuzione di una canzone da parte di Moscato stesso, nella totalità del buio. Spesso ritornano momenti canori, affidati soprattutto al drammaturgo e a Enza Di Blaso. Canzoni a cappella o accompagnate dalla chitarra di Claudio Romano, fanno da commento all’azione scenica. D’altronde l’importanza che il canto riveste nell’opera di Moscato è esplicitamente nota:

Io non sono un cantante. Non lo sono mai stato. Quello che in scena sembra canto è solo una forma della mia scrittura. Nel mio canto scenico avviene come una migrazione dello strumento della scrittura da un organo corporeo all'altro: dalla mano all'ugola, alla gola...[17]

In diversi momenti dello spettacolo la melodiosa chitarra di Claudio Romano si affianca e si lega alla voce di Enzo Moscato ed è l’unico elemento sonoro che crea atmosfere più serene ma allo stesso tempo dolorose. Attraverso la varietà e la sequenza delle note pizzicate, infatti, questo suono pulito, cristallino, si erge al di sopra del caos bellico e riesce a esprimere, armonizzare e ad accompagnare al meglio i sentimenti di determinati attimi. Nella stessa ottica, quasi a voler alleviare le nostre orecchie colpite da rumori assordanti, duri, reiterati, nell’evocazione della città Sirena non può mancare il sottofondo del mare, che si trascina fino a noi e diventa suono di casa e di speranza.

Così i codici acustici non solo sottolineano e accompagnano, ma diventano un modo per esprimere altro, alludere, significare. Il teatro di Moscato è infatti basato sui suoni, nell’idea che non sia necessaria una subitanea e universale corrispondenza di senso:

Ci sono più possibilità di lettura di una rappresentazione, non solo quella semantica. Per quanto mi riguarda, ho optato per un teatro della forma e quindi un teatro sonoro, per tante ragioni personali e specifiche; la principale è che sono napoletano e quindi, come tutti i napoletani, ho una propensione naturale per il suono. Geneticamente quindi io mi sento maggiormente portato per un teatro della forma sonora più che del significato, anche perché penso di essere un umilissimo allievo di Artaud e quindi adoro moltissimo il teatro non concettuale, come può essere il teatro cinese. Amo molto il teatro orientale, il teatro di Bali, un teatro fatto di pluralità, dove non si coglie soltanto il significato o l’ideologia – che è una prerogativa e una caratteristica del teatro occidentale – ma si ha la possibilità di leggere una rappresentazione in moltissime chiavi. […] Una lettura dei miei lavori, anche solo partendo dal testo, può essere già esplicativa del fatto che io propendo per una musica delle parole, ma non scioccamente. Dietro la musica è chiaro che c’è un semantema, un significato, che riguarda tutto il nostro orizzonte antropologico e culturale che è Napoli. In fondo se c’è una cosa che ancora sopravvive, ed è soprattutto l’aspetto principale di Napoli che si coglie quando si viene da fuori, è la sonorità, la φωνή. Napoli è una città che si annuncia soprattutto a partire dal suono, dall’“ammuina” diremmo noi. In realtà tutto il teatro napoletano è caratterizzato da questa sonorità, forse un po’ meno quello di Eduardo, ma già basta pensare al teatro di Viviani, che non dissocia mai la parola dal suono, la battuta dell’attore da una possibile forma canzone di quella battuta, perciò io sono più figlio di Viviani che non di Eduardo[18].

È così che in Napoli '43 la pluralità di linguaggi, di codici espressivi, di punti di vista dà vita a uno spettacolo ricco e di forte impatto emotivo. Il lavoro e la poetica del drammaturgo partenopeo si esplicitano bene in questo testo: non si cerca un consenso facile, non applausi fasulli, non importa il numero di spettatori che riuscirà a penetrare a fondo nella verità che viene raccontata in scena, obbedendo all’idea che il teatro sia qualcosa di rituale e di iniziatico. Questa è una pièce teatrale sicuramente complessa, che però vuole far riflettere e ricordare.

Un vorticoso susseguirsi di storie, attraverso le parole degli attori, prende corpo nello spazio teatrale, acquista fisicità.  La Napoli protagonista della messa in scena è quella dei quartieri del centro storico, in particolare Montecalvario. Si fa riferimento a queste zone, fin dall’inizio dello spettacolo, quando prende la parola Totore ‘o scarparo (Benedetto Casillo), oppure nelle parole di Inge: la spia nazista racconta il momento della sua esecuzione e ricorda gli attimi immediatamente precedenti, quando viveva «dint’ ‘a panza di Toledo, dint’ ‘o core struppiàto de’ Quartiere»[19] assegnando a questi luoghi caratteri umani ed evidenziandone una natura panica. Elemento, questo, che viene ricordato anche successivamente quando, nel raccontare i momenti più intensi, violenti e focosi della rivoluzione, Moscato personifica i rioni di Napoli e dà voce alle statue dei grandi combattenti delle epoche passate, anch’essi fantasiosamente vogliosi di prendere parte alla cacciata dei soldati tedeschi:

E poi, alla ’Minerva’, costretto applauso a mano, sprizzò lo sangue primo del marittimo toscano. I denti, se spezzaie, l’antico ’Caffè Roma’ e scumma gialla ascette de'crepe d'?o Cavone. […] E Materdei alluccàva, dalle suole calpestata: ? Lasciateme sta’ a capa! Lasciateme sta’ a capa! Disgraziate! Sugli sfaccettati piedistalli d'ati guerre, i generali ’ e bronzo: Murat, Garibaldi, ’Uglielmo Pepe – supplicavano d' ’e sciògliere da sì diacce pose – protestando, ancora invitti, mormorando, minacciosi: ? Liberateci! Liberateci y’ e vattìmme!’[20].

Tutti i personaggi sono inscindibilmente legati alla realtà che vivono, cuciti nel e sul proprio ambiente, quasi immedesimati con i luoghi che abitano. Non si è mai tagliato il cordone ombelicale tra il napoletano e la sua città e questa pièce teatrale lo dimostra efficacemente. Napoli è madre protettiva, con i suoi passaggi sotterranei, il suo intrecciarsi di strade strette, viottoli, i suoi angoli sconosciuti; ma qui è anche patria calpestata, alla mercé di un popolo odioso e odiato, è luogo di tradimenti, di paura e di sentimenti contrastanti.

 
Un momento dello spettacolo. Foto di Fiorenzo De Marinis.

I racconti di ogni individuo sono rivissuti, specularmente, dallo spettatore: siamo assaliti dal vociare caotico dei vicoli; colpiti brutalmente dall’esperienza della deportazione; ci affacciamo nelle catacombe, dove il silenzio e l’omertà dei monaci hanno permesso l’accesso delle truppe naziste; la Jugoslavia, l’Albania e la Russia sono rievocate nelle parole del tenente dell’esercito italiano che ha dovuto «lustrare le scarpe ai tedeschi»[21].

Lo spettacolo mette in evidenza, tramite le storie dei venticinque attori, quali furono le ragioni che spinsero i napoletani a ribellarsi, ma sottolinea anche quanto sia stata importante la conformazione topografica e sociale della città per la riuscita di tale azione rivoluzionaria: i passaggi angusti dei vicoli, chiusi tra alte costruzioni che si affacciano le une sulle altre, la soffocante densità edilizia, la partecipazione dei cittadini alla vita corale di strada, trascinarono le truppe tedesche all’interno di una rete viaria intricata e pulsante di emozioni, producendo lo smarrimento e la sconfitta dei nemici. A tal proposito è chiarificatrice la testimonianza di un altro dei ribelli:

Loro avevano armi automatiche, autoblindo, carri armati, che poi di fronte alla reazione popolare si sono dimostrati proprio loffi, inadeguati.
Perché Napoli, con i vicoli stretti, quando loro scendevano per rastrellare, venivano colpiti da oggetti che volavano, dalle finestre, dai balconi, dalle logge, dai terrazzi.
Perfino dalle cupole, dagli aguzzi campanili delle chiese, volavano sti cose! Perché è ‘stata una ribellione generale. Generalissima! Tutta la città si è ribellata ai Tedeschi! Tutta quantissima! Anche coloro che non hanno attivamente partecipato hanno espresso la loro sdegnazione menannoli a fa nculo, sti fetente ‘e magnakraute![22]

Chi non conosce Napoli potrebbe sentirsi perso nel seguire con la mente e nell’identificare tutti i luoghi nominati in scena, dalla zona del porto, del centro storico, dei quartieri, fino a Posillipo e al Vomero, passando per rioni e piazze; ma, in soccorso allo spettatore disorientato, ecco comparire, nelle parole di Benedetto Casillo, i segni distintivi della città, quelli per cui Napoli è ormai conosciuta nel mondo: il mare e il Vesuvio. Rievocati in un momento tragico come quello della deportazione, non assumono i soliti caratteri stereotipati e romantici, ma incarnano piuttosto l’idea dell’esilio, della difficoltà ad allontanarsi dalla propria terra, dai paesaggi che si conoscono e riconoscono, dalle proprie radici. Non ci sono mezze misure, mezzi termini questa volta: la storia non è evocata, ma raccontata, afferrata e riportata davanti agli occhi di tutti perché un orrore come quello dell’Olocausto non può passare sotto silenzio, né essere addolcito dalla poesia delle parole. Eppure, anche qui, Moscato sa allontanarsi dai luoghi comuni di partecipata commozione e commemorazione per indugiare su particolari aberranti e, allo stesso tempo, troppo veritieri:

E poi, coi loro corpi, se ne fa tutte sapone. E la pelle la si espone, bella e tesa, pe ne fa tutte lampiere, ben graditi nei salotti delle femmine –virago ‘e ll ‘S.S.’! Certo, non vi è traccia di chiodi su questi paralumi fatte ‘e muorte: solo tatuaggi, tatuaggi un po ‘pazzotici, bizzarri.
‘Ma Padre mio, perché? Perché m’ avete abbandonato?’ – Te pare quas’ ‘e sèntere venì da quei bei lumi! O grida soffocate all’intrasàtto da labbra di criature...[23]

La follia nazista è analizzata, portata in scena con parole di una brutale freddezza che spaventa, che ricorda, che scuote. Nemmeno i bambini possono salvarsi da un’azione tanto atroce, il candore dei loro sogni gli ha forse mostrato la realtà meno spaventosa, la loro ingenuità li ha resi “fortunatamente inconsapevoli” del proprio, imminente destino. Eppure anche per questi innocenti non ci sarà scampo.

Alternandosi, in un dialogo-monologo-riflessione, gli attori più giovani si portano avanti al palco ad uno ad uno e, inginocchiandosi in sequenza, raccontano delle speranze dei bambini che si sono scontrate con l’effettiva realtà. Diventano le voci dei genitori di quei ragazzini, degli adulti che senza scelta hanno dovuto accettare una tale pazzia, poi dei soldati che, con la più spietata indifferenza, hanno spezzato quelle esistenze così piccole e pure.

Ma ‘e ccriature sunnavano…
Cuntinuavano a sunnà…
Nonostante il tatuaggio sulle tempie
che avrebbe loro impedito di farlo!
E’ o cuntrario ‘e nuie, che invece a sunnà
Buone nun éreme chiù, a tantu tiempe.
E perciò si è dovuto eliminarli, tutti.
Si è dovuto affrontare un Grande Olocausto Piccirillo,
un Grande Genocidio Piccirillo…
un Grande Macello Piccirillo…
dove li abbiamo passati per le armi o per il gas tutti quanti, a uno a uno.
Nu colpo alla tempia, addò tenevano ‘o tatuaggio…
Nu surzo di veleno – aria attossicata – addò ‘e vocche
Se nzerravano ostinate…e via, avanti un altro, marsch!
Assieme ai loro sogni. Assieme a quella loro testarda, incoercibile attitudine a star fuori dal reale. A dormire ad occhi aperti o vegliare ad occhi chiusi[24].

Il teatro di Moscato non ha paraocchi, è fatto anche di questo, di realtà. Anche se fa male. Anche se è orrore, tragedia. Nei suoi lavori si sente il pulsare della vita, con tutte le sue terribili verità. Non si cerca di nascondere il dolore o i ricordi spiacevoli, tutto viene riproposto in scena, per scuotere gli animi, per alimentare le coscienze, per emozionare attraverso una lingua sovrabbondante, carica, piena, che specifica fino all’ultimo dettaglio.

Di contro si oppone quasi sempre l’allestimento scenografico, che qui, come in altri spettacoli, è essenziale, affidato a pochi elementi. Il palco è occupato da qualche sedia, una panca nel fondale, bauli, una scala e un grande telo nero su cui si alternano durante lo spettacolo le incisioni di Mimmo Paladino, realizzate con linee essenziali, chiare e marcate. «Non sono le classiche immagini di trincea o di guerra che siamo abituati a vedere, ma una forma d’arte contemporanea che traspone la Storia in maniera eccellente, giacché ad ogni scatto che coglie un frammento di vita corrisponde la narrazione da parte degli attori»[25].

Infine due leggii, alle estremità laterali del palco, che verranno usati in chiusura dello spettacolo da Enzo Moscato e Antonio Casagrande per un confronto finale sull’orrore che fece da sfondo a quei vittoriosi giorni e l’amara consapevolezza di un presente pericolosamente vuoto.

L’elemento predominante è il buio. Solo pochi fari, posizionati in alto e puntati sapientemente in diversi punti del palcoscenico, illuminano, con una maggiore o minore intensità a seconda dei momenti, gli attori. «C’è molto buio: i 20 protagonisti, anziani, adulti e bambini, entrano ed escono come se si trattasse di un’Ade ricostruita. Ho messo in scena l’anima soggettiva di questa massa composta di anime individuali»[26].

E queste anime individuali sono interpretate da venticinque attori, quasi a voler rappresentare il gran numero di gente che prese parte alla ribellione di quei giorni. Uomini combattivi, vili spie tedesche, soldati incuranti e torturatori, bambini inconsapevoli e spaventati, monaci omertosi, marinai giustiziati, donne disperate; tutta la gamma dell’umanità si fa corpo e dà voce alla propria individualità, alle proprie storie e alle proprie emozioni.

Gli attori, a seconda del ruolo interpretato, avanzano nello spazio a volte come smarriti, preoccupati, altre come prepotenti, calmi, padroni della situazione, altre ancora con movimenti robotici.

Non meno importante è la scelta degli accessori e dei costumi, che diventano metafore eloquenti: la giacca indossata da Benedetto Casillo trabocca di medaglie, forse a ricordare lo spropositato numero di morti, come lui stesso afferma («Ie nu ricordo sulo tengo: ‘ e Muorte…’e Muorte…A migliare. A meliune. A migliare ‘e meliune de migliare»)[27], o a voler denunciare, come dirà Enza di Blasio, il «tardivo riconoscimento, nonostante l’autentico dell’oro»[28] dato ai ragazzi e alla città di Napoli.

Cristina Donadio, che interpreta Inge, la spia nazista, ha un abito che le lascia le spalle scoperte, sulle quali è disegnata una grande svastica nera, che solo in un secondo momento il pubblico vedrà. Durante una sorta di balletto meccanico, quando l’attrice si girerà, lo spettatore è colpito, sferzato da questo simbolo che rafforza ancor più la natura e il credo di questa donna. Le movenze da automa che caratterizzano questo personaggio stanno a indicare anche l’appiattimento intellettivo ed emotivo delle truppe naziste, pronte a eseguire gli ordini senza scrupoli, senza ragione, quasi in balia di un’estasi omicida. Uno dei personaggi, sotto le sembianze di Bacco, denuncia:

Avete bevuto signori ufficiali, avete trincato signori ufficiali, avete bevuto e trincato abbondantemente, con gusto, con soddisfazione. "Questo è per il sangue!", dicevate alzando i calici, "Questo è per la patria!" e danzando faciveve sunà mille medaglie, al brindisi dell’onta, ca ciechi fingevate e nun vedè, fingevate di non scorgere, scappando. Vigliaccune, vigliaccune, vigliaccune[29].

C’è un’esasperazione dei concetti, anche a livello visivo, proposta a chi assiste allo spettacolo. In questa ottica si possono interpretare le garze che i giovani attori si allacciano sugli occhi, quando diventano la voce di quei bambini che hanno dovuto subire i più efferati crimini per mano delle truppe naziste: si mette in scena prima l’innocenza di uno sguardo puro, e quindi, in qualche modo, celato sulla barbarie del mondo e poi l’impossibilità di riaprire gli occhi, dopo essere stati uccisi.

E criature, però, aspettano ‘o stesso, sempre.
Qualsivoglia cosa. Non importa. Purchè sia una cosa.
E io, pe tutt’ ‘a vita, aggio aspettato – eterno infante –
Qualcosa che credevo fosse poi venuta...[30]

 
Un momento dello spettacolo. Foto di Fiorenzo De Marinis.

Con queste frasi, ripetute quasi come una cantilena dagli attori, il drammaturgo napoletano ricalca e porta in scena la natura infantile, quella più autentica, fatta di stupori, aspettative e speranze, che saranno poi così drammaticamente stridenti con quell’ultima, inconsapevole, inutile attesa. E a ricordare, in maniera più esplicita quanto la cattiveria umana non abbia limiti e viva, si alimenti di azioni scellerate, sono le parole, quasi di memoria leopardiana, che il tenente dell’esercito italiano pronuncia:

Si possono bruciare bambini - ‘o sapite ? –senza che la notte si muova.
Era immobile anche allora attorno a noi, che stavamo là rinchiusi, in una chiesa.
Pure ‘e stelle erano calme de là ncoppa e quella immobilità non certo era l ‘essenza,
nè tantomeno il simbolo, ‘e qualcosa che ci metteva, bello e buono, il cuore in pace.
Era lo scandalo, invece, dell’indifferenza e l’impotenza più assolute[31].

È in queste parole, ancora una volta, il messaggio che questa pièce intende mandare. L’indifferenza, l’oblio, la superficiale scelta di non guardare, di non studiare, di non conoscere sono una condanna. Il presente è qui e ora, è vero, ma è figlio di un passato che non possiamo ignorare, che non dobbiamo escludere, ma piuttosto ripercorrere per non commettere gli stessi errori. Un grido disperato, questo testo, ma anche ammonitorio.

Noi, pochi, elusi, vaghi, quasi incatturabili segnali di percorso.
Niente senso di marcia. Niente orientamento. Niente suggestione od illusione, rettilinee, di cammino.
Zero sputato sui quattro punti cardinali.
Niente bussola, insomma, o assertive indicazioni su come restar dritti da caduti.
Perdersi, semmai. Smarrirsi. Con nessuna garanzia di ritrovarsi...[32]

Queste le frasi che si sentono più volte durante lo spettacolo, a voler indicare l’impossibilità di ricercare o di trovare una direzione dove regna il caos. Non esistono certezze, non sono forse mai esistite perché la natura umana è troppo volubile e arrogante, spietata. Non si vogliono impartire dogmi, sicuramente non con il teatro di Moscato, ma si cerca di scuotere gli animi in nome di una rinnovata consapevolezza e nell’idea di spingere a ritrovare se stessi e le proprie radici. La forza rivelatrice del teatro diventa perciò qualcosa di sacro, che aspira a una comunione di anime, una cerimonia che riguarda tutta la comunità e che nasce proprio nel dolore, dalla mancanza e dalla morte, come sosteneva Artaud.

Non si possono dimenticare quelle quattro giornate, non si può tradire la propria identità ed è per questo che lo spettacolo vuole essere un pretesto per smuovere coscienze ormai assopite, per ridestare una memoria così incline e abituata a dimenticare, per avvicinare e spronare a uno studio critico e dettagliato della Storia. E Antonio Casagrande ci ricorda, a fine spettacolo, quanto il nostro essere così presi dalle questioni insignificanti abbia cancellato in noi quell’energia, quella foga e quella fiducia che spinsero perfino i ragazzini a prendere parte alla guerriglia.

Generosi, vitali, caotici e ‘folli ‘, i ragazzi scendono per strada, in prima linea,e, in un attimo, il tempo di un urlo o di un sorriso, una raffica li spazza via.
Sarà poi la politica, quando le bocce si fermeranno, a speculare sul loro sacrificio.
E a seppellirli nel tempo come frammenti scordabili nel meccanismo apatico della Grande Storia[33].

La necessità di un cambiamento, che deve essere innanzitutto culturale, è tangibile nelle parole dell’autore, seriamente preoccupato dall’indifferenza dilagante. La chiusa della pièce teatrale non potrebbe essere, a tal proposito, più provocatoria: con un sorriso amaro sulle labbra Casagrande recita:

Ma, oggi, in un paese e in un popolo totalmente istupiditi, indifferenti, egoisti, rassegnati, dovremmo fare il voto a qualche santo che risorgano e ritornino, i Tedeschi, a molestarci, offenderci, ferirci mortalmente, come prima e più di prima!
Così, almeno, reagiremmo da cristiani, come facemmo allora[34].



[1] Sebbene siano qui specificati la data e il luogo della prima rappresentazione, successivamente nel testo farò rifermento alla messa in scena a cui ho assistito, il 29 settembre 2014. Napoli ’43 è, dunque, uno degli ultimi lavori di Enzo Moscato e lo si può inserire in un ambito che ha già in precedenza interessato il drammaturgo partenopeo: la storia. Questa, infatti, lo ha da sempre appassionato e lo ha portato a scrivere altri testi, anteriori a Napoli ’43, quali Sull’ordine e disordine dell’ex macello pubblico, che prende le mosse dalla rivoluzione napoletana del 1799, o Luparella, nel cui sfondo compare la violenza nazista, o ancora Kinder – Traum Seminar (“Seminario sui sogni dei bambini”), sul dramma dell’Olocausto.

[2] Enzo Moscato in un’intervista rilasciatami a Napoli, l’8 ottobre 2014.

[3] G. Baffi, “Napoli ‘43” di Enzo Moscato: “Il nostro d-day tradito”, in «la Repubblica», 29 settembre 2013.

[4] Enzo Moscato in un’intervista condotta da Anna Barsotti, Sistole e diastole nel teatro di Enzo Moscato: conversazione con l’attore-autore, in Studi di Storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di S. Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011, p. 666.

[5] A. D’Agnese, Enzo Moscato nella Napoli del ’43, in «la Repubblica», 2 ottobre 2013, consultabile on-line: 
http://www.repubblica.it/spettacoli/teatrodanza/2013/10/02/news/enzo moscato nella napoli del 43 da eduardo a brecht 67755274.

[6] Moscato, come in n. 2.

[7] Citazione drammaturgica dal testo di scena, gentilmente concessomi: Pronunciamiento de’(fantasmi) Curaggiuse.

[8] Ivi: Canzonaccia’e Mucchietiello.

[9] Ivi: Inge

[10] Ivi: Mario il collabò.

[11] V. Soria, Napoli ’43 di Enzo Moscato al teatro Nuovo, in scena le 4 giornate di Napoli per ritrovare la memoria storica, 10 ottobre 2013, www.liniziativa.net/?p=560.

[12] Dal testo di scena: Also Sprach Zezzeniello (Memorie di un partigiano).

[13] D’Agnese, Enzo Moscato nella Napoli del ’43, cit.

[14] Moscato, come in n. 2.

[15] Ivi.

[16] Ivi.

[17]E. Moscato, La voce umana, http://www.arenadelsole.it/getattachment/ ca42c2fd-a83c-4173-a5aa-17495c881155/ Marzo-2011.aspx.

[18] Moscato, come in n. 2.

[19] Dal testo di scena: Inge.

[20] Ivi: O Flauto fatto d’ ossa- mus. Karaìndrou.

[21] Ivi: Capitano Lembo.

[22] Ivi: Moruso.

[23] Ivi: Sciacchi-Sciacche.

[24] Ivi: Omaggio ai bambini sterminati.

[25] M. Mignano, Dalle quattro giornate di Napoli, l’istantanea di Enzo Moscato, in «Krapp’s Last Post», 15 ottobre 2013, http://www.klpteatro.it/dalle-quattro-giornate-di-napoli-listantanea-di-enzo-moscato.

[26] D’Agnese, Enzo Moscato nella Napoli del ’43, cit.

[27] Dal testo di scena: Memorie di un partigiano.

[28] Ivi: Guernica, Scugnizza 1.

[29] Ivi: Salvo D’Acquisto.

[30] Ivi: Giosippo.

[31] Ivi: Piricuozzo, ‘o rèduce.

[32] Ivi: Pochi elusi.

[33] Ivi: Guernica, Scugnizza 2.

[34] Ivi: maggio 2013.

 

TESTI E SITI CONSULTATI:

 

Testo di scena.

 

Giulio Baffi, “Napoli ‘43” di Enzo Moscato: “Il nostro d-day tradito”, in «la Repubblica», 29 settembre 2013.

 

Anna Barsotti, Sistole e diastole nel teatro di Enzo Moscato: conversazione con l’attore-autore, in Studi di Storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone, a cura di Stefano Mazzoni, Firenze, Le Lettere, 2011.

 

Alfredo D’Agnese, Enzo Moscato nella Napoli del ’43, in «la Repubblica», 2 ottobre 2013, consultabile on-line:

http://www.repubblica.it/spettacoli/teatrodanza/2013/10/02/news/enzo moscato nella napoli del 43 da eduardo a brecht 67755274/.

 

Enzo Moscato, La voce umana,

http://www.arenadelsole.it/ getattachment/ca42c2fd-a83c-4173-a5aa-17495c881155/ Marzo-2011.aspx.

 

Martina Mignano, Dalle quattro giornate di Napoli, l’istantanea di Enzo Moscato, in «Krapp’s Last Post», 15 ottobre 2013, http://www.klpteatro.it/dalle-quattro-giornate-di-napoli-listantanea-di-enzo-moscato.

 

Valentina Soria, Napoli ’43 di Enzo Moscato al teatro Nuovo, in scena le 4 giornate di Napoli per ritrovare la memoria storica, 10 ottobre 2013, http://www.liniziativa.net/?p=560.


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