Scrittore visionario e fantasioso in grado di fondere nei suoi Mondi parole e immagini, Anton Francesco Doni occupa, come è noto, un posto importante nel panorama del Cinquecento. Nel tentativo di aggiungere un ulteriore tassello agli studi sino ad ora pubblicati, si intende in questa sede approcciarsi in particolar modo al Mondo risibile tenendo presente due presupposti di partenza, e cioè il ruolo attivo del lettore quando si accosta a un testo – quale esso sia – e la specificità dellarte retorica che, se sapientemente ordita, trova sbocco in una rappresentazione sensibile, e dunque nelle immagini. Contribuisce a rafforzare questi intenti la forza teatrale e iconografica dei Mondi non già in rapporto al periodo in cui visse Doni – e cioè in una stagione ormai al suo autunno – ma nella prospettiva delle inquietudini manieriste che già permeano luniverso dellautore. Gli elementi della sua opera che possono essere già inscritti a buon diritto nellalveo della «letteratura nevrotizzata» confluiranno di lì a poco nel Barocco; di qui la possibilità di tracciare un parallelo con il Mondo simbolico di Picinelli, ove si consideri che dallesegesi di questopera emergono diversi traits dunion con la parola per così dire “dipinta” dellautore fiorentino. Lidea di “spingere in avanti” alcune tematiche contenute nei Mondi e vederne gli esiti nel Mondo simbolico di Picinelli e in altri autori del Seicento trova conforto in un passo della Zucca. Le «chimere et castegli in aria» del proemio del quinto libro sono evidentemente parenti prossimi della bizzarra stagione barocca e comunque influenzano già la letteratura del tardo Cinquecento che fa leva proprio sul lavoro verbale e sulla «locuzione». Allaspetto propriamente lessicale si aggiungono le suggestioni visive dellautore che non sono così lontane da quelle di Marino. Con questultimo è possibile evidenziare una ulteriore analogia: nella Galeria, ad esempio, i ritratti prendono forma in un lessico spesso contraddistinto dallenumerazione caotica, non diversamente da quanto aveva già fatto Doni sfruttando al massimo grado, nei Mondi e non solo, la tendenza allaccumulo. Tra la sensibilità tardo-rinascimentale e la fantasia barocca, insomma, il passo è breve. La suggestiva gamma di toni e stili presenti nei Mondi, che mira a riprodurre allinfinito leffetto stupefacente di una visione su ampia scala delluniverso, non è scevra, si diceva, della componente teatrale, sulla falsariga della tradizione erasmiana. Tutto il Mondo risibile fa leva su questo aspetto in quanto ad essere messi alla berlina sono gli uomini con le loro “maschere”, ove sintendano, con esse, le innumerevoli nevrosi che accompagnano il loro stare al mondo, come si evince anche dalla Moral filosofia. Non è il caso di addentrarsi nella follia che grande spazio ha nel Mondo savio/pazzo – ma di cui pure è imbevuto il Mondo risibile – e nemmeno ha senso evidenziare i numerosissimi agganci con lutopia da una parte e con la realtà della vita politica e sociale dallaltra, la cui degenerazione è la diretta conseguenza delle azioni umani fallaci e incontrollate. Lintento è quello di puntare lattenzione sul solo Mondo risibile nel tentativo di scorgere quelle avvisaglie che dal citato «autunno del Rinascimento» conducono alla piena temperie barocca. Un primo dato simpone già nellAllegro academico peregrino a lettori, dove viene esemplificato il motivo della vanitas, sia pure con esiti diversi a parità di metafora. La menzione dei fiori e la citazione biblica assolvono in Doni alla funzione di rendere risibile il mondo descritto: ciò che qui produce riso – non comico ma grottesco, elemento che in Doni ha una precisa valenza iconografica – diventa nel Seicento un vero e proprio memento mori. Il Mondo risibile vede interagire Giovambattista Cortese e il più noto Ludovico Dolce; il primo espone in crescendo le vane occupazioni delluomo e il secondo lo incalza al punto tale che la vanitas dei comportamenti umani enucleati si traduce in una vera e propria congerie linguistica. Tale procedimento sarà sfruttato tanto dai lirici quanto dai predicatori barocchi. Contribuisce ad amplificare questo effetto limpiego della forma dialogica, accresciuta da una ulteriore tensione interna tra i due interlocutori per effetto dellintrusione di un generico e immaginario «signore». A lui è affidato linedito compito di inserire rutilanti “botta e risposta” per generare un effetto illusionistico e di moltiplicazione che si compendia nel motivo dellinsaziabile appetito degli uomini, eppur corrosi dal tedio «di balli, comedie, donne, banchetti, maschere e giochi». Questo disorientamento prodotto dal frastuono della vita fa pensare, per converso, a quella capacità machiavelliana di orientarsi nelle «cose del mondo» – il che spiega una certa simpatia di Doni per lautore fiorentino – e allo stesso tempo anticipa il tedio barocco in cui è insita la matrice veterotestamentaria delle mondane occupazioni degli uomini sintetizzate nella vanitas. Dalla foggia dei vestiti alla maniera in cui ci si conforma alle mode del momento – persino la larghezza di una porta o il modo di sistemare i letti diventano esemplari di un certo comportamento uniformato, quando non proprio stantio – non vi è ambito entro il quale Doni, per bocca dei suoi interlocutori, non instilli un riso che deborda a vario titolo nel grottesco o nel tragico, come accade, ad esempio, quando Cortese e Dolce discettano della volubilità dellamicizia. Nel Mondo risibile Doni si serve dellimmagine particolarmente icastica del mulino per compendiare i molteplici aspetti dellesistenza umana, dal tempo che fugge alle lettere dellalfabeto, dalle semplici occupazioni quali il vestirsi o lo spogliarsi alle istanze propriamente ontologiche: Non giriamo noi il mulino dellore? Del continuo passa luna, vien laltra; quando sei da piedi, ti fai da capo. Non è un mulino da girar questo? Di, lieva, poni, vesti e spoglia, giorno e notte. Non è mulino da girare il votare del continuo ed empire il corpo? Le lettere dellalfabeto sono un mulino […] la generazione e corruzione è un mulino grandissimo da girare; nel farci portare e riportare nel caminare, andando e ritornando a torno, è egli altro che uno aggiramento? Vista linsistenza con cui lautore si serve del termine – per dirla con Mauron siamo di fronte a una «métaphore obsédante» – è il caso di vedere fino in fondo la forza di questa immagine che, oltre a rinviare allambito architettonico e teatrale dell«artificiosa rota», si attaglia perfettamente «sia alla dimensione della metamorfosi, grazie alla quale la vita si conserva, sia alla dimensione angosciosa della condanna alla ripetitività, al mondo del già dato». La potenza analogica, insomma, agisce in questo caso come una sorta di “demone” – si pensi alle innumerevoli varianti del termine, al traslato del girotondo e della «rota temporis» presente nei Marmi – che ha una pregnanza quasi aforistica. Nella Libraria, ad esempio, lautore afferma che «questo mondo è un mulino». La ripetizione del termine e il suo impiego con la medesima accezione in altre opere doniane spingono ad andare oltre il lessico per provare a scandagliare in profondità lambito sempre affascinante delle corrispondenze interne di un testo, nel nome di quella «agnizione di lettura» volta in questo caso a riconoscere, in una singola immagine, dei motivi “altri” per effetto del sistema della memoria che consente combinazioni e variazioni di uno stesso tema. È interessante, in tal senso, vedere gli esiti di poco posteriori ai Mondi: il mulino, nella fattispecie, ovvero la ruota, rinvia anche allemblematica per via della suggestione della ruota di Issione che sarà sfruttata anche da Marino e da Picinelli. Nondimeno è lecito supporre che nella rete delle associazioni e nel sistema mnemonico agirà questa fascinazione anche in Della Valle: nella Reina di Scotia il senso dellinstabilità delle cose è associato al «volubil giro». La ruota doniana abbraccia pertanto una pluralità di aspetti, per cui nel Mondo risibile si passa quasi ex abrupto dalla pregnante raffigurazione della vita e della morte che «hanno un mulino ancora loro da girare» al «mulino del favellare» che comporta un vero e proprio inanellamento in ordine alfabetico, da «arrogante» a «volubile», di termini che connotano luomo al negativo. Lelenco è arricchito dalla menzione di animali che avranno la loro fortuna nel bestiario barocco quali esseri «imperfetti e fastidiosi» secondo la catalogazione di Picinelli. Con questa costruzione ad elenco opportunamente variata, o meglio con questo perpetuo e angosciante girare della ruota che rende «stracco» il Dolce, si chiude la prima parte del dialogo. È suggestivo notare in che modo Picinelli elabori nel Mondo simbolico limmagine del mulino e della ruota e faccia leva sulla pregnanza del messaggio visivo. Labate milanese, ad oggi ancora poco studiato, stila questa enciclopedica raccolta di imprese, arricchita anche da illustrazioni, per predicatori, accademici e poeti: al chiaro intento educativo si associa la componente per così dire laica, per cui al côté sacro di matrice barocca fanno da contraltare la descrizione dei vizi e la sapidità dei motti di matrice umanistico-rinascimentale. Per Picinelli, che nel commentare il termine rafforza lesegesi ricorrendo allautorità dellEcclesiaste, il «mulino» è un traslato che compendia diversi aspetti della vita degli uomini: può essere allo stesso tempo simbolo della persona che «della grazia divina non è prevenuta», della vita umana «di continuo travagliata» e del falso amico che «al soffio di ogni altro vento si rigira e si distoglie dai suoi primieri affetti». Infine, è emblema di «ambizione» e «dipendenza». Alla «macina da mulino» è assimilata la «rota» e a questultima si lega limmagine del tempo edace sulla scorta di Ovidio. Non mancano, infine, altri traslati che si attagliano alla dimensione del sacro. Colpisce ancora, per analogia di immagine, la suggestione sottesa allesegesi di «Fortuna», intendendo con essa il perpetuo girare del pianto e del riso, come afferma Doni e come si è voluto icasticamente titolare questo contributo. Nella Pittura della Fortuna, quando Doni enumera i modi in cui essa è stata già raffigurata, compaiono proprio, tra le numerose varianti, «palle, ruote, sopra mondi et girelle». Anche per Ripa è un oggetto sferico, il timone, a rappresentarla (fig. 1) così come per Cartari. Non è, infine, una suggestione di poco conto il fatto che labate Picinelli non accosti la Fortuna alla ruota, ma comunque a un oggetto sferico, il «globo». Se si pensa, di converso, alla grande importanza che ha la «bulla» (fig. 2) nelliconografia della vanitas e, in generale, a tutti i simboli sferici quali segni della fragilità umana, non si può non convenire sulla persistenza di un modello, la cui ricezione comporta costanti e varianti allo stesso tempo. Una sapida combinazione di antico e moderno apre il Ragionamento secondo. A fronte delle medaglie spettanti non già a quanti si sono distinti nelle battaglie, ma a coloro che «hanno atterrato i litigi, il furore» segue una lunga disamina sullimmortalità dellanima di ascendenza platonica utile, di converso, per mettere alla berlina i comportamenti risibili di alcuni imperatori. Tra questi spicca senzaltro laneddoto, già attestato da Svetonio, secondo cui limperatore Domiziano cercava di rendersi immortale per il suo modo di afferrare le mosche. Tralasciando le già studiate argomentazioni circa il plagio di Guevara e la difficoltà di reperire fonti relative ad altri stravaganti comportamenti degli imperatori, è il caso di sottolineare la capacità dellautore di dilatare e amplificare la portata del Mondo risibile evidenziando quei comportamenti poco ortodossi dei grandi uomini del passato. Se Scipione russa o Licurgo incede con la testa sempre bassa o Cimonide parla a voce troppo alta si comprende che lintento è quello di far emergere per contrasto linvidia: il compendio sentenzioso che ne deriva, e cioè «se linvidia biasima la ragione ci loda» chiude non a caso la carrellata. Tutto il Ragionamento secondo verte, è vero, sugli exempla antichi degni di riso; ma è lecito scorgere al fondo quella vanitas sempre palpabile che attraversa come una sorta di fil rouge gli aneddoti, la cui verosimiglianza è messa perennemente in discussione, se è vero che, a dire di Doni, secondo Pausania «i Romani facevano scrivere le cose a modo loro […] e tutte le cose che venivano loro mal fatte, le facevano scrivere che si leggessero ben fatte». Al di là del gioco di parole e la malcelata ironia, si può scorgere, dietro lapparente filtro delle narrazioni falsate degli storiografi, il motivo della fallacia del sapere e della conoscenza che largo spazio avrà nel periodo barocco anche attraverso una spiccata iconografia (fig. 3). Al sapere e alla cultura, del resto, Doni oppone un netto rifiuto, ma su tale aspetto non è facile individuare una chiave di lettura univoca. Al termine dei due Ragionamenti subentrano Momo e Giove a Dolce e Cortese – questi ultimi interagiscono comunque con le divinità – e il dialogo si fa più serrato per effetto di una rafforzata funzione argomentativa. Lelemento dialogico, insomma, si combina e si contamina attraverso concrezioni sempre diverse al punto che diventa più forte la disposizione “drammatica”, intendendo con essa la forza teatrale che scaturisce dallimpiego dellipotiposi nellordito retorico. Anche in questo caso è possibile scorgere unavvisaglia del Barocco: i contrasti più serrati e le antinomie – connaturate alla struttura stessa del dialogo – aprono la strada al genere misto dei cosiddetti prologhi dialogati in auge nel Seicento in cui sono fuse tanto le strutture dialogiche codificate nel Quattrocento quanto quelle cinquecentesche dei prologhi da commedia, sulla falsariga dellopera del bitontino Giovan Donato Lombardo. Questa nuova modalità di dialogo usato a mo di prologo, che oltretutto presenta stretti agganci con lutopia, si fa strada solo trentanni dopo Doni e invero mostra diversi punti di contatto con i Mondi: veri e propri prologhi dialogati saranno quelli della Strega di Lasca, dellOrtensio di Piccolomini, della Prigione damore di Sforza dOddi e dellAmor pazzo di Nicola degli Angeli. Nel 1612 il più còlto dei comici dellArte, Andreini, si servirà proprio di Momo per esporre la sua teoria del riso nel Prologo in dialogo tra Momo e la Verità, ma già qualche anno prima questi due interlocutori si erano sfidati a singolar tenzone nella Furiosa di Della Porta. A fronte della personificazione della Verità, evidentemente sentita più consona alle esigenze di un teatro che faceva fatica a essere legittimato, Doni si serve di Giove, la divinità per eccellenza, il che spiega la natura di un dialogo in fondo non particolarmente serrato al punto da sfiorare il contraddittorio, se non proprio la rissa verbale, come accade in Andreini. Nel dialogo doniano tra Momo e Giove, daltra parte, almeno a giudicare dalla sostanziale uniformità di vedute, manca quella “tipicità” quattrocentesca, e cioè servirsi del genere letterario per trattare teorie differenti. Allautore interessa questo tipo di dialogo perché «è giocato nei termini di una collaborazione alla riforma del genere umano»; ne costituisce una riprova lassenza di litigiosità che si riscontra invece nella Furiosa di Della Porta e nel Prologo in dialogo tra Momo e la Verità di Andreini. In questultimo caso la mordacità del dialogo è funzionale a far emergere la validità delle teorie della Verità (già personificata da Ripa quale donna bellissima) (fig. 4) chiamata a operare una distinzione, sottile ma indispensabile, tra i due fini della commedia, «il fine ultimo e il fine non ultimo». Alla donna è conferito il potere di mettere fine al dialogo – e di conseguenza al contenzioso – nobilitando la funzione del riso quale diletto e ristoro: smontando il ben noto proverbio sul riso in ore stultorum loda, per converso, luomo che ha raggiunto leutrapelia, la virtù mediana del divertimento di ascendenza tomista. In Doni, invece, il riso che scaturisce dalla miseria dei comportamenti umani comporta uno sconforto e un disincanto di fondo: è lo stesso Momo a dirlo quando evidenzia la «gabbiata di pazzi» di un mondo in cui evidentemente non vi è possibilità di ordine. Ecco perché Mondo risibile diventa in qualche modo un “teatro” nella duplice accezione di “rappresentazione” delle consuetudini risibili delluomo civile e “macchina” ruotante, quel mulino che, si è visto, trita le vicende umane. L«autunno del Rinascimento» sta cedendo il posto al secolo per eccellenza incerto, e la forma-dialogo scelta da Doni per suscitare interrogativi e allo stesso tempo fornire disincantate risposte fa il paio con limpiego di quei meccanismi retorici che saranno ampiamente sfruttati nel Seicento; da qui allinstabilità barocca e al memento mori il passo è breve. Non altrimenti si può leggere lultima parte del dialogo tra Momo e Giove nel Mondo risibile in cui viene messa alla berlina la “moda” degli epitaffi e le follie di quanti non solo pretendono marmi e ori per sepoltura, ma anche imperitura memoria o attraverso bizzarri accorgimenti – è il caso di un tale che per la paura di non essere «ben ben morto» vuole una tomba «fatta a graticole di sopra per poter sfiatare» – o con messaggi tronfi e contorti che della semplicità e della brevità propria dellepigramma, come si conviene al genere, non hanno proprio nulla. Queste trovate rientrano nella tradizione burlesca e sono perfettamente in linea con la materia stessa del Ragionamento, e cioè con le follie umane che generano il riso; tuttavia non può non ravvisarsi ancora una volta quella “spia” barocca della vanitas che largo spazio accorda allelemento mortuario. Sì, è anche leffetto della relatività di tutte le cose e in primo luogo del tempo disperso in mille occupazioni, come già aveva detto Seneca le cui reminiscenze sono palpabili nei Mondi; ma la persistenza di questo concetto – la métaphore obsédante di cui si è detto – va di pari passo con la predilezione della medesima immagine da parte degli autori barocchi che attingono al repertorio cinquecentesco imitandolo e contaminandolo (non diversamente da quanto fa Doni praticando la scrittura come riscrittura). Non si tratta soltanto di abilità letteraria quanto piuttosto di prospettive di vedute in fondo non dissimili. A fronte della senechiana brevità della vita, labitudine a non stare nel presente, nel tempo – incombe già la clessidra barocca la cui sabbia scivola via – è chiaramente evidenziata nel Mondo risibile con limpiego, non meno icastico di un dipinto seicentesco, di una serie di interrogative. Quando Dolce chiede “retoricamente” al suo interlocutore se mai ci sarà un momento in cui si smetterà di stare al di là del tempo, già sa che è nella natura umana non riuscirci, assodato che – è lo stesso Doni a dirlo – «il tempo et la morte sono i nostri padroni». Si può ravvisare in questo aspetto un preciso anello di congiunzione che segna lapprodo delluomo a una condizione di vita pienamente barocca, emblematizzata in quel mulino in movimento, fatto di «annaspamenti di dare, davere, di torre, di rendere, di edificare, di distruggere». Di qui la curiosa conclusione del Mondo risibile con lincipit e lexplicit agli antipodi; nel primo domina il caos, e dunque lassenza di senso; nel secondo si fa strada unaccettazione che rende superfluo un riso che, temperato, può solo essere espressione di una saggezza acquisita.
© drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it
|
|