La migrazione della voce, da sud a nord In un articolo pubblicato dal quotidiano viennese ‹‹Neue Freie Presse›› il 23 dicembre 1934 Alexander Moissi rilascia dichiarazioni relative al suo primo anno di attività sui palcoscenici italiani e fissa importanti prospettive circa il suo operato culturale. Ricorda il recente successo ottenuto al Teatro Argentina di Roma (13 novembre) con Spettri di Henrik Ibsen al cospetto del «Capo del Governo Mussolini e molti altri membri del governo italiano e del partito fascista». Malgrado il testo fosse «lontano dalla mentalità italiana», lesibizione è premiata da diciotto chiamate sul palcoscenico. Lattore entusiasta dichiara la sua origine «mezza italiana, mezza austro-tedesca» e su questa fonda la sua volontà di «partecipare sentimentalmente alla vita dei due popoli», come uomo e come artista, perché, da un lato «ho apportato allarte tedesca una grande ricchezza di colore e di melodia» che «derivano dalle componenti meridionali della mia anima che mi legano allItalia», dallaltro lato il calore del pubblico italiano e romano «mi ha dimostrato che qui si accetta con comprensione il mio carattere pensieroso e riflessivo dovuto alla mia origine tedesca». Considerandosi «un anello di collegamento fra la cultura italiana e quella tedesca», finalizza la sua azione ad «alleggerire la pesante arte tedesca con il colore e la leggerezza melodica del sud e di dare nello stesso tempo allarmonioso e scintillante meridione la gravità e la problematica del nord». Lobiettivo della missione italiana coincide con limmagine che Moissi aveva trasmesso di sé alla cultura tedesca. Lo scrittore e drammaturgo Ferenc Molnár, per esempio, adotta la metafora delluccello migratore per immortalare la figura dellattore «continuamente errante, continuamente in movimento»: la sua voce è equiparata al volo «della poesia spensierata da sud verso nord» e della «serietà, sobrietà e disciplina del nord al sud». E luso della voce, in quanto connotata da caratteri di matrice italiana e tedesca, il tramite necessario per la convergenza delle due diverse tradizioni su un piano di scambi e contaminazioni. Questa sorta di compresenza, che si riscontra anche nellespressione mimica e gestuale, contiene in sé la storia dellattore, dagli esordi alla maturità. Sorta di carta didentità artistica, diventa la cifra stilistica della sua originalità, nonché croce e delizia della sua immagine. Nel 1901 il giovane Alexander, mosso dalla volontà di riscatto, da una sorta di vocazione frustrata, si trasferisce a Praga per avviare il tirocinio formativo al Neues Deutsches Theater diretto da Angelo Neumann. Nel 1896 aveva superato lesame di ammissione al Conservatorio di Vienna, esibendo mezzi canori alla Commissione presieduta da Ferruccio Busoni, poi di fronte allo studio scolastico e allacquisizione delle tecniche, era entrato in confusione fino a incontrare difficoltà insormontabili. «Il professore – racconta Giovanna Moissi – voleva che lallievo non cantasse a squarciagola. Facesse le scale, imparasse la tecnica di respirazione, e lallievo sosteneva che le scale sono inutili, gli esercizi noiosi e le tecnica (sic) del fiato superflua, in quanto lui teneva ogni nota più a lungo di qualsiasi altro. Che il cantare andasse preceduto e accompagnato da studio, per Alessandro era incomprensibile». Anche il successivo esame, svolto al cospetto della Commissione del Burgtheater per il quale risulta scritturato come comparsa dal 1899 al 1900, produce esiti negativi ma viene riconosciuta labilità gestuale, già scoperta da Josef Kainz durante una recita del Tartufo di Moliére. Il presidente Paul Schlenther dà un prezioso e decisivo consiglio: «Poi bisogna che lei studi, e studi molto. Bisogna che lei vada in un teatro di provincia nel quale le diano ogni settimana una parte nuova, così potrà impratichirsi e imparare il tedesco ottimamente». Al Neues Deutsches Theater di Praga Moissi figura come “darstellende Mitgleider”, categoria che comprende ruoli minori e comparse, si cimenta con il dramma contemporaneo, la commedia, la tragedia, loperetta. Un attento osservatore come Emil Faktor, nel 1901 vede lattore impegnato nella parte del fanatico Elia in Über unsere Kraft (Al di sopra delle nostre forze) di Bjornstjerne Björnson e descrive la voce «ignota, diabolica e bella che provoca spavento» e sottolinea che «litalianità – intensificò il demoniaco». In occasione della messinscena nel 1903 di Riccardo II di William Shakespeare, il critico del quotidiano “Prager Tagblatt” stronca la prova del giovane triestino impegnato nel ruolo del titolo per leccessiva malinconia, resa dal personaggio e perché la «sua lingua non ha ancora dimenticato le sfumature straniere». Le prestazioni danno esiti altalenanti provocano la sofferta decisione di abbandonare la città nellottobre 1904. Oltre allimperfetta e approssimativa pronuncia della lingua tedesca, subentrano anche non poche difficoltà nellassimilazione della recitazione secondo i canoni del Naturalismo, diffusi prima dai Meininger poi dalle regie ‘archeologiche di Otto Brahms al Deutsches Theater di Berlino. Che lattore non dovesse affidarsi solamente al proprio estro creativo, ricorrendo al virtuosismo e allartificio, bensì tratteggiare comportamenti e atteggiamenti in grado di rispecchiare lambiente sociale e le condizioni del personaggio, per Moissi significa cancellare di fatto quel velo di intimità e interiorità maturata a livello embrionale negli anni praghesi attraverso unimpostazione personale e anticonvenzionale della voce. Il miglioramento della dizione contaminata da suoni veneti e italiani, così disarticolata rispetto ai canoni della lingua tedesca, e la sua trasformazione in potenziale valore artistico, costituisce la grande scommessa di Max Reinhardt. Secondo il regista austriaco «larte dellattore consiste però contemporaneamente nel sapersi liberare dalla convenzionale messa in scena della vita, perché il compito dellattore non consiste nel fingere ma nel rivelare. […] Con la luce che riceve dal poeta egli scende negli abissi inesplorati dellanima umana, della sua stessa anima, per potersi laggiù misteriosamente trasformare e riemergere con le mani, gli occhi e la bocca piena di prodigi». Dal 1903 Moissi è scritturato nellensemble di Reinhardt, che lo trasforma rapidamente in uno degli attori più importanti della scena tedesca, acclamato nei teatri di sua proprietà Deutsches Theater, Kammerspiele (ex Kleines Theater), Grosses Schauspielhaus (ex circo Schumann), e sui palcoscenici internazionali. Il timbro marcatamente melodico, musicale e cantilenato della voce, che il regista valorizza, ammaestra e lo rende cifra stilistica di assoluta originalità, è stato spesso spiegato dalla critica tedesca come retaggio linguistico ereditato dalle radici italiane. Nel 1908 Julius Bab, nella compilazione della “voce” Alexander Moissi per il volume scritto con Willi Handl, Deutsche Schauspieler. Porträts aus Berlin und Wien, dispone di molte interpretazioni viste sui palcoscenici berlinesi al fianco di attori di qualità (Gertrud Eysoldt, Tilla Durieux, Else Heims, Eduard von Winterstern, Hans Wassermann, Friedrich Kayssler, Hedwig Wangel, ecc.), quali Oreste in Elettra di Hugo von Hofmannsthal, Oswald in Spettri di Henrik Ibsen, Moritz in Risveglio di primavera di Frank Wedekind, Romeo in Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Il ventinovenne Moissi è inquadrato nella tradizione del Grande attore, dell«attore di sangue», alla pari di Edward Kean, Ludwig Devriert, Gustavo Salvini, Ermete Rossi, Adalbert Mattkowski. Ricordate le origini italiane e descritta la melodia musicale della voce, Bab si sofferma sulla mimica, «un dono» della sua terra dorigine, soprattutto per il viso «pallido, dagli occhi profondi scuri, con le labbra grandi e langolo della bocca profondo», capace di deformarsi in «una smorfia grottesca e in terribile teschio, può esprimere lanima di un bambino incantato e di un avido libertino». Questa smorfia, «che nessun tedesco possiede», ha connotazioni antropologiche in quanto «solo nei paesi meridionali appare come naturale». Nel 1927, quando il quarantottenne Moissi è allapice della carriera, Hans Böhm pubblica Moissi. Der Mensch und der Künstler in Worten und Bildern, raccolta di testimonianze offerte da personaggi dello spettacolo, critici teatrali e scrittori legati al triestino. Tra le tante, lesaustivo profilo di Felix Salten ribadisce il nesso tra le abilità performative e le radici italiane, tanto nelluso della voce («lui avvolge le parole tedesche […] nella melodia italiana, le culla nel ritmo della lingua italiana»), quanto nella posa aggraziata e morbida del corpo. I suoi personaggi si infiammano, «sembrano troppo ardenti per vivere», più tragici e sensuali rispetto agli esempi tedeschi, in quanto avvolti «nel fuoco del suo temperamento del sud» che lo rende «un parente artistico di Rossi, Zacconi, Novelli e Eleonora Duse». Come Bab e Salten riconducono a precise latitudini geografiche i tratti caratteristici del repertorio espressivo, allo stesso modo operano autorevoli critici teatrali, soprattutto austriaci. Alfred Polgar assiste nel 1910 alla rappresentazione di Amleto di Shakespeare al viennese Theater an der Wien nelledizione firmata da Reinhardt per il Deutsches Theater di Berlino. Il principe di Danimarca di Moissi sfuma il tradizionale alone malinconico, accentua il carattere cocciuto e ostinato, con amarezza e ardore, rabbia e rassegnazione, attraverso il gioco dei contrasti espressivi del corpo, «miscela di grazie e nervosismo», e i toni della voce che rimbalzano repentinamente dall«improvvisa fuga» alla «rigida calma» con un tono di sensualità. Questo registro espressivo, spiega Polgar, non è un artificio artistico, deriva dal suo essere «meridionale, con la gestualità tipica dellitaliano». Avvolto nel mantello scuro, Amleto anima dalla «profondità interiore» la musicalità della parola, ora dolce ora tenebrosa. In questo modo, conclude il critico viennese, «pesantezza e leggerezza convivono nella stessa recita». E nelle figure tolstojane, dolenti e pensierose, avvolte da un alone di lucida follia e di mistico sacrificio punitivo, che Moissi attiva il principio dellimmedesimazione nel personaggio e, in modo particolare, ritrova in Fedja, il protagonista de Il cadavere vivente, le coordinate con i tormenti della propria interiorità, tanto che rimarrà il “suo personaggio”, il suo cavallo di battaglia a partire dal 1913, prima come attore della compagnia di Reinhardt e poi in qualità di ospite dei teatri viennesi e internazionali. La critica riconosce in Fedja la convergenza della personalità umana e delle potenzialità stilistiche palesate da Moissi. «Ieri sera – scrive Paul Schlenther nella recensione alla premiere berlinese – si è trasformato da primo dolce amoroso in attore di carattere, come mai lo avevamo visto», non immune a effetti sonori propri dellenfasi italiana, come sottolinea Ernst Lothar recensendo Il cadavere vivente visto sul palcoscenico del viennese Volkstheater nel 1925. Il critico vede nel corpo di Moissi «la mimica del dolore» convergere nella voce come elemento stilistico e tratto spirituale. Il nome di Masca, per esempio, lo pronuncia «Maahscha, con una a iniziale alta, marcata, cantilenata». Questo effetto sonoro, antitesi della pronuncia tedesca, è possibile, come spiega Maximilian Harden, per il fatto che «lartista proviene da quella zona dove il sangue italiano spesso si mischia con quello jugoslavo». Il personaggio di Nikolaj Ivanovic Saryncev de La luce splende nelle tenebre, dramma di Lev Tolstoj allestito da Max Reinhardt al Deutsches Theater di Berlino nel 1918, ottiene contraddittorie valutazioni. Siegfried Jacobsohn definisce la voce di Moissi simile al fischio di un flauto, il giudizio espresso dalla stampa viennese nel maggio 1919 rovescia di fatto la stroncatura del debutto. Scritturato come ospite della compagnia della Neue Wiener Bühne diretta da Emil Geyer, lattore riceve ampi consensi di pubblico e di critica. Hugo von Hofmannsthal, che bene conosce lattore quale protagonista di molti suoi lavori teatrali, in una lettera del 20 maggio 1919 scritta alla figlia Christiane racconta di una «favolosa rappresentazione teatrale» di un testo «orribile» che Moissi recita in modo «meraviglioso». Qualche giorno dopo, in unaltra missiva alla stessa destinataria, si sofferma sulla voce «adorabile» per il ventaglio di sonorità e sfumature come il «sottotono rauco dellitaliano». Anche il contatto con il repertorio classico tedesco permette di analizzare sia il distacco o lallineamento alla tradizione, che lincidenza della cadenza veneto-italiana nella costruzione del personaggio. Soprattutto negli anni Venti, quando la posizione dellattore si è stabilizzata nei vertici del teatro tedesco e in parallelo il lento distacco da Reinhardt e dalla scena berlinese, la critica solleva e analizza il problema. Nel 1923, al Deutsches Theater di Vienna, Moissi si confronta per la terza volta con il marchese Posa nel Don Carlos di Friedrich Schiller, dopo il debutto berlinese nel 1909 e la nuova edizione del 1917. Come Reinhardt, anche la regia di Alfred Bernau accorda al duca di Posa, piuttosto che a Don Carlos, la centralità della messinscena, suscitando non poche polemiche. Posa, sognatore imbevuto di spirito umanitario, si presenta avvolto di «temperamento meridionale» e i timbri melodici della sua voce ricordano gli antichi maestri di violino italiani. Che loriginalità della dizione del triestino contenesse in sé il rischio di una sorta di esibizione egocentrica, simile a quella di un tenore lirico, a scapito del disegno unitario della messinscena, costituiva sicuramente un problema per i registi. Se Reinhardt aveva risolto in parte la questione con laffiancamento di attori di pari livello, a Vienna la situazione cambia perché Moissi figura sempre come ospite, ossia da attrazione principale per il pubblico, e inoltre i suoi colleghi di scena non sempre lo eguagliano in bravura. Godendo di maggiore libertà, sicuro di conquistare le platee soprattutto femminili, lattore veste il personaggio con un abito da lui stesso confezionato ma non sempre aderente alle pieghe narrative del testo. E questo atteggiamento facilita il ricorso a citazioni più o meno marcate dello stile proprio del mattatore di scuola italiana. Pubblico e critica gradiscono, memori delle grandi esibizioni degli attori leggendari del Burgtheater quali Josef Lewinsky, Adolf von Sonnenthal e soprattutto la star Josef Kainz, assunto dal giovane Moissi come esplicito modello. Così si spiegano le parole essenziali di Raoul Auernheimer a proposito di Franz Moor de I masnadieri di Schiller in scena al Deutsches Volkstheater il 4 giugno 1922: «Moissi recitò questo ruolo un po alla maniera del virtuosismo italiano». Ad analoghe soluzioni interpretative ricorre la critica per spiegare le novità introdotte nella figura di Faust. Piuttosto che la tradizionale rappresentazione delluomo erudito e avido di conoscenza, determinato e coraggioso, il protagonista dellomonimo capolavoro goethiano appare nervoso, sensuale, dolente, in preda a visioni romantiche. E questo atteggiamento, che diventa oggetto di aspre polemiche o ampi consensi, coinvolge in primis luso e gli effetti della voce. Il recensore della “Neue Freie Presse”, per esempio, scrive che «Moissi fu lattore più debole per il ruolo di Faust, che abbia mai visto», perché litaliano cantilenato filtrato nella pronuncia tedesca «lascia molto a desiderare e a tratti è incomprensibile». Il suo temperamento, troppo straniero e italiano, non rispetta la maniera tedesca, si legge nella “Wiener Zeitung”. «Faust con Moissi non è nessun Faust», denuncia la recensione della “Neue Freie Presse”. Nellesibizione viennese Moissi accentua, magari in maniera ridondante ed eccessiva tanto da snaturare lessenza del personaggio che a qualche critico sembra malinconico come Amleto e Re Lear, limpostazione data da Reinhardt nella celebre messinscena realizzata sulla scena girevole montata nel Deutsches Theater nel 1909. In merito Siegfrid Jacobsohn aveva scritto che «Moissi ha rappresentato magnificamente Faust nella sua veste intellettuale. I suoi occhi scintillavano come se avesse avuto delle notti insonni alle sue spalle. Non è stato difficile immaginarsi che questo asceta inquieto fosse un alchimista, se non del medioevo tedesco, allora di quello italiano». Con la partecipazione a Turandot di Carlo Gozzi, allestita da Reinhardt il 27 ottobre 1911 al Deutsches Theater di Berlino, si apre il ciclo delle interpretazioni in lingua tedesca di commedia di autore italiano. In unambientazione fiabesca predisposta da Ernst Stern, Moissi indossa lo sfarzoso costume orientale di Calaf e appare «di singolare bellezza: un principe esotico, con denti scintillanti, bello, nobile, ardente, giovane fiorente», come lo descrive Jacobsohn. La scena in cui Calaf vede il ritratto della principessa Turandot e «riman sorpreso, indi grado grado, con lazzi sostenuti sincanta in esso», assume valenze squisitamente performative, vagheggianti la gestualità della Commedia dellArte. E definita un «capolavoro di mimica», che «nella sua perfezione forse solo un attore romano sarebbe riuscito». La suite orchestrale per Turandot porta la firma di Ferruccio Busoni ed è concepita come «il primo tentativo di illustrare musicalmente uno spettacolo italiano», partendo dal «testo italiano originale, senza prendere in considerazione la rielaborazione di Schiller». Il compositore, attivo a Berlino dal 1894, apprezza molto le doti di Moissi, visto che a lui si rivolge per il ruolo del protagonista di Arlecchino o le finestre, un capriccio teatrale in quattro atti, in occasione del debutto allo Stadttheater di Zurigo l11 maggio 1917. Non solo. Forse avverte con lattore un doppio legame biografico: entrambi condividono il legame con Trieste, dove era nato e vissuto Moissi e dove lempolese Busoni aveva vissuto linfanzia, e poi il trasferimento a Berlino. Di fatto lattore ha i requisiti anagrafici e formativi per interpretare una maschera italiana che parla in tedesco con il supporto di movimenti e gestualità proprie della Commedia dellArte. Il rapporto più intenso e proficuo con il teatro italiano è sicuramente legato alla drammaturgia di Luigi Pirandello, che si consuma in pochi e fondamentali episodi, il primo dei quali è propiziato dalla partecipazione a Il piacere dellonestà in scena al Deutsches Volkstheater di Vienna per la regia di Rudolf Beer. Nella parte del protagonista Angelo Baldovino, Moissi sembra allontanarsi dal consueto modulo stilistico, in particolar modo dalluso compiaciuto ed enfatico della voce. E questo crea un certo disorientamento nella critica, che, tra laltro, valuta il dramma pirandelliano con parecchie riserve. Lattore, osserva Alfred Polgar, tratteggia il personaggio con la dovuta raffinatezza. Voci e gesti assomigliano ai segni di una matita finemente appuntita su un grande foglio bianco, sul palcoscenico disegnano «una rete di espressioni provenienti dalla bottega dei mimi» ossia «pause, sorrisi, significativi, silenzi, sguardi prolungati». Questa impostazione di contenimento determina, a detta di Ernst Lothar, un personaggio «troppo passivo, troppo poco avventuriero» che non coinvolge il pubblico per la sua freddezza. Di contro, lanonimo recensore del quotidiano “Neues 8 Uhr Blatt” sottolinea che «mai Moissi è così positivo, come quando attraverso il ruolo è costretto al vivente, al “Naturalismo”, quando può fuoriuscire dal cantato». Il giusto equilibrio tra menzogna e verità, la maschera e il volto umano, il caos della realtà e lunità dellanima, connotano una figura «sanguigna, affascinante, lacerata attraverso tanti piccoli dettagli, ed elevata». Angelo Baldovino diventa una «marionetta grottesca» priva di artificio estetico, per il fatto che «Moissi non recitò il suo ruolo, lo visse». Con questa esibizione, in cui il protagonista «recita in modo quasi comico leroe “sbandato”», tipologia di personaggio cara a Moissi, «il famoso Fedja (di Il cadavere vivente, ndr.) fu raggiunto, quasi superato». Laltro prestigioso appuntamento pirandelliano è con la premiere di Enrico IV al Theater die Bühne dal 20 novembre al 7 dicembre 1925. Guidato dalla regia di Fritz Wendhausen, artista molto vicino allo stile di Reinhardt, la recitazione di Moissi nella parte del titolo si cala in unambientazione scenografica espressionistica, stilizzata e appiattita, caratterizzata dalla ricchezza dei colori, come li dipinge Cesar Klein, personaggio di spicco dellavanguardia cittadina, legato allesperienza del Bauhaus e influenzato dal futurismo e cubismo. Lattore declina la dialettica della finzione propria del personaggio «nella rappresentazione del dolore, piuttosto che nel dolore» e perciò, sottolinea Alfred Keer, «offre il contorno di una cosa piuttosto che il cuore della cosa», perché «si immedesima particolarmente nella voce» che assomiglia a quella di «un tenore latino» e di un «basso tedesco». Se per il critico la prova è negativa («Moissi maturerà», e come lui la pensa anche Siegfried Jacobsohn («Moissi non si è dimostrato attore drammatico»), non è così per la valutazione di Alfred Klaar. Sono le doti naturali espresse nella rappresentazione della sofferenza, in particolar modo lespressione mimica del dubbio e della malinconia, i perni dellinterpretazione, ricca di «sanguigna ironia» grazie ai «suoi occhi perforanti» che imprimono alla resa del finto pazzo «un quadro di carattere dallinizio alla fine». Nel novembre 1925 Moissi si propone sempre nei panni di Enrico IV al cospetto del pubblico del viennese Deutschen Volkstheaters. Solleva dubbi e perplessità la regia di Hans Peppler per il carattere fiabesco e leggero del primo atto, per poi incanalarsi sui binari dellapprofondimento del legame tra ragione e follia ricorrendo a venature filosofiche e producendo, in questo modo, un certo squilibrio anche tra gli attori per la centralità, considerata esagerata, dalla figura del protagonista. E il trionfo di Moissi: «questa volta ha fatto del suo meglio, ha offerto le cose migliori», ha esibito in più di un momento il bagaglio tecnico del «grande attore», in modo particolare nelle entrate in scena accompagnate dal «tono da violino della sua voce». Il terzo e ultimo contatto con la drammaturgia pirandelliana avverrà in Italia, come meglio vedremo, e sarà un rapporto artistico finalizzato alla costruzione di uno spettacolo. La migrazione della voce, da nord a sud Lavvicinamento di Moissi alla cultura teatrale italiana non è regolato da un progetto organico, avviene attraverso situazioni episodiche dai risvolti indelebili. Il 26 luglio 1912 partecipa ad un incontro conviviale con Eleonora Duse, Rainer Maria Rilke e il critico teatrale Arthur Kahane. La sede è Palazzo Valmarana, la residenza veneziana della Divina. Lobiettivo è convincere lattrice a ritornare sulle scene, partecipando ad una nuova edizione reinhardtiana di Spettri di Ibsen con Moissi nella parte di Oswald. Lambizioso progetto fallisce ma per il triestino il contatto con la Duse ha il sapore della rivelazione. Capisce come un personaggio autorevole lo recepisce assumendo il punto di vista italiano. Racconta Kahane: la Duse «si voltò con bel gesto di benvenuto a Moissi, che per lei, pur essendo un attore tedesco, rimane un connazionale, del quale è orgogliosa». Nel 1918 Moissi recita per la prima volta nella nativa Trieste che, in attesa delle sorti della guerra, è di fatto città dellImpero austro-ungarico (ritornerà allItalia il 31 ottobre). E protagonista con gli attori della Wiener Volksbühne diretta da Ernst Rundt di un ciclo di rappresentazioni in lingua tedesca al Teatro Comunale (Teatro Verdi), anche se i manifesti affissi riportano i titoli e informazioni varie in italiano. Moissi è consapevole che la situazione bellica rende la sua posizione ambigua, imbarazzante e contraddittoria, soprattutto per essersi arruolato come volontario nellesercito di Germania operativo sul fronte Occidentale. Perciò la sera del 5 maggio, prima dellinizio di Edipo Re di Sofocle, si presenta al proscenio avvolto in un mantello nero e indirizza al pubblico un commosso saluto in italiano, in cui esterna umani sentimenti figliativi («mi ritrovo nel materno nido con anima giovinetta»). Il figliol prodigo conclude lintervento con una speranza di pace, grazie alla quale «la vita può dare alluomo tutti i suoi sorrisi e allartista tutte le soddisfazioni». Il tebano di Moissi incanta il pubblico per il «suo gesto, statuario, ieratico, di unespressione singolare», che «sembra una statua su alto piedistallo». Quando Tiresia gli rivela la truce verità, il «re leva disperato una mano, poi crolla il capo, con gesto disperato» e nella scena finale «con gli occhi accecati e sanguinolenti, egli scende le scale, […] per andare lontano, lontano…». In questa sequenza fotografica, di grande effetto visivo ed emotivo, «i versi squillano come tragiche trombe, rosseggiano come ferite ardenti». Questa «sobrietà di linea a di gesti», spiega il critico della “Gazzetta di Trieste”, determina una resa scenica «scevra da ogni istrionismo» nella gestualità e nella «voce melodica, dalle note tenorili». “LOsservatore Triestino” mette in evidenza «laustera classicità del gesto informato alla più rigida sobrietà», che sembra collegarsi ad unentità espressiva primordiale, ad una «forza elementare». Anche il secondo spettacolo, Amleto, è un trionfo. Per il pubblico triestino è una novità vedere il principe di Danimarca «lontano dalla tradizione teatrale, semplice e suggestivo, […] perfettamente shakesperiano». Moissi abbandona lenfasi e leloquenza, alterna la «voce lenta e dolce» a toni forti e urlati. Recita il monologo Essere o non essere seduto, «quasi sospirando, […] non declamato ad una folla plaudente». Altrettanto inedita per lo spettatore del Teatro Comunale è limpostazione data ad Oswald in Spettri di Ibsen. Non ritrova una lettura in chiave patologica della malattia del giovane pittore bohemién, come la aveva resa celebre e canonica Ermete Zacconi («niente parole mozzate, niente passi incerti»), ma, come per Amleto, un personaggio di «grande naturalezza e semplicità» nella sua dimensione tragica, soprattutto nella manifestazione della follia che «subentra appena alla fine del dramma, quando chiede alla mamma atterrita il sole», sviluppando, in questo modo, un «interpretazione in ogni caso più fedelmente ibseniana di quella di Zacconi». Il vero debutto italiano di Moissi avviene a Milano, in occasione della prima nazionale de La leggenda di Ognuno di Hugo von Hofmannsthal nel piazzale della chiesa di SantAmbrogio dellUniversità Cattolica il 10 luglio 1933. Lo spettacolo-evento, preceduto da due mesi di prove e prodotto grazie ad un investimento piuttosto sostanzioso per lepoca pari a circa 500.000 lire, coniuga i legami politici tra Italia e Austria lungo lasse Roma-Berlino. In platea siedono rappresentanze istituzionali lombarde e delle due capitali, compresi quindici alti prelati vaticani. Il marchio austriaco alla messinscena del dramma tradotto e rielaborato da Italo Zingarelli è impresso da Lothar Wallerstein, regista della Wiener Staatsoper, che asseconda il gusto italiano con il ricorso massiccio alle musiche composte da Giulio Cesare Sonzogno ed eseguite dallorchestra diretta dai maestri Edoardo De Risi, agli inserti vocali del coro del Teatro alla Scala diretti dal maestro Vittore Veneziani e ai movimenti dei danzatori indossanti vivaci e colorati costumi, confezionati da Caramba per circa duecento partecipanti alle azioni sceniche sul palco ligneo montato dallarchitetto Eugenio Faludi, con le tavole del banchetto poste davanti ad una teoria di arcate posticce. La commistione di linguaggi scenici propri dellopera e del dramma teatrale, che danno ad Ognuno il sapore di una Sacra Rappresentazione in chiave moderna, è la piattaforma perfetta per Moissi, protagonista assoluto. Lattenzione della critica si concentra su come lattore reciti in italiano un personaggio interpretato in lingua tedesca da oltre ventanni. Lartista, osserva Silvio dAmico, «sebbene parli un nitido italiano, conserva nella dizione certi scatti di tipica maniera tedesca», che non compromettono linterpretazione del personaggio «di maschera nobilissima» per il suo progredire in «ardente, stravolto, fiducioso, disfatto». Emergono slittamenti dialettali, provenienti dalla «parlata della sua infanzia triestina e veneziana», nella recita di questo «homo adriaticus per eccellenza», come lo definisce Lavinia Mazzucchetti. Le stesse contaminazioni nella dizione e fonetica sviluppano il ritmo delle battute «con una sfumatura di cantilena» e determinano una pronuncia delle parole a tratti ambigua in quanto «talora sembrano più lievi del loro senso, talora più gravi». Si tratta, sostiene Renato Simoni, di «difetti naturali in un attore che ha sempre recitato in unaltra lingua, e che non intaccano la sua classe e la nobiltà della sua arte». Moissi recita prevalentemente “alla maniera tedesca”, «di serio e controllato stile. Un po a sbalzi, ora tutto impeto e ora raccolto, ora tutto vibrante e ora tutto impietrito». Sicuramente recita alla “maniera italiana” quando, nelle ultime battute, cade in ginocchio, congiunge le mani e declama il Pater Noster con fervore religioso, come del resto sottolinea tutta la critica. Il battesimo italiano di Moissi assume toni trionfali. Nelle repliche milanesi si registra sempre il tutto esaurito. Nei mesi successivi il capocomico Pio Campa, che aveva collaborato di persona con la Società Anonima Suvini-Zerboni alla realizzazione dello spettacolo-evento e che aveva interpretato come attore i ruoli della Voce del Signore e il Mammone, avvia il difficile progetto di fondare una compagnia con Moissi, vivamente sollecitato anche da Wanda Capodaglio, appassionata e incantata ammiratrice del triestino a fianco del quale recita La Fede. Lo scambio epistolare tra Campa e Moissi, da settembre a dicembre 1933, evidenzia i tanti problemi connessi alloperazione: dalla scelta del repertorio tra i successi storici dellattore triestino e il suo completamento con un testo di autore italiano alla questione degli incassi e, «date le nuove abitudini italiane», la necessità di avvalersi «di una specie di regista». La neonata compagnia Moissi-Capodaglio debutta il 2 febbraio 1934 al Teatro Manzoni di Milano con Il cadavere vivente di Lev Tolstoj. Firma la regia Pietro Sharoff, già allievo di Mejerchold e aiuto regista di Stanislavskij al Teatro dArte di Mosca. Per losservatore italiano si tratta di verificare in che modo lo stile “tedesco” si armonizzi con le dinamiche di una compagnia italiana e misurare lo spessore innovativo di Moissi chiamato a confrontarsi con il protagonista Fedja, introdotto sui palcoscenici italiani da Alfredo De Sanctis nel 1912 e riproposto nel 1929 dalla compagnia Pitoeff. «Un grande attore assolutamente nuovo», così lo definisce Claudio Lari e sottolinea la sua «recitazione semplice, chiara, ora strisciante, ora martellante». Limpostazione finemente psicologica impressa al personaggio si armonizza con le pieghe narrative del dramma e «la lievità morale di Fedja si è tradotta in lievità di parole e gesti». Anche Gino Rocca considera Moissi «un attore di eccezionale virtù» con la sua «maschera giallognola e giallognoli i suoi capelli spioventi», con la sua «potenza che pare flaccida e dinoccolata, ma che invece è inflessibile, ardita, improvvisa, nervosa». In merito alla voce, essa «non è bella, è spesso sgradevole anzi, ma piace: la pronuncia si storpia qualche volta, ma crea una stranissima armonia di dissonanze». La voce si intreccia con lessenza romantica, dissoluta e decadente del personaggio tolstojano, «con la sua umanità, non più russa, ma dogni paese e dogni tempo» e crea una «appena percettibile musicalità dalla più grande naturalezza», puntualizza Renato Simoni. Rispetto al timbro baritonale e cantato, che i critici tedeschi avevano ricondotto alle origini italiane, Moissi sembra recitare in italiano adottando lo stile “tedesco” e mantenendo equilibrio con gli altri attori: «non ha alzato la voce, e con misura, che in due o tre battute». Questo modulo, che «sempre mantiene la frase nel giusto tono voluto dal suo contenuto», segna la differenza con la recitazione italiana, perché «ha una sua scuola ed una disciplina: cose che mancano totalmente ai nostri attori». E il contrasto è dato dallassorbimento di elementi solitamente trascurati nella costruzione drammaturgica del personaggio: «fa recitare la chioma spiovente, la barba incolta, la casacca sdrucita», si muove con tremore insistente, le occhiate sono serafiche. «Si vale di tutto». Tuttavia «per taluni gesti svagati e preziosi» ricorda, secondo il critico torinese, Memo Benassi e la preferenza è a suo vantaggio, perché «più estroso, più vivo, più retto, anche nei suoi squilibri e nelle sue intemperanze». Il confronto tra tradizione italiana e tedesca è affrontato anche da Anton Giulio Bragaglia nella sua recensione a Il cadavere vivente visto al Teatro Valle di Roma. Riconosciuto Moissi come «attore straniero» che «può recitare nella nostra lingua senza imperfezioni», nota labbandono della consueta interpretazione stilizzata basata sulla musicalità della parola a favore di un «arte semplice, vissuta, naturalmente pensata», ossia accantona il «metodo» per «lestro interiore», il «cervello» per «lanima». Questa contrapposta visione dellattore, di cui Moissi rappresenta un esempio, è il prodotto dei registi stranieri, che, sostiene Bragaglia, «stanno snaturando i caratteri del teatro nostrano col freddo meccanismo dei loro metodi pazienti e interminabili, che per i nostri temperamenti risultano snervanti e sterili». Se un attore italiano non assimila la parte nei primi dieci giorni di prove, «si rinuncia a lui», mentre i registi stranieri «si impuntano per dei mesi di prova a metterli in bocca studiatamente, e cioè meccanicamente». Moissi finalizza sfumature e modulazioni della voce alla fisionomia del personaggio, trasforma «lesercizio istrionico» in «esercizio artistico». La recita di personaggi presenti nel repertorio della tradizione grandattorica italiana evidenzia la cifra della differenza dovuta ad una diversa formazione culturale. E il caso di Amleto, che debutta al Teatro Fenice di Fiume l1 marzo 1934. Per pubblico e critica i modelli di riferimento sono Ermete Zacconi, che da un anno ha smesso di recitare il principe di Danimarca dopo averlo proposto dal 1887 applicando i dettami del teatro naturalistico e che nel 1916 sembrava ormai logorato, e ledizione di Ruggero Ruggeri in circolazione dal 1915. Il suo è un Amleto romantico, con «una sobrietà talvolta un poco languida, talvolta elegantemente stilizzata», uno «sguardo assonnato», «cadenze nasali ma melodiche» di una «voce lontana». Impostato in senso antiverista, si presenta in scena «morbido e raffinato, riflessivo e dubbioso, commosso e sensibile», soprattutto impotente nellagire. Amleto di Moissi condivide con quello di Ruggeri uno stato danimo di amarezza e scontento, ma, attraverso uno scavo più profondo nella psicologia del personaggio, imposta la recitazione sulla scissione tra volontà del pensiero e azione fino ad arrivare ad una rinuncia dagli esiti innovativi. Questo squilibrio interiore, del resto connaturato alla personalità delluomo Moissi, «ha creato un gioco alterno di chiaroscuro e dai toni più sommessi, che davano alle parole il colore dellanima, è passato agli scoppi più ardenti e impetuosi», scrive Pio de Flaviis. Non più figura enigmatica, ma spoglia di orpelli, attraverso un procedimento tutto teso alla semplificazione e allintensità psicologica tramite «pennellate romantiche», ora con «sommessi e accorati accenti di poesia; ora con scarno ma impetuoso verismo, ora con allucinante tragicità». In questa sintesi di registri espressivi Moissi lo umanizza cercando «lattualità di Amleto per mostrarne leternità». Lincarnazione artistica si integra e si confonde nei tratti caratteriali dellattore stesso, nella «propria indole superba e ineguale, agile e dinoccolata, balenante e felina, cauta e coraggiosa, violenta e sommessa». Così il «suo» Amleto sul palcoscenico rispecchia Alexander Moissi nella vita «tutto irto e tutto mosso, in tumulti di sensi, di nervi, di scatti e di abbandoni». Questa dinamica produce una performance squilibrata, poco rettilinea, in bilico tra accesa passione sentimentale e speculazione filosofica, tra follia e ragione. Wanda Capodaglio, compagna di scena nel ruolo di Gertrude regina di Danimarca, riconosce un «Amleto quasi di una sensibilità femminile; un Amleto italiano che pareva un irrequieto prigioniero dellatmosfera nordica shakespeariana ». Sulla scorta del clamoroso successo di pubblico e di critica la compagnia Moissi-Capodaglio inserisce nella parte finale della prima tournée Spettri di Henrik Ibsen. Per lattore triestino, consapevole di mettersi in gioco in un confronto a distanza con Ermete Zacconi e Memo Benassi, si tratta di unoperazione rischiosa ma necessaria per la sua definitiva consacrazione. Zacconi aveva debuttato nel ruolo di Osvald al Teatro Manzoni di Milano il 22 febbraio 1892 con la compagnia di Giovan Battista Marini e lo riproponeva anche negli anni Trenta, orientando sulla sua figura di grande attore mattatore il fulcro dello spettacolo e relegando a parte secondaria la madre Helene Alving. Interpreta il dramma aderendo al carattere patologico del giovane pittore affetto da malattia mentale secondo le prescrizioni del positivismo in chiave lombrosiana, evidenziando il progressivo decadimento fisico «tutto fremiti e baleni, luci e ombre, e scatti e inciampi, e stralunate estasi raccapriccianti sullorlo della follia», come racconta Gino Rocca a proposito di una rappresentazione vista nel 1927. Il 18 ottobre 1922 aveva debuttato al Teatro Verdi di Trieste la versione del dramma ibseniano secondo Eleonora Duse, che restituisce la centralità al ruolo di Helene Alving, la madre del giovane sifilitico da lei stessa interpretata, a lungo adombrata dallimpostazione mattatoriale di Zacconi. Di riflesso Osvald, affidato alle competenze del giovane Memo Benassi, attutisce gli eccessi e le cadenze. «Il Benassi – scrive Renato Simoni – diede una prova di valore singolare in un giovane; il suo Osvaldo è per misura, evidenza, commozione, notevolissimo». La messinscena di Spettri di Moissi-Capodaglio si allontana dal centralismo zacconiano e si avvicina alla rilettura dusiana, attraverso il recupero dellinterpretazione data dalla regia di Max Reinhardt e della quale il triestino fa sicuramente tesoro. Scelto per i Kammerspiele del Deutschen Theaters di Berlino la sera dell8 novembre 1906, lo spettacolo ruota intorno al dramma di Helene (Agres Sorma) che con soluzioni naturalistiche esprime la parabola dellintimo dolore materno in parallelo allevolversi della malattia del figlio, reso da Moissi con un doppio registro espressivo: da un lato cancella la gestualità tutta esteriore del disfacimento fisico e mentale e assume un atteggiamento di tenerezza e timidezza; dallaltro lato il suo virtuosismo vocale ricorda lopera lirica, sottolinea Alfred Kerr, il quale si chiede: «Moissi conosce Osvald di Zacconi?» e conclude «Moissi può aver visto Zacconi, oppure no; questo giovane artista ha dato uninterpretazione splendida». Nelledizione italiana qualcosa in parte è cambiato. Se «Moissi vive il dramma con un senso di pudore tremante e pacato […], di profondamente sofferto», come aveva prescritto la regia di Reinhardt, è la voce a presentare significativi mutamenti: non più solo effetti zacconiani ma «toni felpati, grigi, tenuti sempre in sordina sulle corde minori» fino alla confessione fatta alla madre che culmina in un terribile crescendo. Così lultima battuta «Mamma! Dammi il sole!» si risolve in un atteggiamento di «eleganza stilistica, quasi di collocazione musicale». Maria Fabbri, in scena nella parte di Regina, chiarisce questa battuta decisiva di Spettri come «il progredire della catastrofe, la perdita totale di ogni connotato umano» accompagnato da unespressione terribile: «Nessuno, io credo, che abbia mai visto quel viso diventare a poco minerale, potrà dimenticarne lorrore». La rappresentazione della morte spoglia di ogni suggestione esteriore, quasi un silenzioso e invisibile punto di arrivo del destino, è il filo conduttore degli spettacoli applauditi dal pubblico italiano. Lo si è visto ne La Leggenda di Ognuno, Il cadavere vivente e in Spettri. A questi si aggiunge Louis Dubedat, il pittore geniale e immorale de Il dilemma del dottore di George Bernard Shaw, che Sir Colenso Ridgeon, il medico che ha scoperto un nuovo metodo di cura per guarire la tubercolosi, alla fine lascia morire favorendo per lunico posto disponibile per il ricovero ospedaliero il modesto amico e collega Blenkinsup, mosso anche dallamore nutrito verso la moglie dellartista. La tagliente e acerba satira della professione e della morale del medico sfuma, nella lettura moissiana, nei colori autunnali della morte dellarte intesa come la bellezza assoluta, nel moto di purificazione e di santificazione per i tormenti dellanima. In questa parabola funerea, come ne Il cadavere vivente, luomo Moissi si identifica con il protagonista di Shaw, con il quale condivide la stessa malattia e di lì a breve seguirà lo stesso destino. «Una commedia di Shaw, nel repertorio di questo singolare attore non stona: lo completa, anzi, lo elabora preziosamente», commenta Gino Rocca che a posteriori ricorderà «le sue mani congiunte nellagonia […], nellatto di salutare restio, volgendo le pupille in alto verso il naufragio delleterna luce, delleterna pace, delleterno oblio…». Il 13 febbraio 1935 al Teatro Manzoni di Milano debuttano nella stessa serata Il Pappagallo Verde di Arthur Schnitzler, novità assoluta per lItalia, e Tutto il male vien di lì di Lev Tolstoj. «Nelluna e nellaltra prova, sottolinea Gino Rocca, Alessandro Moissi ha saputo essere diversamente grande». Nella prima, nei panni di Henri, evidenzia le sue doti tragiche culminate nellassassinio del rivale damore; nella seconda conferma lattitudine per i personaggi falliti, illusi, mistici. Il dato sorprendente è sia la direzione artistica assunta da Moissi nella commedia russa, in cui recita la parte del Passante, segno di un nuovo percorso avviato dallattore allinterno del teatro, che la regia del testo dello scrittore austriaco firmata da Guido Salvini. Non sono noti i motivi che sottostanno alla doppia operazione, tuttavia Salvini possiede le giuste competenze artistiche maturate a fianco di Max Reinhardt, prima come assistente alla regia nel Sogno di una notte di mezza estate allestito al Giardino di Boboli di Firenze nellambito nella prima edizione del Primo Maggio Musicale Fiorentino, poi in qualità di stretto collaboratore ne Il principe si diverte, riduzione scenica de Il pipistrello di Strauss, presentato allExcelsior di San Remo nel 1934. Considerato il proficuo rapporto umano e artistico del regista austriaco con Moissi, non è da escludere una sua mediazione per stabilizzare la posizione dellattore italo-austriaco negli ingranaggi produttivi dello spettacolo italiano, favorendo nuove esperienze creative parallele allattività in ditta con Wanda Capodaglio. Una era di recente realizzazione, laltra in cantiere. Tra la fine del 1934 e del 1935 Moissi completa infatti le riprese del film Lorenzino de Medici diretto da Guido Brignone che gli affida la parte del titolo, affiancato da Camillo Pilotto, Germana Paolieri, Uberto Palmarini, Teresa Franchini. Nellagosto dello stesso anno, accompagnato da Wanda Capodaglio e Pio Campa, incontra a Viareggio Luigi Pirandello. Il drammaturgo gli legge il primo atto di Non si sa come, dramma in elaborazione. Lidea è di affidare la parte del conte Romeo Daddi a Moissi, il quale, come si è visto, era stato suo grande interprete sui palcoscenici di Austria e Germania. I comuni legami con il mondo tedesco producono un ambizioso progetto, che per Moissi significa assolvere la funzione di mediatore tra due culture come dichiarato dallo stesso nella citata La mia missione nel teatro italiano, e per Pirandello mantenere un rapporto di continuità con le platee tedesche. Moissi suggerisce il nome del traduttore, lamico e scrittore Stefan Zweig, che, appena accettato linvito, si mette immediatamente al lavoro, quasi in contemporanea con la stesura del testo in via di completamento. Ma lattore critica molto limpianto narrativo dei primi due atti. Contesta soprattutto lo sbilanciamento del dramma a favore di Ginevra e non di Romeo in quanto privato della decisiva confessione delladulterio a Bice. Su insistenza del figlio Stefano, il drammaturgo riscrive immediatamente la scena fondamentale. La nuova versione non soddisfa ancora. In discussione è il terzo e conclusivo atto: «la chiusa – si legge in una lettera spedita da Vienna il 18 settembre 1934 – […], data la situazione creata nei primi due atti, vorrebbe essere altamente drammatica oppure totalmente chiara da mostrare che la larga consistenza quotidiana dei personaggi presentati non basta a riempire una vita, bisogna accentuare che la vita di quelle persone – dopo laccaduto – è condannata a rimanere inesorabilmente vuota». Le preoccupazioni di Moissi riguardano anche la ricezione della commedia in Italia, dove «il nome dellautore è in paese una certa protezione ma se P[irandello] si dimostrerà nemico dei tagli – il che temo vivamente – me la vedo brutta e nessun attore la salverà dalla debacle anche in patria». Lattore propone di «rappresentare in prima mondiale il dramma Vienna [al Deutsches Volkstheater] nella primavera del 1935, e in seguito in Italia e nella tournée che avremmo fatto nellAmerica del Sud dello stesso anno», ricorda la Capodaglio. In unaltra lettera inviata a Campa da Vienna l8 ottobre scrive: «Non si sa come è una vera tragedia, non il lavoro, ma bensì limpressione che fece su drammaturghi e direttore [del Deutsches Volkstheater di Vienna]. Il I atto piacque, il II una pena, un doloroso stiracchiare, senza drammaticità, senza vita. E il III poi convinse tutti che questo lavoro – a Vienna – è condannato a cadere». Inoltre «la traduzione è veramente magistrale, migliore delloriginale». Le stesse obiezioni avanzate dallattore sul terzo atto sono sostenute con toni piuttosto accesi e polemici anche da Rolf Jahn, intendente del Deutsches Volkstheater in una lettera inviata allo stesso attore, che recapita allavvocato Mauri, segretario di Pirandello. Il drammaturgo, di solito tenace difensore del proprio operato e della indipendenza creativa, questa volta cede e aggiunge il desiderato colpo di scena ad affetto tragico, ossia la revolverata del rivale Giorgio Vanzi a Romeo. Malgrado ciò, si rinvia il debutto viennese, si opta per il Teatro Nazionale di Praga (19 dicembre 1934) grazie allintervento di Gian Battista Angioletti, direttore del nuovo Istituto Italiano di Cultura della città boema, e si pensa a quello italiano, ipotizzato al Teatro Manzoni di Milano il 30 gennaio 1935. Ma nascono problemi in merito alla distribuzione delle due parti femminili, per lopposizione di Marta Abba di figurare a fianco di Wanda Capodaglio. Tutto si ferma. Moissi, impegnato a San Remo con le recite de Il pappagallo verde e di Tutto il male vien di lì è colpito dalla febbre, rientra precipitosamente a Vienna e muore il 23 marzo per laggravarsi della tubercolosi. La contesa del passaporto La salma dellattore viene trasferita nella camera ardente del cimitero del crematorio viennese. Al rito funebre sono presenti esponenti del mondo della cultura, direttori di teatri cittadini, amici e colleghi tra cui Ida Roland. Albert Bassermann si sfila dal dito il leggendario anello di Iffland, che secondo la tradizione avviata nel 1814 avrebbe dovuto trasmettersi di volta in volta al più grande interprete del teatro nazionale, e lo posa sul corpo del defunto e pronuncia questa frase: «Portalo con te, perché questo anello ha rappresentato i nostri sogni, le nostre speranze. Con te è morto il grande teatro tedesco e la nostra Germania». Dopo lintroduzione musicale eseguita da un organo, il console Generale Ubaldo Rochira, a capo di una delegazione fascista, tiene un breve discorso in lingua italiana in cui dichiara: «Noi rispettiamo il desiderio del defunto che su feretro non si tengano encomi. Noi vogliamo però porgere lultimo saluto e qui dire che lui è diventato un grande artista e un cittadino italiano», per effetto del telegramma di Mussolini che gli concedeva la cittadinanza italiana e recapitato da Johanna Moissi negli ultimi momenti di vita del marito. In merito, pur non sbilanciandosi troppo, i giornali viennesi parlano di speculazione politica. Infine il protocollo prevede lesecuzione di un toccante adagio di Beethoven da parte di Bruno Walter, pianista e direttore dorchestra, accompagnato da, Arnold Rosè, noto violinista della Wiener Philharmonic Orchestra. Allora, il funerale celebra un attore tedesco secondo il gesto di Bassermann? E invece lultimo saluto, come traspare dalle parole di Rochira, ad un attore con passaporto italiano, anche se da poche ore? Oppure albanese, considerate le origini del padre Konstantin e la sua frequentazione della scuola elementare a Durazzo imparando lalbanese e il greco, motivo per cui re Zog I aveva offerto da diversi anni la cittadinanza a Moissi?. Le risposte italiane, al di là del nazionalismo diplomatico espresso da Rochira, avvolgono la figura di Moissi in unaurea poetica lontana dalle ragioni di Stato. E un atteggiamento di avvicinamento e allontanamento da un oggetto avvertito come misterioso, non ancora assimilato e posizionato nella scacchiera del teatro italiano. «Certo per noi italiani Moissi apparve e disparve», scrive Gino Rocca che aggiunge: «Zingaro sognatore, trovò finalmente una meta. Questa meta non poteva essere che un palco costruito dalla natura fra rivoli, quinte, canzoni e mari: lItalia». Limmagine dello spirito errante è assunta anche da Renato Simoni che conclude il suo ricordo immortalando la morte prematura «come il pellegrino che ogni alba che spunta ritrova la più consolante serenità: anche lalba del gran giorno che gli uomini chiamano morte». Il senso di esilio permanente, «nella realtà e nellanima» costituisce la sostanza dellenigma di Moissi, come lo ricorda Maria Fabbri, sua compagna di palcoscenico, specificando: «Egli era stato cittadino di molte patrie e di molti linguaggi incominciava a sentirsi straniero», e concludendo che «in fondo, in anticipo di quarantanni era un Beat dei nostri giorni. Avrebbe volentieri cantato sulle piazze». In Austria la rivendicazione del passaporto non è messa in discussione e si considera il biennio di Moissi in Italia solamente unimportante esperienza artistica, una delle tante che aveva visto Moissi impegnato sui palcoscenici internazionali. Dalla Germania è significativa la voce di Bertolt Brecht: «Però io non credo che si possa considerare Moissi soltanto un attore tedesco. Ancora non si è ben capito perché è stato per tutti noi così importante e già diverse nazioni litigano per appropriarsene». Ma Aleksandër Moisiu per gli albanesi, Alexander Moissi per i tedeschi, Alessandro Moissi per gli italiani, probabilmente consapevole di diventare oggetto di futili rivendicazioni nazionalistiche, nelle sue ultime volontà aveva espresso il desiderio di riposare nel piccolo e sconosciuto cimitero di Morcote, in riva al lago di Lugano, dove si rifugiava spesso negli ultimi anni di vita. Sulla lapide, circondata da rose selvatiche, è semplicemente inciso: Alessandro Moissi 1879-1935.
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