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Massimo Bertoldi

Alexander Moissi/Alessandro Moissi

Data di pubblicazione su web 14/10/2014
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La migrazione della voce, da sud a nord

In un articolo pubblicato dal quotidiano viennese ‹‹Neue Freie Presse›› il 23 dicembre 1934 Alexander Moissi rilascia dichiarazioni relative al suo primo anno di attività sui palcoscenici italiani e fissa importanti prospettive circa il suo operato culturale. Ricorda il recente successo ottenuto al Teatro Argentina di Roma (13 novembre) con Spettri di Henrik Ibsen al cospetto del «Capo del Governo Mussolini e molti altri membri del governo italiano e del partito fascista». Malgrado il testo fosse «lontano dalla mentalità italiana», l’esibizione è premiata da diciotto chiamate sul palcoscenico. L’attore entusiasta dichiara la sua origine «mezza italiana, mezza austro-tedesca» e su questa fonda la sua volontà di «partecipare sentimentalmente alla vita dei due popoli», come uomo e come artista, perché, da un lato «ho apportato all’arte tedesca una grande ricchezza di colore e di melodia» che «derivano dalle componenti meridionali della mia anima che mi legano all’Italia», dall’altro lato il calore del pubblico italiano e romano «mi ha dimostrato che qui si accetta con comprensione il mio carattere pensieroso e riflessivo dovuto alla mia origine tedesca». Considerandosi «un anello di collegamento fra la cultura italiana e quella tedesca», finalizza la sua azione ad «alleggerire la pesante arte tedesca con il colore e la leggerezza melodica del sud e di dare nello stesso tempo all’armonioso e scintillante meridione la gravità e la problematica del nord»[1].

L’obiettivo della missione italiana coincide con l’immagine che Moissi aveva trasmesso di sé alla cultura tedesca. Lo scrittore e drammaturgo Ferenc Molnár, per esempio, adotta la metafora dell’uccello migratore per immortalare la figura dell’attore «continuamente errante, continuamente in movimento»: la sua voce è equiparata al volo «della poesia spensierata da sud verso nord» e della «serietà, sobrietà e disciplina del nord al sud»[2].  E’ l’uso della voce, in quanto connotata da caratteri di matrice italiana e tedesca, il tramite necessario per la convergenza delle due diverse tradizioni su un piano di scambi e contaminazioni. Questa sorta di compresenza, che si riscontra anche nell’espressione mimica e gestuale, contiene in sé la storia dell’attore, dagli esordi alla maturità. Sorta di carta d’identità artistica, diventa la cifra stilistica della sua originalità, nonché croce e delizia della sua immagine.

Nel 1901 il giovane Alexander, mosso dalla volontà di riscatto, da una sorta di vocazione frustrata, si trasferisce a Praga per avviare il tirocinio formativo al Neues Deutsches Theater diretto da Angelo Neumann. Nel 1896 aveva superato l’esame di ammissione al Conservatorio di Vienna, esibendo mezzi canori alla Commissione presieduta da Ferruccio Busoni, poi di fronte allo studio scolastico e all’acquisizione delle tecniche, era entrato in confusione fino a incontrare difficoltà insormontabili. «Il professore – racconta Giovanna Moissi – voleva che l’allievo non cantasse a squarciagola. Facesse le scale, imparasse la tecnica di respirazione, e l’allievo sosteneva che le scale sono inutili, gli esercizi noiosi e le tecnica (sic) del fiato superflua, in quanto lui teneva ogni nota più a lungo di qualsiasi altro. Che il cantare andasse preceduto e accompagnato da studio, per Alessandro era incomprensibile»[3]. Anche il successivo esame, svolto al cospetto della Commissione del Burgtheater per il quale risulta scritturato come comparsa dal 1899 al 1900, produce esiti negativi ma viene riconosciuta l’abilità gestuale, già scoperta da Josef Kainz durante una recita del Tartufo di Moliére[4]. Il presidente Paul Schlenther dà un prezioso e decisivo consiglio: «Poi bisogna che lei studi, e studi molto. Bisogna che lei vada in un teatro di provincia nel quale le diano ogni settimana una parte nuova, così potrà impratichirsi e imparare il tedesco ottimamente»[5].  Al Neues Deutsches Theater di Praga Moissi figura come “darstellende Mitgleider”, categoria che comprende ruoli minori e comparse, si cimenta con il dramma contemporaneo, la commedia, la tragedia, l’operetta. Un attento osservatore come Emil Faktor, nel 1901 vede l’attore impegnato nella parte del fanatico Elia in Über unsere Kraft (Al di sopra delle nostre forze) di Bjornstjerne Björnson e descrive la voce «ignota, diabolica e bella che provoca spavento» e sottolinea che «l’italianità – intensificò il demoniaco»[6]. In occasione della messinscena nel 1903 di Riccardo II di William Shakespeare, il critico del quotidiano “Prager Tagblatt” stronca la prova del giovane triestino impegnato nel ruolo del titolo per l’eccessiva malinconia, resa dal personaggio e perché la «sua lingua non ha ancora dimenticato le sfumature straniere»[7]. Le prestazioni danno esiti altalenanti provocano la sofferta decisione di abbandonare la città nell’ottobre 1904.

Oltre all’imperfetta e approssimativa pronuncia della lingua tedesca, subentrano anche non poche difficoltà nell’assimilazione della recitazione secondo i canoni del Naturalismo, diffusi prima dai Meininger poi dalle regie ‘archeologiche’ di Otto Brahms al Deutsches Theater di Berlino. Che l’attore non dovesse affidarsi solamente al proprio estro creativo, ricorrendo al virtuosismo e all’artificio, bensì tratteggiare comportamenti e atteggiamenti in grado di rispecchiare l’ambiente sociale e le condizioni del personaggio, per Moissi significa cancellare di fatto quel velo di intimità e interiorità maturata a livello embrionale negli anni praghesi attraverso un’impostazione personale e anticonvenzionale della voce. Il miglioramento della dizione contaminata da suoni veneti e italiani, così disarticolata rispetto ai canoni della lingua tedesca, e la sua trasformazione in potenziale valore artistico, costituisce la grande scommessa di Max Reinhardt. Secondo il regista austriaco «l’arte dell’attore consiste però contemporaneamente nel sapersi liberare dalla convenzionale messa in scena della vita, perché il compito dell’attore non consiste nel fingere ma nel rivelare. […] Con la luce che riceve dal poeta egli scende negli abissi inesplorati dell’anima umana, della sua stessa anima, per potersi laggiù misteriosamente trasformare e riemergere con le mani, gli occhi e la bocca piena di prodigi»[8].

Dal 1903 Moissi è scritturato nell’ensemble di Reinhardt, che lo trasforma rapidamente in uno degli attori più importanti della scena tedesca, acclamato nei teatri di sua proprietà Deutsches Theater, Kammerspiele (ex Kleines Theater), Grosses Schauspielhaus (ex circo Schumann), e sui palcoscenici internazionali. Il timbro marcatamente melodico, musicale e cantilenato della voce, che il regista valorizza, ammaestra e lo rende cifra stilistica di assoluta originalità, è stato spesso spiegato dalla critica tedesca come retaggio linguistico ereditato dalle radici italiane. Nel 1908 Julius Bab, nella compilazione della “voce” Alexander Moissi per il volume scritto con Willi Handl, Deutsche Schauspieler. Porträts aus Berlin und Wien, dispone di molte interpretazioni viste sui palcoscenici berlinesi al fianco di attori di qualità (Gertrud Eysoldt, Tilla Durieux, Else Heims, Eduard von Winterstern, Hans Wassermann, Friedrich Kayssler, Hedwig Wangel, ecc.), quali Oreste in Elettra di Hugo von Hofmannsthal, Oswald in Spettri di Henrik Ibsen, Moritz in Risveglio di primavera di Frank Wedekind, Romeo in Romeo e Giulietta  di William Shakespeare. Il ventinovenne Moissi è inquadrato nella tradizione del Grande attore, dell’«attore di sangue», alla pari di Edward Kean, Ludwig Devriert, Gustavo Salvini, Ermete Rossi, Adalbert Mattkowski. Ricordate le origini italiane e descritta la melodia musicale della voce, Bab si sofferma sulla mimica, «un dono» della sua terra d’origine, soprattutto per il viso «pallido, dagli occhi profondi scuri, con le labbra grandi e l’angolo della bocca profondo», capace di deformarsi in «una smorfia grottesca e in terribile teschio, può esprimere l’anima di un bambino incantato e di un avido libertino». Questa smorfia, «che nessun tedesco possiede», ha connotazioni antropologiche in quanto «solo nei paesi meridionali appare come naturale»[9].

Nel 1927, quando il quarantottenne Moissi è all’apice della carriera, Hans Böhm pubblica Moissi. Der Mensch und der Künstler in Worten und Bildern, raccolta di testimonianze offerte da personaggi dello spettacolo, critici teatrali e scrittori legati al triestino. Tra le tante, l’esaustivo profilo di Felix Salten ribadisce il nesso tra le abilità performative e le radici italiane, tanto nell’uso della voce («lui avvolge le parole tedesche […] nella melodia italiana, le culla nel ritmo della lingua italiana»), quanto nella posa aggraziata e morbida del corpo. I suoi personaggi si infiammano, «sembrano troppo ardenti per vivere», più tragici e sensuali rispetto agli esempi tedeschi, in quanto avvolti «nel fuoco del suo temperamento del sud» che lo rende «un parente artistico di Rossi, Zacconi, Novelli e Eleonora Duse»[10].

Come Bab e Salten riconducono a precise latitudini geografiche i tratti caratteristici del repertorio espressivo, allo stesso modo operano autorevoli critici teatrali, soprattutto austriaci. Alfred Polgar assiste nel 1910 alla rappresentazione di Amleto di Shakespeare al viennese Theater an der Wien nell’edizione firmata da Reinhardt per il Deutsches Theater di Berlino. Il principe di Danimarca di Moissi sfuma il tradizionale alone malinconico, accentua il carattere cocciuto e ostinato, con amarezza e ardore, rabbia e rassegnazione, attraverso il gioco dei contrasti espressivi del corpo, «miscela di grazie e nervosismo», e i toni della voce che rimbalzano repentinamente dall’«improvvisa fuga» alla «rigida calma» con un tono di sensualità. Questo registro espressivo, spiega Polgar, non è un artificio artistico, deriva dal suo essere «meridionale, con la gestualità tipica dell’italiano». Avvolto nel mantello scuro, Amleto anima dalla «profondità interiore» la musicalità della parola, ora dolce ora tenebrosa. In questo modo, conclude il critico viennese, «pesantezza e leggerezza convivono nella stessa recita»[11].

E’ nelle figure tolstojane, dolenti e pensierose, avvolte da un alone di lucida follia e di mistico sacrificio punitivo, che Moissi attiva il principio dell’immedesimazione nel personaggio e, in modo particolare, ritrova in Fedja, il protagonista de Il cadavere vivente, le coordinate con i tormenti della propria interiorità, tanto che rimarrà il “suo personaggio”, il suo cavallo di battaglia a partire dal 1913, prima come attore della compagnia di Reinhardt e poi in qualità di ospite dei teatri viennesi e internazionali[12]. La critica riconosce in Fedja la convergenza della personalità umana e delle potenzialità stilistiche palesate da Moissi. «Ieri sera – scrive Paul Schlenther nella recensione alla premiere berlinese – si è trasformato da primo dolce amoroso in attore di carattere, come mai lo avevamo visto», non immune a effetti sonori propri dell’enfasi italiana, come sottolinea Ernst Lothar recensendo Il cadavere vivente visto sul palcoscenico del viennese Volkstheater nel 1925[13]. Il critico vede nel corpo di Moissi «la mimica del dolore» convergere nella voce come elemento stilistico e tratto spirituale. Il nome di Masca, per esempio, lo pronuncia «Maahscha, con una a iniziale alta, marcata, cantilenata»[14]. Questo effetto sonoro, antitesi della pronuncia tedesca, è possibile, come spiega Maximilian Harden, per il fatto che «l’artista proviene da quella zona dove il sangue italiano spesso si mischia con quello jugoslavo»[15].

Il personaggio di Nikolaj Ivanovic Saryncev de La luce splende nelle tenebre, dramma di Lev Tolstoj allestito da Max Reinhardt al Deutsches Theater di Berlino nel 1918, ottiene contraddittorie valutazioni. Siegfried Jacobsohn definisce la voce di Moissi simile al fischio di un flauto, il giudizio espresso dalla stampa viennese nel maggio 1919 rovescia di fatto la stroncatura del debutto[16]. Scritturato come ospite della compagnia della Neue Wiener Bühne diretta da Emil Geyer, l’attore riceve ampi consensi di pubblico e di critica[17]. Hugo von Hofmannsthal, che bene conosce l’attore quale protagonista di molti suoi lavori teatrali, in una lettera del 20 maggio 1919 scritta alla figlia Christiane racconta di una «favolosa rappresentazione teatrale» di un testo «orribile» che Moissi recita in modo «meraviglioso». Qualche giorno dopo, in un’altra missiva alla stessa destinataria, si sofferma sulla voce «adorabile» per il ventaglio di sonorità e sfumature come il «sottotono rauco dell’italiano»[18].

Anche il contatto con il repertorio classico tedesco permette di analizzare sia il distacco o l’allineamento alla tradizione, che l’incidenza della cadenza veneto-italiana nella costruzione del personaggio. Soprattutto negli anni Venti, quando la posizione dell’attore si è stabilizzata nei vertici del teatro tedesco e in parallelo il lento distacco da Reinhardt e dalla scena berlinese, la critica solleva e analizza il problema.

Nel 1923, al Deutsches Theater di Vienna, Moissi si confronta per la terza volta con il marchese Posa nel Don Carlos di Friedrich Schiller, dopo il debutto berlinese nel 1909 e la nuova edizione del 1917[19]. Come Reinhardt, anche la regia di Alfred Bernau accorda al duca di Posa, piuttosto che a Don Carlos, la centralità della messinscena, suscitando non poche polemiche[20]. Posa, sognatore imbevuto di spirito umanitario, si presenta avvolto di  «temperamento meridionale» e i timbri melodici della sua voce ricordano gli antichi maestri di violino italiani[21].

Che l’originalità della dizione del triestino contenesse in sé il rischio di una sorta di esibizione egocentrica, simile a quella di un tenore lirico, a scapito del disegno unitario della messinscena, costituiva sicuramente un problema per i registi. Se Reinhardt aveva risolto in parte la questione con l’affiancamento di attori di pari livello, a Vienna la situazione cambia perché Moissi figura sempre come ospite, ossia da attrazione principale per il pubblico, e inoltre i suoi colleghi di scena non sempre lo eguagliano in bravura. Godendo di maggiore libertà, sicuro di conquistare le platee soprattutto femminili, l’attore veste il personaggio con un abito da lui stesso confezionato ma non sempre aderente alle pieghe narrative del testo. E questo atteggiamento facilita il ricorso a citazioni più o meno marcate dello stile proprio del mattatore di scuola italiana. Pubblico e critica gradiscono, memori delle grandi esibizioni degli attori leggendari del Burgtheater quali Josef Lewinsky, Adolf von Sonnenthal e soprattutto la star Josef Kainz, assunto dal giovane Moissi come esplicito modello. Così si spiegano le parole essenziali di Raoul Auernheimer a proposito di Franz Moor de I masnadieri di Schiller in scena al Deutsches Volkstheater il 4 giugno 1922: «Moissi recitò questo ruolo un po’ alla maniera del virtuosismo italiano»[22].

Ad analoghe soluzioni interpretative ricorre la critica per spiegare le novità introdotte nella figura di Faust. Piuttosto che la tradizionale rappresentazione dell’uomo erudito e avido di conoscenza, determinato e coraggioso, il protagonista dell’omonimo capolavoro goethiano appare nervoso, sensuale, dolente, in preda a visioni romantiche. E questo atteggiamento, che diventa oggetto di aspre polemiche o ampi consensi, coinvolge in primis l’uso e gli effetti della voce. Il recensore della “Neue Freie Presse”, per esempio, scrive che  «Moissi fu l’attore più debole per il ruolo di Faust, che abbia mai visto», perché l’italiano cantilenato filtrato nella pronuncia tedesca  «lascia molto a desiderare e a tratti è incomprensibile»[23]. Il suo temperamento, troppo straniero e italiano, non rispetta la maniera tedesca, si legge nella “Wiener Zeitung”[24]. «Faust con Moissi non è nessun Faust», denuncia la recensione della “Neue Freie Presse”[25]. Nell’esibizione viennese Moissi accentua, magari in maniera ridondante ed eccessiva tanto da snaturare l’essenza del personaggio che a qualche critico sembra malinconico come Amleto e Re Lear, l’impostazione data da Reinhardt nella celebre messinscena realizzata sulla scena girevole montata nel Deutsches Theater nel 1909. In merito Siegfrid Jacobsohn aveva scritto che «Moissi ha rappresentato magnificamente Faust nella sua veste intellettuale. I suoi occhi scintillavano come se avesse avuto delle notti insonni alle sue spalle. Non è stato difficile immaginarsi che questo asceta inquieto fosse un alchimista, se non del medioevo tedesco, allora di quello italiano»[26].

Con la partecipazione a Turandot di Carlo Gozzi, allestita da Reinhardt il 27 ottobre 1911 al Deutsches Theater di Berlino, si apre il ciclo delle interpretazioni in lingua tedesca di commedia di autore italiano. In un’ambientazione fiabesca predisposta da Ernst Stern, Moissi indossa lo sfarzoso costume orientale di Calaf e appare «di singolare bellezza: un principe esotico, con denti scintillanti, bello, nobile, ardente, giovane fiorente», come lo descrive Jacobsohn[27]. La scena in cui Calaf vede il ritratto della principessa Turandot e «riman sorpreso, indi grado grado, con lazzi sostenuti s’incanta in esso», assume valenze squisitamente performative, vagheggianti la gestualità della Commedia dell’Arte[28]. E’ definita un  «capolavoro di mimica», che  «nella sua perfezione forse solo un attore romano sarebbe riuscito»[29]. La suite orchestrale per Turandot porta la firma di Ferruccio Busoni ed è concepita come  «il primo tentativo di illustrare musicalmente uno spettacolo italiano», partendo dal  «testo italiano originale, senza prendere in considerazione la rielaborazione di Schiller»[30].

Il compositore, attivo a Berlino dal 1894, apprezza molto le doti di Moissi, visto che a lui si rivolge per il ruolo del protagonista di Arlecchino o le finestre, un capriccio teatrale in quattro atti, in occasione del debutto allo Stadttheater di Zurigo l’11 maggio 1917[31]. Non solo. Forse avverte con l’attore un doppio legame biografico: entrambi condividono il legame con Trieste, dove era nato e vissuto Moissi e dove l’empolese Busoni aveva vissuto l’infanzia, e poi il trasferimento a Berlino. Di fatto l’attore ha i requisiti anagrafici e formativi per interpretare una maschera italiana che parla in tedesco con il supporto di movimenti e gestualità proprie della Commedia dell’Arte.

Il rapporto più intenso e proficuo con il teatro italiano è sicuramente legato alla drammaturgia di Luigi Pirandello, che si consuma in pochi e fondamentali episodi, il primo dei quali è propiziato dalla partecipazione a Il piacere dell’onestà in scena al Deutsches Volkstheater di Vienna per la regia di Rudolf Beer[32]. Nella parte del protagonista Angelo Baldovino, Moissi sembra allontanarsi dal consueto modulo stilistico, in particolar modo dall’uso compiaciuto ed enfatico della voce. E questo crea un certo disorientamento nella critica, che, tra l’altro, valuta il dramma pirandelliano con parecchie riserve. L’attore, osserva Alfred Polgar, tratteggia il personaggio con la dovuta raffinatezza. Voci e gesti assomigliano ai segni di una matita finemente appuntita su un grande foglio bianco, sul palcoscenico disegnano «una rete di espressioni provenienti dalla bottega dei mimi» ossia «pause, sorrisi, significativi, silenzi, sguardi prolungati»[33]. Questa impostazione di contenimento determina, a detta di Ernst Lothar, un personaggio  «troppo passivo, troppo poco avventuriero» che non coinvolge il pubblico per la sua freddezza[34]. Di contro, l’anonimo recensore del quotidiano “Neues 8 Uhr Blatt” sottolinea che «mai Moissi è così positivo, come quando attraverso il ruolo è costretto al vivente, al “Naturalismo”, quando può fuoriuscire dal cantato». Il giusto equilibrio tra menzogna e verità, la maschera e il volto umano, il caos della realtà e l’unità dell’anima, connotano una figura  «sanguigna, affascinante, lacerata attraverso tanti piccoli dettagli, ed elevata»[35]. Angelo Baldovino diventa una  «marionetta grottesca» priva di artificio estetico, per il fatto che  «Moissi non recitò il suo ruolo, lo visse»[36]. Con questa esibizione, in cui il protagonista «recita in modo quasi comico l’eroe “sbandato”», tipologia di personaggio cara a Moissi, «il famoso Fedja (di Il cadavere vivente, ndr.) fu raggiunto, quasi superato»[37].

L’altro prestigioso appuntamento pirandelliano è con la premiere di Enrico IV  al Theater die Bühne dal 20 novembre al 7 dicembre 1925. Guidato dalla regia di Fritz Wendhausen, artista molto vicino allo stile di Reinhardt, la recitazione di Moissi nella parte del titolo si cala in un’ambientazione scenografica espressionistica, stilizzata e appiattita, caratterizzata dalla ricchezza dei colori, come li dipinge Cesar Klein, personaggio di spicco dell’avanguardia cittadina, legato all’esperienza del Bauhaus e influenzato dal futurismo e cubismo[38]. L’attore declina la dialettica della finzione propria del personaggio «nella rappresentazione del dolore, piuttosto che nel dolore» e perciò, sottolinea Alfred Keer, «offre il contorno di una cosa piuttosto che il cuore della cosa», perché «si immedesima particolarmente nella voce» che assomiglia a quella di «un tenore latino» e di un «basso tedesco». Se per il critico la prova è negativa («Moissi maturerà», e come lui la pensa anche Siegfried Jacobsohn («Moissi non si è dimostrato attore drammatico»), non è così per la valutazione di Alfred Klaar[39]. Sono le doti naturali espresse nella rappresentazione della sofferenza, in particolar modo l’espressione mimica del dubbio e della malinconia, i perni dell’interpretazione, ricca di «sanguigna ironia» grazie ai «suoi occhi perforanti» che imprimono alla resa del finto pazzo «un quadro di carattere dall’inizio alla fine»[40].

Nel novembre 1925 Moissi si propone sempre nei panni di Enrico IV al cospetto del pubblico del viennese Deutschen Volkstheaters[41]. Solleva dubbi e perplessità la regia di Hans Peppler per il carattere fiabesco e leggero del primo atto, per poi incanalarsi sui binari dell’approfondimento del legame tra ragione e follia ricorrendo a venature filosofiche e producendo, in questo modo, un certo squilibrio anche tra gli attori per la centralità, considerata esagerata, dalla figura del protagonista[42]. E’ il trionfo di Moissi: «questa volta ha fatto del suo meglio, ha offerto le cose migliori», ha esibito in più di un momento il bagaglio tecnico del «grande attore», in modo particolare nelle entrate in scena accompagnate dal «tono da violino della sua voce»[43].

Il terzo e ultimo contatto con la drammaturgia pirandelliana avverrà in Italia, come meglio vedremo, e sarà un rapporto artistico finalizzato alla costruzione di uno spettacolo.

La migrazione della voce, da nord a sud

L’avvicinamento di Moissi alla cultura teatrale italiana non è regolato da un progetto organico, avviene attraverso situazioni episodiche dai risvolti indelebili. Il 26 luglio 1912 partecipa ad un incontro conviviale con Eleonora Duse, Rainer Maria Rilke e il critico teatrale Arthur Kahane. La sede è Palazzo Valmarana, la residenza veneziana della Divina. L’obiettivo è convincere l’attrice a ritornare sulle scene, partecipando ad una nuova edizione reinhardtiana di Spettri di Ibsen con Moissi nella parte di Oswald. L’ambizioso progetto fallisce ma per il triestino il contatto con la Duse ha il sapore della rivelazione. Capisce come un personaggio autorevole lo recepisce assumendo il punto di vista italiano. Racconta Kahane: la Duse «si voltò con bel gesto di benvenuto a Moissi, che per lei, pur essendo un attore tedesco, rimane un connazionale, del quale è orgogliosa»[44].

Nel 1918 Moissi recita per la prima volta nella nativa Trieste che, in attesa delle sorti della guerra,  è di fatto città dell’Impero austro-ungarico (ritornerà all’Italia il 31 ottobre). E’ protagonista con gli attori della Wiener Volksbühne diretta da Ernst Rundt di un ciclo di rappresentazioni in lingua tedesca al Teatro Comunale (Teatro Verdi), anche se i manifesti affissi riportano i titoli e informazioni varie in italiano. Moissi è consapevole che la situazione bellica rende la sua posizione ambigua, imbarazzante e contraddittoria, soprattutto per essersi arruolato come volontario nell’esercito di Germania operativo sul fronte Occidentale[45]. Perciò la sera del 5 maggio, prima dell’inizio di Edipo Re di Sofocle, si presenta al proscenio avvolto in un mantello nero e indirizza al pubblico un commosso saluto in italiano, in cui esterna umani sentimenti figliativi («mi ritrovo nel materno nido con anima giovinetta»). Il figliol prodigo conclude l’intervento con una speranza di pace, grazie alla quale  «la vita può dare all’uomo tutti i suoi sorrisi e all’artista tutte le soddisfazioni»[46]. Il tebano di Moissi incanta il pubblico per il «suo gesto, statuario, ieratico, di un’espressione singolare»,  che «sembra una statua su alto piedistallo». Quando Tiresia gli rivela la truce verità, il «re leva disperato una mano, poi crolla il capo, con gesto disperato»  e nella scena finale «con gli occhi accecati e sanguinolenti, egli scende le scale, […] per andare lontano, lontano…». In questa sequenza fotografica, di grande effetto visivo ed emotivo, «i versi squillano come tragiche trombe, rosseggiano come ferite ardenti»[47]. Questa «sobrietà di linea a di gesti», spiega il critico della “Gazzetta di Trieste”, determina una resa scenica «scevra da ogni istrionismo» nella gestualità e nella «voce melodica, dalle note tenorili»[48]. “L’Osservatore Triestino” mette in evidenza «l’austera classicità del gesto informato alla più rigida sobrietà», che sembra collegarsi ad un’entità espressiva primordiale, ad una «forza elementare»[49].

Anche il secondo spettacolo, Amleto, è un trionfo. Per il pubblico triestino è una novità vedere il principe di Danimarca «lontano dalla tradizione teatrale, semplice e suggestivo, […] perfettamente shakesperiano». Moissi abbandona l’enfasi e l’eloquenza, alterna la «voce lenta e dolce» a toni forti e urlati. Recita il monologo Essere o non essere seduto, «quasi sospirando, […] non declamato ad una folla plaudente»[50].

Altrettanto inedita per lo spettatore del Teatro Comunale è l’impostazione data ad Oswald in Spettri di Ibsen. Non ritrova una lettura in chiave patologica della malattia del giovane pittore bohemién, come la aveva resa celebre e canonica Ermete Zacconi («niente parole mozzate, niente passi incerti»), ma, come per Amleto, un personaggio di «grande naturalezza e semplicità» nella sua dimensione tragica, soprattutto nella manifestazione della follia che «subentra appena alla fine del dramma, quando chiede alla mamma atterrita il sole», sviluppando, in questo modo, un’ «interpretazione in ogni caso più fedelmente ibseniana di quella di  Zacconi»[51].

Il vero debutto italiano di Moissi avviene a Milano, in occasione della prima nazionale de La leggenda di Ognuno di Hugo von Hofmannsthal nel piazzale della chiesa di Sant’Ambrogio dell’Università Cattolica il 10 luglio 1933. Lo spettacolo-evento, preceduto da due mesi di prove e prodotto grazie ad un investimento piuttosto sostanzioso per l’epoca pari a circa 500.000 lire, coniuga i legami politici tra Italia e Austria lungo l’asse Roma-Berlino. In platea siedono rappresentanze istituzionali lombarde e delle due capitali, compresi quindici alti prelati vaticani[52]. Il marchio austriaco alla messinscena del dramma tradotto e rielaborato da Italo Zingarelli è impresso da Lothar Wallerstein, regista della Wiener Staatsoper, che asseconda il gusto italiano con il ricorso massiccio alle musiche composte da Giulio Cesare Sonzogno ed eseguite dall’orchestra diretta dai maestri Edoardo De Risi, agli inserti vocali del coro del Teatro alla Scala diretti dal maestro Vittore Veneziani e ai movimenti dei danzatori indossanti vivaci e colorati costumi, confezionati da Caramba per circa duecento partecipanti alle azioni sceniche sul palco ligneo montato dall’architetto Eugenio Faludi, con le tavole del banchetto poste davanti ad una teoria di arcate posticce. La commistione di linguaggi scenici propri dell’opera e del dramma teatrale, che danno ad Ognuno il sapore di una Sacra Rappresentazione in chiave moderna, è la piattaforma perfetta per Moissi, protagonista assoluto.

L’attenzione della critica si concentra su come l’attore reciti in italiano un personaggio interpretato in lingua tedesca da oltre vent’anni[53]. L’artista, osserva Silvio d’Amico, «sebbene parli un nitido italiano, conserva nella dizione certi scatti di tipica maniera tedesca», che non compromettono l’interpretazione del personaggio «di maschera nobilissima» per il suo progredire in «ardente, stravolto, fiducioso, disfatto»[54]. Emergono slittamenti dialettali, provenienti dalla «parlata della sua infanzia triestina e veneziana», nella recita di questo «homo adriaticus per eccellenza», come lo definisce Lavinia Mazzucchetti[55]. Le stesse contaminazioni nella dizione e fonetica sviluppano il ritmo delle battute «con una sfumatura di cantilena» e determinano una pronuncia delle parole a tratti ambigua in quanto «talora sembrano più lievi del loro senso, talora più gravi». Si tratta, sostiene Renato Simoni, di «difetti naturali in un attore che ha sempre recitato in un’altra lingua, e che non intaccano la sua classe e la nobiltà della sua arte»[56]. Moissi recita prevalentemente “alla maniera tedesca”, «di serio e controllato stile. Un po’ a sbalzi, ora tutto impeto e ora raccolto, ora tutto vibrante e ora tutto impietrito»[57]. Sicuramente recita alla “maniera italiana” quando, nelle ultime battute, cade in ginocchio, congiunge le mani e declama il Pater Noster con fervore religioso, come del resto sottolinea tutta la critica.

Il battesimo italiano di Moissi assume toni trionfali. Nelle repliche milanesi si registra sempre il tutto esaurito. Nei mesi successivi il capocomico Pio Campa, che aveva collaborato di persona con la Società Anonima Suvini-Zerboni alla realizzazione dello spettacolo-evento e che aveva interpretato come attore i ruoli della Voce del Signore e il Mammone, avvia il difficile progetto di fondare una compagnia con Moissi, vivamente sollecitato anche da Wanda Capodaglio, appassionata e incantata ammiratrice del triestino a fianco del quale recita La Fede[58]. Lo scambio epistolare tra Campa e Moissi, da settembre a dicembre 1933, evidenzia i tanti problemi connessi all’operazione: dalla scelta del repertorio tra i successi storici dell’attore triestino e il suo completamento con un testo di autore italiano alla questione degli incassi e, «date le nuove abitudini italiane», la necessità di avvalersi «di una specie di regista»[59].

La neonata compagnia Moissi-Capodaglio debutta il 2 febbraio 1934 al Teatro Manzoni di Milano con Il cadavere vivente di Lev Tolstoj[60]. Firma la regia Pietro Sharoff, già allievo di Mejerchol’d e aiuto regista di Stanislavskij al Teatro d’Arte di Mosca.

Per l’osservatore italiano si tratta di verificare in che modo lo stile “tedesco” si armonizzi con le dinamiche di una compagnia italiana e misurare lo spessore innovativo di Moissi chiamato a confrontarsi con il protagonista Fedja, introdotto sui palcoscenici italiani da Alfredo De Sanctis nel 1912 e riproposto nel 1929 dalla compagnia Pitoeff. «Un grande attore assolutamente nuovo», così lo definisce Claudio Lari e sottolinea la sua  «recitazione semplice, chiara, ora strisciante, ora martellante»[61]. L’impostazione finemente psicologica impressa al personaggio si armonizza con le pieghe narrative del dramma e «la lievità morale di Fedja si è tradotta in lievità di parole e gesti»[62]. Anche Gino Rocca considera Moissi «un attore di eccezionale virtù» con la sua «maschera giallognola e giallognoli i suoi capelli spioventi», con la sua «potenza che pare flaccida e dinoccolata, ma che invece è inflessibile, ardita, improvvisa, nervosa». In merito alla voce, essa «non è bella, è spesso sgradevole anzi, ma piace: la pronuncia si storpia qualche volta, ma crea una stranissima armonia di dissonanze»[63]. La voce si intreccia con l’essenza romantica, dissoluta e decadente del personaggio tolstojano, «con la sua umanità, non più russa, ma d’ogni paese e d’ogni tempo» e crea una «appena percettibile musicalità dalla più grande naturalezza», puntualizza Renato Simoni. Rispetto al timbro baritonale e cantato, che i critici tedeschi avevano ricondotto alle origini italiane, Moissi sembra recitare in italiano adottando lo stile “tedesco” e mantenendo equilibrio con gli altri attori: «non ha alzato la voce, e con misura, che in due o tre battute»[64]. Questo modulo, che «sempre mantiene la frase nel giusto tono voluto dal suo contenuto», segna la differenza con la recitazione italiana, perché «ha una sua scuola ed una disciplina: cose che mancano totalmente ai nostri attori». E il contrasto è dato dall’assorbimento di elementi solitamente trascurati nella costruzione drammaturgica del personaggio: «fa recitare la chioma spiovente, la barba incolta, la casacca sdrucita», si muove con tremore insistente, le occhiate sono serafiche. «Si vale di tutto». Tuttavia «per taluni gesti svagati e preziosi» ricorda, secondo il critico torinese, Memo Benassi e la  preferenza è a suo vantaggio, perché «più estroso, più vivo, più retto, anche nei suoi squilibri e nelle sue intemperanze»[65]. Il confronto tra tradizione italiana e tedesca è affrontato anche da Anton Giulio Bragaglia nella sua recensione a Il cadavere vivente visto al Teatro Valle di Roma. Riconosciuto Moissi come «attore straniero» che «può recitare nella nostra lingua senza imperfezioni», nota l’abbandono della consueta interpretazione stilizzata basata sulla musicalità della parola a favore di un’ «arte semplice, vissuta, naturalmente pensata», ossia accantona il «metodo» per «l’estro interiore», il «cervello» per «l’anima». Questa contrapposta visione dell’attore, di cui Moissi rappresenta un esempio, è il prodotto dei registi stranieri, che, sostiene Bragaglia, «stanno snaturando i caratteri del teatro nostrano col freddo meccanismo dei loro metodi pazienti e interminabili, che per i nostri temperamenti risultano snervanti e sterili». Se un attore italiano non assimila la parte nei primi dieci giorni di prove, «si rinuncia a lui», mentre i registi stranieri «si impuntano per dei mesi di prova a metterli in bocca studiatamente, e cioè meccanicamente». Moissi finalizza sfumature e modulazioni della voce alla fisionomia del personaggio, trasforma «l’esercizio istrionico» in «esercizio artistico»[66].

La recita di personaggi presenti nel repertorio della tradizione grand’attorica italiana evidenzia la cifra della differenza dovuta ad una diversa formazione culturale. E’ il caso di Amleto, che debutta al Teatro Fenice di Fiume l’1 marzo 1934[67].

Per pubblico e critica i modelli di riferimento sono Ermete Zacconi, che da un anno ha smesso di recitare il principe di Danimarca dopo averlo proposto dal 1887 applicando i dettami del teatro naturalistico e che nel 1916 sembrava ormai logorato, e l’edizione di Ruggero Ruggeri in circolazione dal 1915[68].

Il suo è un Amleto romantico, con «una sobrietà talvolta un poco languida, talvolta elegantemente stilizzata», uno «sguardo assonnato», «cadenze nasali ma melodiche» di una «voce lontana»[69]. Impostato in senso antiverista, si presenta in scena «morbido e raffinato, riflessivo e dubbioso, commosso e sensibile», soprattutto impotente nell’agire[70]. Amleto di Moissi condivide con quello di Ruggeri uno stato d’animo di amarezza e scontento, ma, attraverso uno scavo più profondo nella psicologia del personaggio, imposta la recitazione sulla scissione tra volontà del pensiero e azione fino ad arrivare ad una rinuncia dagli esiti innovativi. Questo squilibrio interiore, del resto connaturato alla personalità dell’uomo Moissi, «ha creato un gioco alterno di chiaroscuro e dai toni più sommessi, che davano alle parole il colore dell’anima, è passato agli scoppi più ardenti e impetuosi», scrive Pio de Flaviis[71]. Non più figura enigmatica, ma spoglia di orpelli, attraverso un procedimento tutto teso alla semplificazione e all’intensità psicologica tramite «pennellate romantiche», ora con «sommessi e accorati accenti di poesia; ora con scarno ma impetuoso verismo, ora con allucinante tragicità». In questa sintesi di registri espressivi Moissi lo umanizza cercando «l’attualità di Amleto per mostrarne l’eternità»[72]. L’incarnazione artistica si integra e si confonde nei tratti caratteriali dell’attore stesso, nella «propria indole superba e ineguale, agile e dinoccolata, balenante e felina, cauta e coraggiosa, violenta e sommessa». Così il «suo» Amleto sul palcoscenico rispecchia Alexander Moissi nella vita «tutto irto e tutto mosso, in tumulti di sensi, di nervi, di scatti e di abbandoni». Questa dinamica produce una performance squilibrata, poco rettilinea, in bilico tra accesa passione sentimentale e speculazione filosofica, tra follia e ragione[73]. Wanda Capodaglio, compagna di scena nel ruolo di Gertrude regina di Danimarca, riconosce un «Amleto quasi di una sensibilità femminile; un Amleto italiano che pareva un  irrequieto prigioniero dell’atmosfera nordica shakespeariana »[74].

Sulla scorta del clamoroso successo di pubblico e di critica la compagnia Moissi-Capodaglio inserisce nella parte finale della prima tournée Spettri di Henrik Ibsen. Per l’attore triestino, consapevole di mettersi in gioco in un confronto a distanza con Ermete Zacconi e Memo Benassi, si tratta di un’operazione rischiosa ma necessaria per la sua definitiva consacrazione.

Zacconi aveva debuttato nel ruolo di Osvald al Teatro Manzoni di Milano il 22 febbraio 1892 con la compagnia di Giovan Battista Marini e lo riproponeva anche negli anni Trenta, orientando sulla sua figura di grande attore mattatore il fulcro dello spettacolo e relegando a parte secondaria la madre Helene Alving. Interpreta il dramma aderendo al carattere patologico del giovane pittore affetto da malattia mentale secondo le prescrizioni del positivismo in chiave lombrosiana, evidenziando il progressivo decadimento fisico «tutto fremiti e baleni, luci e ombre, e scatti e inciampi, e stralunate estasi raccapriccianti sull’orlo della follia», come racconta Gino Rocca a proposito di una rappresentazione vista nel 1927[75].

Il 18 ottobre 1922 aveva debuttato al Teatro Verdi di Trieste la versione del dramma ibseniano secondo Eleonora Duse, che restituisce la centralità al ruolo di Helene Alving, la madre del giovane sifilitico da lei stessa interpretata, a lungo adombrata dall’impostazione mattatoriale di Zacconi. Di riflesso Osvald, affidato alle competenze del giovane Memo Benassi, attutisce gli eccessi e le cadenze. «Il Benassi – scrive Renato Simoni – diede una prova di valore singolare in un giovane; il suo Osvaldo è per misura, evidenza, commozione, notevolissimo»[76].

La messinscena di Spettri di Moissi-Capodaglio si allontana dal centralismo zacconiano e si avvicina alla rilettura dusiana, attraverso il recupero dell’interpretazione data dalla regia di Max Reinhardt e della quale il triestino fa sicuramente tesoro[77]. Scelto per i Kammerspiele del Deutschen Theaters di Berlino la sera dell’8 novembre 1906, lo spettacolo ruota intorno al dramma di Helene (Agres Sorma) che con soluzioni naturalistiche esprime la parabola dell’intimo dolore materno in parallelo all’evolversi della malattia del figlio, reso da Moissi con un doppio registro espressivo: da un lato cancella la gestualità tutta esteriore del disfacimento fisico e mentale e assume un atteggiamento di tenerezza e timidezza; dall’altro lato il suo virtuosismo vocale ricorda l’opera lirica, sottolinea Alfred Kerr, il quale si chiede: «Moissi conosce Osvald di Zacconi?» e conclude «Moissi può aver visto Zacconi, oppure no; questo giovane artista ha dato un’interpretazione splendida»[78].

Nell’edizione italiana qualcosa in parte è cambiato. Se «Moissi vive il dramma con un senso di pudore tremante e pacato […], di profondamente sofferto», come aveva prescritto la regia di Reinhardt, è la voce a presentare significativi mutamenti: non più solo effetti zacconiani ma «toni felpati, grigi, tenuti sempre in sordina sulle corde minori» fino alla confessione fatta alla madre che culmina in un terribile crescendo[79]. Così l’ultima battuta «Mamma! Dammi il sole!» si risolve in un atteggiamento di «eleganza stilistica, quasi di collocazione musicale»[80]. Maria Fabbri, in scena nella parte di Regina, chiarisce questa battuta decisiva di Spettri come «il progredire della catastrofe, la perdita totale di ogni connotato umano» accompagnato da un’espressione terribile: «Nessuno, io credo, che abbia mai visto quel viso diventare a poco minerale, potrà dimenticarne l’orrore»[81].

La rappresentazione della morte spoglia di ogni suggestione esteriore, quasi un silenzioso e invisibile punto di arrivo del destino, è il filo conduttore degli spettacoli applauditi dal pubblico italiano. Lo si è visto ne La Leggenda di Ognuno, Il cadavere vivente e in Spettri. A questi si aggiunge Louis Dubedat, il pittore geniale e immorale de Il dilemma del dottore di George Bernard Shaw, che Sir Colenso Ridgeon, il medico che ha scoperto un nuovo metodo di cura per guarire la tubercolosi, alla fine lascia morire favorendo per l’unico posto disponibile per il ricovero ospedaliero il modesto amico e collega Blenkinsup, mosso anche dall’amore nutrito verso la moglie dell’artista[82]. La tagliente e acerba satira della professione e della morale del medico sfuma, nella lettura moissiana, nei colori autunnali della morte dell’arte intesa come la bellezza assoluta, nel moto di purificazione e di santificazione per i tormenti dell’anima. In questa parabola funerea, come ne Il cadavere vivente, l’uomo Moissi si identifica con il protagonista di Shaw, con il quale condivide la stessa malattia e di lì a breve seguirà lo stesso destino.  «Una commedia di Shaw, nel repertorio di questo singolare attore non stona: lo completa, anzi, lo elabora preziosamente», commenta Gino Rocca che a posteriori ricorderà «le sue mani congiunte nell’agonia […], nell’atto di salutare restio, volgendo le pupille in alto verso il naufragio dell’eterna luce, dell’eterna pace, dell’eterno oblio…»[83].

Il 13 febbraio 1935 al Teatro Manzoni di Milano debuttano nella stessa serata Il Pappagallo Verde di Arthur Schnitzler, novità assoluta per l’Italia, e Tutto il male vien di lì di Lev Tolstoj[84]. «Nell’una e nell’altra prova, sottolinea Gino Rocca, Alessandro Moissi ha saputo essere diversamente grande»[85]. Nella prima, nei panni di Henri, evidenzia le sue doti tragiche culminate nell’assassinio del rivale d’amore; nella seconda conferma l’attitudine per i personaggi falliti, illusi, mistici.

Il dato sorprendente è sia la direzione artistica assunta da Moissi nella commedia russa, in cui recita la parte del Passante, segno di un nuovo percorso avviato dall’attore all’interno del teatro, che la regia del testo dello scrittore austriaco firmata da Guido Salvini. Non sono noti i motivi che sottostanno alla doppia operazione, tuttavia Salvini possiede le giuste competenze artistiche maturate a fianco di Max Reinhardt, prima come assistente alla regia nel Sogno di una notte di mezza estate allestito al Giardino di Boboli di Firenze nell’ambito nella prima edizione del Primo Maggio Musicale Fiorentino, poi in qualità di stretto collaboratore ne Il principe si diverte, riduzione scenica de Il pipistrello di Strauss, presentato all’Excelsior di San Remo nel 1934. Considerato il proficuo rapporto umano e artistico del regista austriaco con Moissi, non è da escludere una sua mediazione per stabilizzare la posizione dell’attore italo-austriaco negli ingranaggi produttivi dello spettacolo italiano, favorendo nuove esperienze creative parallele all’attività in ditta con Wanda Capodaglio. Una era di recente realizzazione, l’altra in cantiere.

Tra la fine del 1934 e del 1935 Moissi completa infatti le riprese del film Lorenzino de’ Medici diretto da Guido Brignone che gli affida la parte del titolo, affiancato da Camillo Pilotto, Germana Paolieri, Uberto Palmarini, Teresa Franchini[86].

Nell’agosto dello stesso anno, accompagnato da Wanda Capodaglio e Pio Campa, incontra a Viareggio Luigi Pirandello. Il drammaturgo gli legge il primo atto di Non si sa come, dramma in elaborazione. L’idea è di affidare la parte del conte Romeo Daddi a Moissi, il quale, come si è visto, era stato suo grande interprete sui palcoscenici di Austria e Germania. I comuni legami con il mondo tedesco producono un  ambizioso progetto, che per Moissi significa assolvere la funzione di mediatore tra due culture come dichiarato dallo stesso nella citata La mia missione nel teatro italiano, e per Pirandello mantenere un rapporto di continuità con le platee tedesche. 

Moissi suggerisce il nome del traduttore, l’amico e scrittore Stefan Zweig, che, appena accettato l’invito, si mette immediatamente al lavoro, quasi in contemporanea con la stesura del testo in via di completamento[87].  Ma l’attore critica molto l’impianto narrativo dei primi due atti. Contesta soprattutto lo sbilanciamento del dramma a favore di Ginevra e non di Romeo in quanto privato della decisiva confessione dell’adulterio a Bice. Su insistenza del figlio Stefano, il drammaturgo riscrive immediatamente la scena fondamentale. La nuova versione non soddisfa ancora. In discussione è il terzo e conclusivo atto: «la chiusa – si legge in una lettera spedita da Vienna il 18 settembre 1934 – […], data la situazione creata nei primi due atti, vorrebbe essere altamente drammatica oppure totalmente chiara da mostrare che la larga consistenza quotidiana dei personaggi presentati non basta a riempire una vita, bisogna accentuare che la vita di quelle persone – dopo l’accaduto – è condannata a rimanere inesorabilmente vuota»[88].

Le preoccupazioni di Moissi riguardano anche la ricezione della commedia in Italia, dove «il nome dell’autore è in paese una certa protezione ma se P[irandello] si dimostrerà nemico dei tagli – il che temo vivamente – me la vedo brutta e nessun attore la salverà dalla debacle anche in patria»[89]. L’attore propone di «rappresentare in prima mondiale il dramma Vienna [al Deutsches Volkstheater] nella primavera del 1935, e in seguito in Italia e nella tournée che avremmo fatto nell’America del Sud dello stesso anno», ricorda la Capodaglio[90].

In un’altra lettera inviata a Campa da Vienna l’8 ottobre scrive: «Non si sa come è una vera tragedia, non il lavoro, ma bensì l’impressione che fece su drammaturghi e direttore [del Deutsches Volkstheater di Vienna]. Il I atto piacque, il II una pena, un doloroso stiracchiare, senza drammaticità, senza vita. E il III poi convinse tutti che questo lavoro – a Vienna – è condannato a cadere». Inoltre «la traduzione è veramente magistrale, migliore dell’originale». Le stesse obiezioni avanzate dall’attore sul terzo atto sono sostenute con toni piuttosto accesi e polemici anche da Rolf Jahn, intendente del Deutsches Volkstheater in una lettera inviata allo stesso attore, che recapita all’avvocato Mauri, segretario di Pirandello[91].

Il drammaturgo, di solito tenace difensore del proprio operato e della indipendenza creativa, questa volta cede e aggiunge il desiderato colpo di scena ad affetto tragico, ossia la revolverata del rivale Giorgio Vanzi a Romeo. Malgrado ciò, si rinvia il debutto viennese, si opta per il Teatro Nazionale di Praga (19 dicembre 1934) grazie all’intervento di Gian Battista Angioletti, direttore del nuovo Istituto Italiano di Cultura della città boema, e si pensa a quello italiano, ipotizzato al Teatro Manzoni di Milano il 30 gennaio 1935. Ma nascono problemi in merito alla distribuzione delle due parti femminili, per l’opposizione di Marta Abba di figurare a fianco di Wanda Capodaglio. Tutto si ferma. Moissi, impegnato a San Remo con le recite de Il pappagallo verde e di Tutto il male vien di lì è colpito dalla febbre, rientra precipitosamente a Vienna e muore il 23 marzo per l’aggravarsi della tubercolosi.

La contesa del passaporto

La salma dell’attore viene trasferita nella camera ardente del cimitero del crematorio viennese. Al rito funebre sono presenti esponenti del mondo della cultura, direttori di teatri cittadini, amici e colleghi tra cui Ida Roland. Albert Bassermann si sfila dal dito il leggendario anello di Iffland, che secondo la tradizione avviata nel 1814 avrebbe dovuto trasmettersi di volta in volta al più grande interprete del teatro nazionale, e lo posa sul corpo del defunto e pronuncia questa frase: «Portalo con te, perché questo anello ha rappresentato i nostri sogni, le nostre speranze. Con te è morto il grande teatro tedesco e la nostra Germania»[92]. Dopo l’introduzione musicale eseguita da un organo, il console Generale Ubaldo Rochira, a capo di una delegazione fascista, tiene un breve discorso in lingua italiana in cui dichiara: «Noi rispettiamo il desiderio del defunto che su feretro non si tengano encomi. Noi vogliamo però porgere l’ultimo saluto e qui dire che lui è diventato un grande artista e un cittadino italiano», per effetto del telegramma di Mussolini che gli concedeva la cittadinanza italiana e recapitato da Johanna Moissi negli ultimi momenti di vita del marito. In merito, pur non sbilanciandosi troppo, i giornali viennesi parlano di speculazione politica. Infine il protocollo prevede l’esecuzione di un toccante adagio di Beethoven da parte di Bruno Walter, pianista e direttore d’orchestra, accompagnato da, Arnold Rosè, noto violinista della Wiener Philharmonic Orchestra[93].  

Allora, il funerale celebra un attore tedesco secondo il gesto di Bassermann? E’ invece l’ultimo saluto, come traspare dalle parole di Rochira, ad un attore con passaporto italiano, anche se da poche ore? Oppure albanese, considerate le origini del padre Konstantin e la sua frequentazione della scuola elementare a Durazzo imparando l’albanese e il greco, motivo per cui re Zog I aveva offerto da diversi anni la cittadinanza a Moissi?[94].

Le risposte italiane, al di là del nazionalismo diplomatico espresso da Rochira, avvolgono la figura di Moissi in un’aurea poetica lontana dalle ragioni di Stato. E’ un atteggiamento di avvicinamento e allontanamento da un oggetto avvertito come misterioso, non ancora assimilato e posizionato nella scacchiera del teatro italiano. «Certo per noi italiani Moissi apparve e disparve», scrive Gino Rocca che aggiunge: «Zingaro sognatore, trovò finalmente una meta. Questa meta non poteva essere che un palco costruito dalla natura fra rivoli, quinte, canzoni e mari: l’Italia»[95]. L’immagine dello spirito errante è assunta anche da Renato Simoni che conclude il suo ricordo immortalando la morte prematura «come il pellegrino che ogni alba che spunta ritrova la più consolante serenità: anche l’alba del gran giorno che gli uomini chiamano morte»[96]. Il senso di esilio permanente, «nella realtà e nell’anima» costituisce la sostanza dell’enigma di Moissi, come lo ricorda Maria Fabbri, sua compagna di palcoscenico, specificando: «Egli era stato cittadino di molte patrie e di molti linguaggi incominciava a sentirsi straniero», e concludendo che «in fondo, in anticipo di quarant’anni era un Beat dei nostri giorni. Avrebbe volentieri cantato sulle piazze»[97].

In Austria la rivendicazione del passaporto non è messa in discussione e si considera il biennio di Moissi in Italia solamente un’importante esperienza artistica, una delle tante che aveva visto Moissi impegnato sui palcoscenici internazionali.

Dalla Germania è significativa la voce di Bertolt  Brecht: «Però io non credo che si possa considerare Moissi soltanto un attore tedesco. Ancora non si è ben capito perché è stato per tutti noi così importante e già diverse nazioni litigano per appropriarsene»[98].

Ma Aleksandër Moisiu per gli albanesi, Alexander Moissi per i tedeschi, Alessandro Moissi per gli italiani, probabilmente consapevole di diventare oggetto di futili rivendicazioni nazionalistiche, nelle sue ultime volontà aveva espresso il desiderio di riposare nel piccolo e sconosciuto cimitero di Morcote, in riva al lago di Lugano, dove si rifugiava spesso negli ultimi anni di vita. Sulla lapide, circondata da rose selvatiche, è semplicemente inciso: Alessandro Moissi 1879-1935.                     



[1] A. Moissi, Meine Mission im italienischen Theater, in ‹‹Neue Freie Presse››, 13 Dezember 1934. In italiano l‘articolo si legge in A. Moissi, La mia missione nel teatro italiano, in Moissi, a cura di A. Dugulin, presentazione di G. Bravor, Trieste, Civici musei di storia ed arte, 1986, p. 103 e p. 105.

[2] F. Molnár, Zugvogel Moissi, in Moissi. Der Mensch und der Künstler in Worten und Bildern, a cura di H. Böhm, Berlin, Eigenbrödler Verlag, 1927, p. 93.

[3] G. Moissi, La prima rivelazione di Moissi, in ‹‹Nuova Antologia››, novembre-dicembre 1943, vol. CDXXX, p. 233. Giovanna Moissi è l’attrice Johanna Terwin, seconda moglie di Alexander e anche sua compagna di scena. La citazione, nella traduzione di Pio Campa, è tratta  dalla biografia dedicata al marito che stava scrivendo. Il progetto non fu mai realizzato e gli appunti e altri materiali sono conservati alla Österreichische Nationalbiblioteck di Vienna.    

[4] Vedi A. Moissi, Mein Debut im Burgtheater,  in Moissi. Der Mensch und der Künstler in Worten und Bildern, cit., pp. 25–27.

[5] G. Moissi, La prima rivelazione di Moissi, cit., p. 239.

[6] E. Faktor, Der Schauspieler. Alexander Moissi, Erich Reiss o. J., Berlin,  1920, p. 17.

[7] ‹‹Prager Tageblatt››, 22 September 1903

[8] M. Reinhardt, Discorso sull’attore (1930), in M. Fazio, Lo specchio il gioco e l’estasi. La regia teatrale in Germania dai Meininger a Jessner (1874 – 1933), Roma, Bulzoni, 2003, p. 184.

[9] J. Bab – W. Handl, Deutsche Schauspieler. Porträts aus Berlin und Wien, Berlin, Oesterheld & Co, 1908, pp. 114-126.

[10] F. Salten, Moissi, in Moissi,  cura di H. Böhm, cit., pp. 7-15.

[11] A. Polgar, Reinhardt in Wien, in ‹‹Die Schaubühne››, VI. Jahrgang, 16 Juni 1910, Nummer 24/25, pp. 642-643. Amleto, per la regia di Max Reinhardt, aveva debuttato al Künstlertheater di Monaco il 17 giugno 1909, ed era stato presentato al Deutsches Theater di Berlino il 16 ottobre dello stesso anno con la partecipazione di Alexander Moissi (Amleto), Paul Wegener (Claudio, Re di Danimarca), Adele Sandrock, (La regina), Camilla Eibenschütz (Ofelia), Eduard von Winterstein (Orazio). Nel cast della rapprentazione viennese Lucie Höflich  assume la parte di Ofelia, Tilla Durieux quella della regina, mentre Moissi mantiene il ruolo del titolo ed è sempre presente negli altri due spettacoli iscritti nel programma della tournée del Deutsches Theater. Ne I masnadieri di Schiller è Spiegelberg, nella shakesperiana Dodicesima notte interpreta il buffone.

[12] Il cadavere vivente di Lev Tolstoj aveva debuttato il 23 settembre 1911 al Teatro dell’Arte di Mosca per la regia di Dancenko. La prima edizione in lingua tedesca del testo tradotto da August Scholz è firmata da Max Reinhardt al Deutsches Theater di Berlino il 7 febbraio 1913. Nell’ensemble figurano, tra gli altri, Alexander Moissi (Fedja), Lucie Höflich (Lisa), Gina Mayer (Sascha), Eduard von Winterstein (Viktor Karenin), Johanna Terwin (Mascha).

[13] P. Schlenther, in ‹‹Berliner Tageblatt››, 8 Februar 1913, cit. in Von der Freien Bühne zum politischen Theater.  Drama und Theater im Spiegel der Kritik, a cura di H. Fetting, Leipzig, Reclam, 1987, Band 1, pp. 488-490.

[14] E. Lothar, in ‹‹Neue Freie Presse››, 26 Februar 1925.

[15] M. Harden, Sein Weg, in Moissi,  a cura di H. Böhm, cit., pp.17-18.                      

[16] S. Jacobsohn, Und das Licht scheint in der Finsternis, in ‹‹Die Weltbühne››, XIV Jahrgang, 15 Dezember 1918, Nummer 50, pp. 586-588. La commedia di Tolstoj debutta l‘8 novembre 1918 al Deutsches Theater di Berlino con  l’interpretazione, nei ruoli principali, di Alexander Moissi (Nikolaj Ivanovic Saryncev), Lucie Höflich (Mar'ja Ivanovna Sarynceva), Rosa Bertens (Aleksandra Ivanovna Kochovceva), Wilhelm Diegelmann (Petr Semenovic Kochovcev), Ernst Deutsch (Boris).

[17] Vedi A. Polgar, Und das Licht scheint in der Finsternis…, in ‹‹Die Weltbühne››,  XV Jahrgang, 19 Juni 1919, Nummer 26, pp. 714-716 e R. Zifferer, in ‹‹Neue Freie Presse››, 22 Mai 1919.

[18] C. von Hofmannsthal, Tagebücher 1918-1923 und Briefe des Vaters an die Tochter 1903-1908, a cura di M. Rauch e G. Schuster, Frankfurt, S. Fischer Verlag, 1991, p. 49.      I testi di Hofmannsthal interpretati da Moissi sono Elettra da Sofocle nel 1903, Edipo e la sfinge nel 1906, Il folle e la morte nel 1908, Il ritorno di Cristina ed Edipo Re da Sofocle nel 1910, La leggenda di Ognuno nel 1911.

[19] Moissi aveva già recitato la tragedia schilleriana al Neues Deutsches Theater di Praga nel 1901 interpretando il Grande inquisitore e nel 1903 la parte secondaria di Domingo. Max Reinhardt, nella messinscena al Deutsches Theater di Berlino del 10 novembre 1909, gli affida il marchese di Posa e gli affianca i suoi migliori attori, quali Harry Walden (Don Carlos), Albert Bassermann (Filippo II), Else Heims (Elisabetta di Valois) e Tilla Durieux (Principessa di Eboli). Nella nuova edizione del 1917 (9 novembre), ad eccezione di Moissi, subentrano cambiamenti nella distribuzione dei ruoli di Don Carlos (Paul Hartmann), Filippo II (Paul Wegener), Principessa di Eboli (Marie Fein).             

[20] Il critico della ‹‹Neue Freie Presse››,  19 September 1922, scrive che  «non si è tenuto conto dell’onore di Schiller, bensì dell’onore di Moissi».

[21] ‹‹Wiener Zeitung››, 18 September 1922.

[22] ‹‹Neue Freie Presse››, 8 Juni 1922. Moissi interpreta la tragedia schilleriana a più riprese e ricoprendo ruoli diversi. Nel 1900 al Burgtheater assume il ruolo dei libertini Spiegelberg e Kosinsky, nel 1902 diventa Franz Moor nell’edizione allestita al Königlich Deutsches Landestheater di Praga e l’anno successivo si alterna nelle parti di Karl e Franz Moor al Neues Deutsches Theater di Praga. A Berlino, dopo un’esibizione poco convincente all’Ostendtheater nel 1904, trionfa come Spiegelberg nel 1908 guidato dalla regia di Reinhardt sul palcoscenico del Deutsches Theater e affiancato da attori di primo piano quali Rudolf Schildkraut (Maximilian Moor), Lucie Höflich (Amalia), Paul Wegener (Franz Moor), gli stessi che si faranno applaudire nella tournée viennese nel maggio 1910. Il secondo contatto con il pubblico viennese avviene nel 1919 nella sala della Neue Wiener Bühne e Moissi è ospite dell’ensemble diretta da Karl Miksch e formata da Alexander (Franz Moor); Cäcilie Lvovsky (Amalia), Fritz Bantli (Karl Moor) e Leopold Thurner (Maximilian Moor). 

[23] ‹‹Neue Freie Presse››, 11 März 1925.    Il cast della compagnia del Deutsches Volkstheater guidata da Friedrich Rosenthal è formato da Franz Scharwenka (Mefistofele), Charlotte Hagenbruch (Margherita), Erna Ludwig (Greta). 

[24] ‹‹Wiener Zeitung››, 9  März 1925.

[25] ‹‹Neue Freie Presse››, 9 März 1925.

[26] S. Jacobsohn, Faust, in ‹‹Die Schaubühne››, V. Jahrgang, Numer 15, 15 April 1909, pp. 414-415. Moissi subentra a Friedrich Kaysler nel ruolo di Faust a partire dalla replica del 26 marzo 1909 e con lui recitano Rudolf  Schildkraut (Mefistofele), Paula Wegener (Margherita), Eduard von Winterstein (Valentino), Lucie Höflich (Greta). 

[27]  S. Jacobsohn, Turandot in Berlin, in ‹‹Die Schaubühne››, VII. Jahrgang, Numer 44, 2 November 1911, pp.399-401.

[28]  C. Gozzi, Turandot, in Fiabe teatrali, introduzione e note di Alberto Beniscelli, Milano, Garzanti, 1994, atto primo, scena terza, p. 134.

[29]  La messinscena della fiaba teatrale di Carlo Gozzi, tradotta da Karl Volmoeller, debutta il 27 ottobre 1911 al Deutsches Theater di Berlino. Gli attori principali diretti di Reinhardt sono: Gertrud Eysoldt (Turandot), Alexander Moissi (Principe Calaf), Wilhelm Diegelmann (Imperatore).   

[30] F. Busoni, Sulla musica per  «Turandot», in «Blätter des Deutschen Theaters», Berlin, Nummer 6, Oktober 1911, cit. in F. Busoni, Lo sguardo lieto. Tutti gli scritti sulla musica e le arti, a cura di F. D’Amico, Milano, Il Saggiatore, 1977, pp. 171-172.

[31] L‘idea di Arlecchino o le finestre (Arlecchino oder die Fenster) risale al 1914 e nasce dalla visione di una recita dell’attore veneziano Emilio Picello, impegnato ne L’inutile precauzione, in un teatro di Bologna nell’aprile 1912, che  «tentava di far rivivere l’antica commedia dell’arte e impersonava e recitava la parte del mio eroe in modo superlativo». Inoltre nello stesso periodo  «feci la conoscenza del teatro di marionette di Roma (il Teatro dei Piccoli di Vittorio Podrecca, ndr.), la cui rappresentazione di una piccola opera comica di Rossini (L’occasione fa il ladro ossia il cambio della valigia, ndr.) mi fece una forte impressione» (F. Busoni, La genesi dell’«Arlecchino», in S. Sablich, Busoni, Torino, E.D.T., 1982, p. 182. La stesura dell’opera è interrotta e poi ripresa verso la fine del 1915 durante il soggiorno americano. L’atto unico è diviso in quattro parti – Arlecchino come maschera, Arlecchino come guerriero, Arlecchino come marito, Arlecchino come vincitore – e prevede due monologhi recitati dal protagonista. Il primo è declamato davanti al sipario ed espone l’argomento della vicenda; il secondo, che precede la danza finale con gli sberleffi dell’eroe vittorioso, riassume la morale della favola.

[32]  Il piacere dell’onestà (Die Wollust der Anständigkeit), commedia presentata al Deutschen Volkstheater  di Vienna il 25 marzo 1925 costituisce una novità assoluta per l’Austria ed è affidata ad Alexander Moissi (Angelo Baldovino), Erika Wagner (Agata Renni), Pauline Schweighofer (Signora Maddalena), Hans Ziegler (Maurizio Setti), Viktor Kutschera (Il parroco). 

[33]  A. Pogar, Die Wollust der Anständigkeit, in ‹‹Die Weltbühne››, XXI. Jahrgang, 28. April 1925, Nummer 17, pp. 632-633.

[34}  E. Lothar, in ‹‹Neue Freie Presse››, 26 März 1925.

[35] ‹‹Neues 8 Uhr Blatt››, 26 März 1925.

[36] ‹‹Arbeiter Zeitung››, 27 März 1925.

[37] A. F., in ‹‹Wiener Zeitung››, 26 März 1925.

[38] La rappresentazione berlinese di Enrico IV (Heinrich IV., anche con il titolo Die lebende Maske) era stata preceduta da altri allestimenti in Germania sempre nel 1925: il 25 marzo al Thalia Theater di Amburgo (regia di Hermann Röbbeling), il 3 ottobre allo Städtische Theater – Aires Haus di Lipsia (regia di Erich Schönlank) e il 14 novembre allo   Städtische Theater – Grosses Haus di Düsseldorf (regia di Josef Münch). Tradotto da Hans Feist,  per incarico dello stesso Pirandello, sul palcoscenico del Theater die Tribüne  il dramma è interpretato da Alexander Moissi (Enrico IV), Leontine Sagan (Matilde Spina), Ernst Stahl-Nachbaur (Tito Belcredi), Erna Reigbert (Frida), Richard Duschinsky (Carlo di Nolli), Karl Ettlinger (Dionisio Genoni). Approfondimenti si leggono in M. Cometa, Il teatro di Pirandello in Germania, Palermo, Novecento, 1986, pp. 121-127.

[39] S. Jacobsohn, Pirandello und Shaw, in ‹‹Die Weltbühne››,  XXI. Jahrgang, 1 Dezember 1925, Nummer 48, pp. 839-842. 

[40] A. Klaar, in ‹‹Vossische Zeitung››, 21 November 1925. 


[41]  Nella locandina si legge Die lebende Maske, titolo preferito a Heinrich IV., la regia della messinscena compete a Hans Peppler, gli attori impegnati nei ruoli principali sono: Alexander Moissi (Enrico IV), Helene Lauterböck (La Marchesa Matilde Spina), Nelly Hochwald (Frida), Hans Homma (Il barone Tito Belcredi).


[42] Cfr. Il quotidiano  ‹‹Arbeiter Zeitung››, 30 März 1926. „Era il ruolo adatto per Moissi“. 

[43]  ‹‹Wiener Zeitung››, 30 März 1926. Vedi anche la recensione di E. Lothar, Der Fall Pirandello, in ‹‹Neue Freie Presse››, 30 März 1926. 

[44] A. Kahane, Tagebuch des Dramaturgen, Berlin, Cassirer Verlag, 1928, p. 121. Vedi anche O. Signorelli, Eleonora Duse, Roma, Casini, 1959, pp. 149-150 («Abbiamo parlato tanto e tanto che siamo senza fiato») e R. Schaper, Moissi. Triest Berlin New York. Eine Schauspielerlegende, Berlin, Argon, 2000, pp. 238-239.

[45] Nell’agosto 1914 Moissi si arruola volontariamente nell’esercito di Germania con il grado di sottoufficiale. Il 16 settembre 1915 è catturato nella zona di Calais e condotto nel campo di prigionia di Belle-Ile-en-Meer, isola francese al largo della costa della Bretagna. Si ammala di tubercolosi e perciò ottiene nell’estate 1916 il trasferimento ad Arosa in Svizzera. Pur prigioniero di guerra, riprende l’attività di attore e viene scritturato da Alfred Reucker, direttore dello Schauspielhaus di Zurigo, per la stagione 1916/1917. Nel gennaio 1917 si aggrega alla compagnia del Deutsches Theater diretta da Reinhardt  e figura nel cast di Come vi piace e Orestea in scena a Berna e Zurigo. La prigionia termina a settembre. 

[46] Il saluto di Alessandro Moissi alla sua città è pubblicato dal quotidiano «Il lavoratore», 5 maggio 1918. Edipo Re di Sofocle, nella rielaborazione drammaturgica di Hugo von Hofmannsthal, aveva debuttato alla Volksbühne di Vienna il 26 aprile 1918 con i seguenti attori: Alexander Moissi (Edipo), Annie Ernst (Giocastra), August Bomber (Creonte). A Trieste nella compagnia austriaca subentrano cambiamenti con l’inserimento di Johanna Terwin (Giocastra) e Paul barnay (Creonte). In precedenza Moissi aveva interpretato lo stesso ruolo nell’edizione curata da Max Reinhardt alla Musikfesthalle di Monaco con Tilla  Durieux, Tilla (Giocastra), Eduard von Winterstein (Creonte), Paul Wegener (Tiresia).

[47] A. (riele), in «Il lavoratore»,  5 maggio 1918.

[48] «Gazzetta di Trieste», 6 maggio 1918.

[49]  «L’Osservatore Triestino», 7 maggio 1918. Per una rassegna stampa completa vedi A. Dugulin, L‘anima sotto la pelle: Moissi, in G. Pressburger, Eroe di scena fantasma d’amore (Moissi), Trieste, Teatro Stabile del Friuli – Venezia Giulia, Quaderno n. 32, Nuova Serie, 1985, pp. 7-8.

[50] «Il Lavoratore»,  7 maggio 1918. I ruoli principali competono ad Alexander Moissi (Amleto), Johanna Terwin (Ofelia), Olga Trajer (La regina).

[51] «Il Lavoratore», 8 maggio 1918. Il cast di Spettri in scena il 6 maggio 1918 al Teatro Comunale di Trieste è formato da Alexander  Moissi (Oswald), Else Schilling  (Signora Alving), August Momber (Pastore Manders), Johanna Terwin (Regina). 

[52] La portata dell’evento  si rispecchia anche nella documentazione fotografica, che rimane la più esaustiva per l’esperienza italiana di Moissi. Oltre alle sette immagini pubblicate da Lavinia Mazzucchetti nella recensione a “La leggenda di Ognuno” (in «Comoedia», anno XV, 15 luglio – 15 agosto 1933-IX, pp. 7-9), da Mario Corsi nel volume Il teatro all’aperto in Italia, Milano-Roma, Rizzoli, 1939, pp. 47-49), e dai quotidiani, il Fondo Moissi-Capodaglio, conservato presso il Teatro della Pergola di Firenze, possiede la locandina, fotografie di scena e il bozzetto preparatorio del palcoscenico disegnato da Faludi.

[53] La leggenda di Ognuno (Jedermann. Das Spiel vom Sterben des reichen Mannes) di Hugo von Hofmannsthal è presente nel repertorio di Mossi dal 1910, anno del debutto al Circo Schumann di Berlino (1 dicembre) per la regia di Max Reinhardt e con i migliori attori della compagnia del Deutschen Theaters, quali Eduard von Winterstein, (Il buon amico di Ognuno), Mary Dietrich (La fede), Paul Wegener (Il Mammone), Alfred Brederhoff (La morte), Gertrud Eysoldt (Le buone opere). Seguono le riprese al Metropol Theater di Berlino nel 1914, allo Stadttheater di Zurigo nel 1916 e le famose edizioni sul sagrato di Piazza Duomo di Salisburgo negli anni 1920-1921 e 1926-1931. Il dramma è presente nei programmi delle tante tournée internazionali della compagnia del Deutschen Theaters, da Budapest e Praga nel 1912, Vienna nel 1920, 1921 e 1929, negli Stati Uniti nel 1928 e Argentina nel 1931.  
Nell’edizione milanese i ruoIi principali sono così didtribuiti: Alexander Moissi (Ognuno), Alessandro Ruffini (La Morte), Giulio Stival (Il buon amico), Pio Campa (Il Mammone), Laura Adani (Le Opere), Wanda Capodaglio (La Fede). 

[54] S. d’Amico, «La leggenda di Ognuno» di Hofmannsthal, nel chiostro di Sant’Ambrogio, in Cronache del Teatro. 1924-1954, a cura di F. Palmieri e S. d’Amico, Bari, Laterza, 1964, pp. 256-261. 

[55] L. Mazzucchetti, «La leggenda di Ognuno», cit., p. 8.

[56] R. Simoni, in «Corriere della Sera»,11 luglio 1933.

[57] P. de Flaviis, in „L’Ambrosiano“, 11 luglio 1933.

[58] Racconta Wanda Capodaglio: «Quando mi trovai in presenza di Moissi, sul palcoscenico del Teatro Lirico (dove si svolgono le prove di La leggenda di Ognuno, ndr), la mia impressione fu di stupore: avevo immaginato per l’interprete di tanti classici, per il discepolo di Reinhardt, una figura imponente, una voce tonante, qualcosa di eroico in ogni gesto, invece mi apparve una figura del tutto indifferente. Biondo, esile, umile, ingenuo, una maschera mobilissima, due grandi occhi inquieti e penetranti, dai quali traspariva il tormento interiore» (cit. da L. Bragaglia, Wanda Capodaglio attrice, Roma, Bulzoni, 1981, p. 81).

[59] L’epistolario Campa-Moissi è pubblicato da A. Dugulin, Alexander Moissi: un compagno che abbiamo perduto ma non vogliamo perdere, in Moissi, cit., pp. 18-23 e 71-84.

[60] I ventotto personaggi de Il cadavere vivente sono così distribuiti nei ruoli principali: Alexander Moissi (Fedja), Wanda Capodaglio (Lisa), Miranda Campa (Sascha),Pio Campa (Viktor Karenin), Maria Fabbri (Mascha).  La compagnia Moissi-Capodaglio iscriverà il dramma tolstojano nella programmazione della tournée del 1934 con tappe a Torino (Politeama Chiarella, 15 febbraio), Como (Teatro Trotta, 21 febbraio), Gallarate (Teatro Condominio, 22 febbraio), Varese (Teatro Sociale, 23 febbraio), Crema (Teatro Sociale, 24 febbraio), Lodi (Teatro Comunale, 25 febbraio), Padova (Teatro Garibaldi, 26-27 febbraio), Treviso (Teatro Garibaldi, 28 febbraio), Fiume (Teatro Fenice, 1 marzo), Trieste (Teatro Verdi, 3-4 marzo), Venezia (Teatro Goldoni, 7 marzo), Verona (Teatro Nuovo, 12 marzo), Bergamo (Teatro Nuovo, 15 marzo), Milano (Teatro Olimpia, 31 marzo), Parma (Teatro Regio, 9 aprile), Firenze (Teatro Verdi, 12 aprile), Roma (Teatro Valle, 18 aprile), Livorno (Politeama, 27 aprile), San Remo (Teatro del Casino Municipale, 2 maggio), Genova (Teatro Paganini, 8 maggio), Brescia (Teatro Sociale, 14 maggio), Trento (Teatro Sociale, 21 maggio), Padova (Teatro Garibaldi, 24 maggio), Trieste (Politeama Rossetti, 27 maggio), Venezia (Teatro Goldoni, 1 giugno), Vicenza (Teatro Eretenio, 4 giugno), Mantova (Teatro Andreani, 5 giugno), Modena (Teatro Storchi, 6 giugno), Reggio Emilia (Teatro Ariosto, 7 giugno), Bologna (Arena del Sole, 8 giugno). Il dramma di Tolstoj sarà scelto come spettacolo inaugurale della stagione 1933-1934, che si apre con la recita al Teatro Argentina di Roma il 3 novembre e prosegue a Terni (Teatro Verdi, 2 dicembre), Napoli (Teatro Sannazaro,  7 dicembre), Siena (Teatro de’ Rozzi, 12 dicembre), Firenze (Teatro della Pergola, 14 dicembre), Ferrara (Teatro Comunale, 19 dicembre), Bolzano (Teatro Civico, 21 dicembre), Vicenza (Teatro Eretenio, 25 dicembre), Trieste (Teatro Verdi, 2 gennaio 1935), Fiume (Teatro Comunale, 4 gennaio), Venezia (Teatro Goldoni, 6 gennaio), Verona (Teatro Nuovo, 13 gennaio), Cremona (Teatro Verdi, 14 gennaio), Rovigo (Teatro Sociale, 19 gennaio), Ravenna (Teatro Alighieri, 22 gennaio), Cesena (Teatro Comunale, 23 gennaio), Forlì (Teatro Comunale, 24 gennaio), Faenza (Teatro Comunale, 25 gennaio), Lecco (Teatro Sociale, 28 gennaio), Milano (Teatro Manzoni, 31 gennaio), Bergamo (Teatro Nuovo, 19 febbraio), Genova (Teatro Paganini, 28 febbraio), Firenze (Teatro della Pergola, 3 marzo).  Il cadavere vivente è un altro cavallo di battaglia di Moissi. Il debutto risale al 1913, sul palcoscenico del Deutsches Theater di Berlino, per la regia di Max Reinhardt e la partecipazione nei ruoli principali di Alexander Moissi (Fedja), Camilla Eibenschütz (Lisa), Gina Mayer (Sascha), Eduard von Winterstein (Viktor Karenin), Johanna Terwin (Mascha). Seguono le tournée a Praga (Neues Deutsches Theater, 19 maggio 1913), in Svizzera nel 1916-1917, la nuova edizione berlinese nel 1917 con repliche nel 1920, 1922, 1927, l’ospitalità di Moissi nella ensemble della Volksbühne di Vienna (1918 e 1919, 1922, 1923) e Neuer Wiener Bühne (1920, 1921) Deutsches Volkstheater di Vienna (1923, la nuova tournée con la compagnia del Deutsches Theater di Berlino a Budapest (1918), in Svezia, Romania e Svizzera nel 1921, in Olanda nel 1923, Ungheria e Russia nel 1924, Parigi 1927, New York, Cincinnati, Pittsburgh 1928, Egitto 1930, Argentina e Messico nel 1931.

[61] C. Lari, in «Il Secolo – La sera», 4 febbraio 1934.

[62]  P. de Flaviis, in «L’Ambrosiano», 3 febbraio 1934.

[63]  G. Rocca, in «Il popolo d’Italia», 3 febbraio 1934.

[64]  R. Simoni, in «Corriere della Sera», 3 febbraio 1934.

[65]  m.i., in «La stampa», 16 febbraio 1934.

[66]  A. G. Bragaglia, in «Gazzetta del popolo», 19 aprile 1934.

[67] Dopo Fedja de Il cadavere vivente, Amleto rappresenta il ruolo che maggiormente ha impegnato Moissi nel corso della sua carriera, a partire dal debutto al Künstlertheater di Monaco (17 giugno 1909) con la regia di Max Reinhardt e la partecipazione nei ruoli principali degli attori della compagnia del Deutschen Volkstheaters di Berlino quali Paul Wegener (Claudio, Re di Danimarca), Adele Sandrock (La regina), Camilla Eibenschütz (Ofelia), Eduard von Winterstein (Orazio). Seguono diverse riprese al Deutschen Volkstheater  (1913, 1917, 1920, 1922, 1923, 1924, 1930). Moissi, in qualità di ospite (Gastspiel), inserisce Amleto nel cartellone degli spettacoli proposti al pubblico di diversi teatri viennesi: Theater an der Wien (1910, 1914), Volksbühne (1918), Deutsches Volkstheater (1926, 1927), Neue Wiener Bühne (!919, 1920, 1921). La tragedia shakesperiana è presente nel repertorio delle tournée internazionali, in Svizzera (1916, 1922, 1930), in Svezia, Danimarca, Romania, Praga (1922), Olanda (1923), Ungheria (1924), Russia (1924, 1929), Parigi (1927), Stati Uniti (1928), Gran Bretagna ed Egitto (1930).

[68] Il critico scrive di «un Amleto ben muscoloso e virile; un Amleto che con un pugno avrebbe potuto acciuffare e ridurre al silenzio d’un subito Re e Regina, Polonio e Laerte, Rosencrantz e Guildesterno; un Amleto la cui evidente maturità e sanità fisica non comportava assolutamente la sua asserita inquietudine morale». Parla inoltre di «senso di pesantezza» per il pubblico e conclude affermando che Zacconi «è attore fiorito al tempo del così detto realismo, e radicalmente incapace di uscire da quel genere, non può darci della poesia» (S. d’Amico, L’Amleto di Zacconi, al Costanzi, in La vita del teatro. Cronache, polemiche e note varie, I, 1914-1921. Gli anni di guerra e della crisi, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 77-79).

[69] s.d.a. (S. d’Amico), in «L’idea nazionale», 21 novembre 1918.

[70] E. Gobetti, Ruggero Ruggeri, in Lo scrittore e il proscenio. Scritti letterari e teatrali, a cura di G. Davico Bonino, con uno scritto di C. Dionisotti, Nardò (Le), Controluce, 2010, pp. 222-225.

[71] p.d.f.  (Pio de Flaviis), in «L’Ambrosiano», 17 marzo 1934.

[72] r.s. (Renato Simoni), in «Corriere della sera», 17 marzo 1934.

[73] g.r. (Gino Rocca), in «Popolo d’Italia», 18 marzo 1934.

[74] W. Capodaglio, Commemorazione di Alessandro Moissi, in G. Pressburger, Eroe di scena fantasma d’amore (Moissi), cit.,  pp. 21-22.

[75] G. Rocca, La vampa della ribalta. Ritratti di attori del Ventennio,  a cura di G. Parano, Torino,  Testo & immagine, 2002,  p. 272. Vedi anche R. Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 227-234; G. Livio, Il teatro del grande attore e del mattatore, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. Alonge e G. Davico Bonino, II, Il grande teatro borghese. Settecento-Ottocento, Torino, Eunaudi, 2000, pp. 663-666.

[76] R. Simoni, Gli Spettri (19 dicembre 1922), in Trent’anni di cronaca drammatica, Torino, Società Editrice Torinese, 1951, vol. I, p. 672. Vedi anche R. Alonge, Ibsen. L’opera e la fortuna scenica, Firenze, Le Lettere, 1995, pp. 114-116 e F. Simoncini, «Rosmersholm» di Ibsen per Eleonora Duse, Pisa, Edizioni ETS, 2005, pp. 25-27.

[77] Spettri di Ibsen debutta al Teatro del casino Municipale di San Remo il 5 maggio 1934 con la seguente attribuzione delle parti: Alexander Moissi (Osvald), Wanda Capodaglio (Helene Alving), Pio Campa (Pastore Manders), Gentile Miotti (Engstrand), Maria Fabbri (Regine). Seguono repliche a Bergamo (Teatro Duse, 17 maggio), Verona (Teatro Nuovo, 19 maggio), Trieste (Politeama Rossetti, 26 maggio), Fiume (Teatro Fenice, 29 maggio), Venezia (Teatro Goldoni, 3 giugno). Lo spettacolo è presente nella programmazione della stagione 1934-1935, con rappresentazioni a Roma (Teatro Argentina, 13 novembre), Siena (Teatro de’ Rozzi, 13 dicembre), Firenze (Teatro della Pergola, 17 dicembre), Bolzano (Teatro Civico, 22 dicembre), Vicenza (Teatro Eretenio, 24 dicembre), Trieste (Teatro Verdi, 29 dicembre), Venezia (Teatro Goldoni, 7 gennaio 1935), Trento (Teatro Civico, 17 gennaio), Rovigo (Teatro Sociale, 21 gennaio), Mantova (Teatro Andreani, 26 gennaio), Milano (Teatro Manzoni, 4 febbraio), Como (22 febbraio), Lugano (Teatro Casino Kursaal, 23 febbraio), Genova (Teatro Paganini, 25 febbraio), Firenze (Teatro della Pergola, 2 marzo).

[78] A. Kerr, «Der Zeit», 11  November 1906. In occasione del debutto berlinese di Spettri recitano i migliori attori della compagnia del Deutschen Theaters diretta da Reinhardt: Agnes  Sorma (signora Alving), Alexander Moissi (Osvald), Friedrich Kayssler (pastore Manders), Lucie Höflich (Regine). Lo spettacolo è ripreso per le tournée del 1913 e 1921 a Praga, in Svizzera 1916-1917, 1923, 1925-1926), a Berlino nel 1922 e 1923, in Norvegia, Svezia, Danimarca nel 1921, Ungheria (1925), in Russia (1929), Olanda (1933).  Ospite recita a più riprese nei teatri di Vienna, Moissi recita Osvald alla Volkbühne (1917, 1918, 1921, 1922), Neue Wiener Bühne (1921) e Deutsches Volkstheater (dal 1924 al 1928 e poi 1933).

[79] e.ba (Enrico Bassano), in «Il Secolo XIX», 26 febbraio 1935. 

[80] «ll Tevere», 14 novembre 1934. 

[81] M. Frabbri,  in Moissi, cit., p. 17.

[82] Nel repertorio della compagnia Moissi-Capodaglio Il dilemma del dottore di Bernard Shaw è inserito nella seconda parte della stagione 1934-1935. Debutta al Teatro Verdi di Trieste l‘1 gennaio con Alexander Moissi nel ruolo di Louis Dubedat, Wanda Capodaglio (Jennifer Dubedat), Pio Campa (Sir Colenso Ridgeon). Seguono le repliche a Fiume (Teatro Comunale, 3 gennaio), Venezia (Teatro Goldoni, 5 gennaio), Treviso (Teatro Goldoni, 9 gennaio), Padova (Teatro Garibaldi, 10 gennaio ), Verona (Teatro Nuovo, 13 gennaio), Modena (Teatro Storchi, 15 gennaio), Trento (Teatro Civico, 18 gennaio), Milano (Teatro Manzoni, 11 febbraio), Bergamo (Teatro Nuovo, 20 febbraio), Firenze (Teatro della Pergola, 4 marzo). Il dramma dello scrittore irlandese è affrontato dall’attore italo-austriaco a partire dal 1908 quando debutta nei Kammerspiele del Deutsches Theater di Berlino (21 novembre) per la regia di Felix Hollaender e la partecipazione dei ruoli principali di Alexander Moissi (Louis Dubedat), Tilla Durieux, (Jennifer Dubedat), Paul Wegener (Sir Colenso Ridgeon), Eduard von Winterstein (Sir Ralph Bloomberg). Moissi ritorna a Il dilemma del dottore nel 1919 in qualità di ospite della Neue Wiener Bühne (regia di Emil Geyer), nel 1920, 1923 e 1927 sul palcoscenico del Deutsches Theater di Berlino, al Deutsches Volkstheater di Vienna nel 1923 e 1925, anno in cui lo recita a Budapest.

[83] G. Rocca, in «Popolo d’Italia», 12 febbraio 1935; id., La vampa della ribalta, cit., pp. 179-180. Vedi anche c. l. (Carlo Lari), in «La Sera», 16 febbraio 1935 e r. s. (Renato Simoni), in «Corriere della Sera», 12 febbraio 1935.

[84] Il pappagallo verde (Der Grüner Kakadu) di Arthur Schnitzler è un testo poco recitato da Moissi. Affrontato per la prima volta nel 1904 con la compagnia del Deutsches Theaters di Berlino  al Kleines Theater (22 novembre 1904, regia di Richard Vallentin), lo ripropone a Vienna in qualità di ospite alla Volksbühne nel 1917 e al Deutsches Volkstheater nel 1921 e 1922 (regia di Josef Danegger), e nel corso della tournée americana nel 1929.  Nell’edizione italiana, con il testo tradotto dallo stesso Moissi e la regia affidata a Guido Salvini, le parti principali competono a Nando Tamberlini (Emilio, duca di Cardignae), Maria Fabbri (Albin de la Tremouille), Wanda Capodaglio (Severina), Pio Campa (Prospere), Alexander Moissi (Henri). Con maggiore continuità Moissi affronta Tutto il male vien di lì di Lev Tolstoj, a partire dalla premiere nei Kammerspiele (1920, regia di Berhard Reich), cui seguono le repliche al Deutsches Volksheater di Berlino negli anni 1921, 1922 e 1924. Il dramma russo è iscritto nel repertorio programmato per le ospitalità al Deutsches Volksheater di Vienna nel 1922, 1923, 1925, in Svizzera (Schauspielhaus di Zurigo, 1926) e in occasione della tournèe americana della compagnia del berlinese Deutsches Volksheater in America nel 1928 (Cosmopolitan Theater di New York, 9 gennaio). Tradotto da Odoardo Campa e allestito da Moissi, dopo il debutto al Teatro Manzoni di Milano (13 febbraio 1935), è proposto a Bergamo (Teatro Nuovo, 21 febbraio),  Genova (Teatro Paganini, 27 febbraio). La tappa di San Remo (Teatro Municipale del Casino, 6 marzo) rappresenta l’ultima esibizione di Moissi, che  all’improvviso morirà a Vienna il giorno 23 dello stesso mese. Con lui, impegnato nel ruolo del Passante), recitavano Wanda Capodaglio (Akulina), Ernesto Turrini (Mikaila), Maria Fabbri (Marta).

[85] g.r. (Gino Rocca), in «Popolo d’Italia», 14 febbraio 1935.

[86]  Vedi L. Quaresima, Moissi e il cinema, in G. Pressburger, Eroe di scena fantasma d’amore (Moissi), cit., pp. 11-15. Lorenzino de’ Medici è la tredicesima interpretazione cinematografica, preceduta dai seguenti film realizzati in Germania: Das schwarze Los. Eine Commedia dell’Arte diretto da John Gottowt ed Emil Albes nel 1914, Die Augen des di Ole Brandis di Stellan Rye e Paul Wegener (1914), Kulissenzauber di Heinrich Bolten-Baeckers (1915), Sein einziger Sohn di Adolf Gärtner (1915), Pique Dame di Stellan Rye (1918), la trilogia di Arthur Wellin (Der Ring der drei Wünsche del 1918, Erborgtes Glück e Der Sohn der Götter del 1919), Figaros Hochzeit di Max Mack, Zwischen Tod und Leben di Arthur Wellin e Die Nacht der Königin Isabeau di Robert Wiene nel 1920, Die Königsloge di Bryan Fox (1929).

[87]  Vedi il carteggio Zweig-Pirandelllo, formato da poche lettere e telegrammi, pubblicato da G. Rovagnati, Luigi Pirandello, Alexander Moissi, Stefan Zweig. Non si sa come – Mann Weiss nicht wie, in «Il Castello di Elsinore», anno VI, 17, 1993, pp. 77-82.

[88] La lettera autografa di Moissi, in italiano, inviata da Vienna il 18 settembre 1934 è pubblicata in L. Pirandello, Maschere nude, a cura di A. d‘ Amico, Milano, Mondadori, 2007, vol. IV, p.920. Pirandello difende il suo finale in una lunga e dettagliata lettera scritta da Roma (21 settembre 1934) a Moissi e pubblicata in ivi, pp. 920-922.  

[89] La lettera di Moissi a Pio Campa (Grand Hotel, Vienna 6 ottobre 1934) è pubblicata in Moissi, a cura di A. Dugulin, cit., pp. 75-76. Oltre alla fama internazionale di Moissi e Pirandello, sicuramente utile per la promozione di Non si sa come, incidono nell’operazione culturale motivi politici legati ai rapporti tra Italia e Austria, suggellati dai cosiddetti Protocolli di Roma (12 marzo 1934), in base ai quali il governo fascista si impegnava a difenderne l’indipendenza in caso di invasione nazista, e dall’invio, nel mese di luglio a seguito dell’assassinio del cancelliere Dollfuss, di quattro divisioni militari ai confini del Brennero e del Tarvisio.

[90] W. Capodaglio, Prima rappresentazione a Roma di «Enrico IV», ed ultimi incontri, in AA. VV, Atti del Congresso Internazionale di Studi Pirandelliani, Venezia ottobre 1961, Firenze, Le Monnier, 1967, pp. 889-901.

[91] La lettera dell’8 ottobre 1934 si legge in ivi, pp. 923-924.

[92] La scelta di Albert Bassermann a favore di Alexander Moissi alimenta molte polemiche, alimentate dalle pressioni naziste che preferiscono Werner Krauss e Fritz Kortner, in quanto unico vero tedesco di origine. Travolto dalle polemiche, soprattutto provenienti da Berlino, l’attore in una nota consegnata alla stampa sottolinea la sua distanza dalle ragioni della politica e spiega così il criterio della scelta: «ho percepito un’ammirazione molto particolare verso la geniale ed affascinante arte dell’attore in questo grande e umano interprete». Smentisce poi la sepoltura dell’anello con Moissi, «che sarà depositato da me in luogo sicuro» («Neues Wiener Journal», 28 März 1935). Si tratta quindi di un gesto simbolico. L’anello di Iffland sarà portato da Werner Krauss dal 1954 al 1959, da Josef Meinrad dal 1959 al 1996, e da Bruno Granz, attuale proprietario.

[93] Per la cronaca dettagliata del funerale si rinvia a R. Auernheimer, Abschied von Moissi, in «Neue freie Presse», 26 marzo 1935; «Neues Wiener Journal», 26 März 1935. Utile anche la ricostruzione di V. Moisi, Alexander Moissi,  Tirana, Nëntori, 1980, pp. 117- 121.

[94] I legami di Mossi con l’Albania sono approfonditi da V. Moisi, Alexander Moissi,  cit., pp. 122-137. Oggi l’attore è annoverato tra le celebrità albanesi di fama internazionale. L’università di Durazzo porta il nome di "Aleksandër Moisiu" e la casa d’infanzia è diventata un museo.

[95] G. Rocca, La vampa della ribalta, cit,  p. 179 e p. 180.

[96] R. Simoni, Alexander Moissi, in Teatro di ieri. Ritratti e ricordi, Milano, Treves, 1938, p. 165.

[97] M. Fabbri, Moissi: quattro testimonianze, in G. Pressburger, Eroe di scena fantasma d’amore (Moissi), cit., p.17.

[98] La frase di Brecht è citata da L. Cepak, La contaminazione è la libertà: appunti su Alexandros Moissis, in G. Pressburger, Eroe di scena fantasma d’amore (Moissi), cit., p. 6. 

 


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