Si ringrazia la Fondazione Donizetti per aver autorizzato la riproduzione di un testo che compare nel volume Donizetti in scena. Atti del Convegno internazionale, Bergamo, 10-12 ottobre 2012, a cura di Federico Fornoni, Bergamo, Fondazione Donizetti, 2014 Il dialogo intenso e appassionato che Schiller intrattiene con Goethe riguardo a Maria Stuart, dalla scelta del soggetto allimpegnativa elaborazione degli atti, isola già alcune delle caratteristiche che avrebbero decretato il successo imperituro della tragedia. Da un lato una «completa rappresentazione delle condizioni» – secondo il metodo euripideo – in cui la catastrofe agisce come forza immanente sin dalle prime battute e la tensione scaturisce dal fallimento di ogni tentativo di scongiurarla; dallaltro lefficacia e la verità di una Storia autentica, che tuttavia si sgretola dietro lirrompere della dimensione più profonda, più umana (quasi a sottolineare, per dirla con Carmelo Bene, fine esegeta dellAdelchi, la volgarità del Politico) per lasciare emergere limmane solitudine di personaggi inermi di fronte al loro destino. Lesercizio del potere, la ragion di stato, la contrapposizione ideologica e religiosa, che pur costituiscono materia imprescindibile in una delle vicende più fosche delletà moderna, si incarnano in un intrico di passioni individuali, sentimenti frustrati, gelosie, irresoluzioni fra le proprie inclinazioni e le aspettative che il ruolo parrebbe evocare di continuo, senza tralasciare quella “paura” di stampo aristotelico e quella “compassione” cristiana (un implicito tributo alla tradizionale lettura di Maria martire cattolica) che ispirano il «poetischer Kampf» contro l«historischer Stoff». Se in unopera di rara complessità un obiettivo risulta centrato appieno, è il ritratto della regina di Scozia come «essere fisico», incapace di suscitare tenerezza se non nella nutrice, e anzi per nulla tenera di per sé e oggetto di reazioni emotive esclusivamente tumultuose nei suoi interlocutori. Anche quando si tratta di conforto, solidarietà, smarrimento. È questa la regalità più insidiosa – ben al di là della funzione simbolica che la prigionia fomenta ed esalta: sapere imporsi agli altri come per una necessità naturale, esibire una dialettica inquietante perfettamente in bilico tra rigore e seduzione. E il bisogno di teatralità che affiora nella corrispondenza è risolto anzitutto in una dicotomia che non pone solo le due protagoniste idealmente luna contro laltra, ma le attraversa quasi, in uno scarto fra i comportamenti dettati dal rango e lo slancio verso scelte libere costantemente negate. Lincontro/scontro frontale manda in frantumi qualsiasi ipotesi di ricomposizione del dissidio interiore, irrigidendo le due donne nellimmagine che il destino – non senza fasi controverse – ha tracciato per loro. Si accelera così la cronaca di una morte annunciata. Ossessionato dalle pagine buie del mondo contemporaneo (la guerra in Iraq e leccidio di militari e gente comune nel tentativo di riportare la pace in una regione del pianeta, tra filmati e fotogrammi sottoposti agli occhi del mondo), Andrea De Rosa firma nel 2007 la regia di Maria Stuart di Schiller per il Teatro Stabile di Napoli – Teatro Mercadante, nella persuasione che sia necessario, per capire quelle immagini e la realtà di riferimento, «interrogarle guardando indietro […], come attraverso il teatro si riesce a fare». Lo spettacolo prosegue una ricerca originale su personaggi emblematici delluniverso tragico occidentale, come la straordinaria Elektra di Hugo von Hofmannsthal, in cui la parete di vetro che separa gli spettatori dagli attori e luso di cuffie olofoniche dà corpo e spessore alla sublime, claustrofobica ferinità di una ribelle destinata a liberarsi trionfalmente solo attraverso la morte, o a morire solo attraverso una libertà riconquistata nel trionfo. Oltre a congelare, rinnovandolo, il passato nel presente, evidenziando la continuità terrifica che ispira anche il ricorso a Schiller. Assolutamente coerente con questo approccio si rivela il lavoro di traduzione e adattamento del testo, che si spoglia dell«abbondante uso di metafore, di termini astratti e di riferimenti mitologici», senza rinunciare, pur nellassunzione di una lingua parlata poco connotata nel senso dellaulicità, a una ricchezza di echi che sa farsi aspra doppiezza cortigiana. I numerosi tagli al dettato originale sono in linea con unansia di sobrietà o unesigenza di concitazione nella quale palpitano le costrizioni di un libero arbitrio cui sovrasta un dovere (e una dignità) opprimente. Daltronde, il copione e lo spettacolo – tenendo conto della funzione drammaturgica assegnata ai personaggi – propongono un organico più assottigliato (Paulet si cela dietro Talbot, ad esempio), che sacrifica la coralità disegnata da Schiller in favore di una messinscena centrata su un reale (e non solo metaforico) corpo a corpo. Di qui procede anche la preferenza accordata a un rapido susseguirsi di voci laddove loriginale tedesco immagina lunghi confronti, fra tirate e aforismi dolenti: lestrema sintesi passa anche per la risoluzione delle battute più corpose in un dialogo fitto, avvincente, che mantiene fede ai contenuti delle varie sequenze come al prestigio degli interlocutori coinvolti. Talora il traduttore Nanni Balestrini e il regista, sensibili a qualche inversione strategica nel botta e risposta dei momenti salienti (gli ultimi attimi di libertà di Maria, ad esempio), si spingono fino a veri e propri virtuosismi, come quando – sopprimendo in larga parte lattacco del secondo atto schilleriano – lavorano a un vero e proprio intarsio fra le scene terza e quarta del secondo atto: il colloquio fra Elisabetta e i suoi consiglieri (II, 3) prende le mosse dallironica eppur sincera constatazione della fugacità del successo mondano dopo la lettura dello scritto della sovrana di Scozia (II, 4). La donna che «si asciuga le lacrime» è immediatamente riconquistata dal suo ruolo istituzionale, che le impone sagacia dialettica, diffidenza: solo con Leicester emergerà per un istante il rimpianto venato di invidia per la rivale, cui è stato concesso il lusso di non curarsi del giudizio altrui e di potersi affidare allaltro sesso come una vittoria, innalzando al trono i suoi favoriti, e non come il sacrificio della propria indipendenza. È il momento in cui tutto si orienta, precipitando quasi, verso linventio poetica oltre (ed entro) la storia, l«oia an genoito» di aristotelica memoria, incastonando lemergere della relazione di Leicester con Maria, il fanatismo salvifico di Mortimer e lincontro fra le due regine, in una spirale senza uscita se non attraverso la consapevolezza dellinsanabile contraddizione fra questione politica e dilemma umano. Un altro felice intarsio si ha nellistante supremo della firma del foglio in cui si decreta la condanna a morte, dove la stanchezza di vivere e di regnare che accompagna latrocità di quella risoluzione (IV, 9) muove senza soluzione di continuità dal disagio per la folla volubile e la minacciata libertà ai veri re, che non devono piacere al mondo (IV, 10). A confronto con il prosciugarsi del «cattolicesimo estenuato e estetizzante» della regina di Scozia, cui «affida il patetico trionfo della sua morte», la concentrazione di lampi di crudeltà e cedimenti pensosa conferma «limpressione che oggi il lucido tormento di Elisabetta ci sia più contemporaneo delle sfrenate passioni e dei mistici slanci di Maria». Ma listinto di riattualizzazione non indulge a nessuna tentazione didascalica, e anzi punta diritto al cuore dei problemi sollevati dallimpostazione drammatica raffinata e sottile, scegliendo di renderla il più possibile visibile, immagine da interrogare, appunto. Lazione si dipana fra due pedane larghe e spoglie, luna sul palco, laltra in platea, circondata da seggi dove prendono posto talora i personaggi o assistono alla vicenda senza interferire: le polarità su cui si basa il racconto (in primis il diritto contro la forza del potere) emergono con immediatezza, così come la separatezza e lasimmetria dichiarano da subito lincombenza e lineluttabilità dellesito luttuoso. Lastuto montaggio dei cinque atti si scompone in sequenze che, movendosi al di qua e al di là di un confine ideale, alludono ai luoghi della confidenza e dellintimità (la prigione, ad esempio), agli incontri ufficiali (dove, sul palco, fa la sua comparsa un trono), ai momenti di cospirazione e agli sfoghi della vendetta. Altera e remota, Elisabetta (unefficacissima Anna Bonaiuto) crea in un vivace gioco prossemico lo spazio della sua fiera regalità, mentre – avvicinata agli spettatori – la Maria Stuarda di Frédérique Loliée (che era stata intensissima Elektra nelle mani del regista e offre col suo accento francese qualcosa di esotico e di inafferrabile – il tratto in fondo più realistico eppure più evocativo), appare, nellabitudine alla rinuncia, nel giro ristrettissimo dei suoi contatti, straordinariamente libera nei gesti, nei movimenti, testimone di una disperata vitalità e di uninsopprimibile fascinazione che è la sua arma più pericolosa. È la restituzione elegante di una struttura a quadri, a dissolvenze, in cui – nonostante le pressioni della politica e linasprimento delle lotte intestine che fanno da sfondo alle sequenze di carattere più spiccatamente processuale – Elisabetta e Maria sono luna per laltra proiezioni fantastiche e, soprattutto, emblemi di quel che la vita ha negato a ognuna di loro, la capacità di suscitare favore pubblico e privato indipendentemente dalla gestione del potere o la facoltà di disporre della propria influenza senza sottostare al mutevole sostegno del pubblico e del privato. Il discorso si confonde e si radicalizza allorquando il delicato equilibrio fra due maestà si spezza e gli eventi riservano a entrambe la vertigine dellabbandono. Lazione precipita perché è il piano ideale a farsi reale, una scelta esistenziale a prendere volto: la regina dInghilterra invade lo spazio della contemplazione di sé, degli affetti minimi ma duraturi, della regalità come natura; la regina di Scozia – nellassaporare una nuova libertà – approda, al cospetto della rivale, nelle stanze del potere, della direzione e organizzazione del consenso, della regalità come servizio. Per entrambe la scoperta è fatale. Non è possibile restituire lordine originario. A scontrarsi sono due concezioni del Politico, dove il diritto e la forza si contendono priorità e sfere dinfluenza. Con lesecuzione di Maria muore la flebile speranza di Elisabetta in un potere dal volto umano: la Storia si avvia a perpetuare la tensione fra ragioni di Stato e riconoscimento dei popoli, fra grandi obiettivi e piccole misure di sopravvivenza, fra contingenze e utopia. Nel Marzo del 2010 il Teatro di San Carlo, sullonda del successo tributato alla messa in scena del dramma di Schiller, commissiona ad Andrea De Rosa, che sta ricoprendo lincarico di direttore del Teatro Stabile napoletano, la regia di Maria Stuarda di Donizetti. Unofferta paradossale, una sfida quasi, se si pensa che nellallestire il lavoro in prosa il filtro dellopera lirica, consolidatasi nei repertori internazionali anche a seguito di sondaggi e riscoperte mirate, era stato considerato una forzatura riguardo alla sua fonte; eppure la rielaborazione registica non si era mostrata del tutto indifferente ai principi che sorreggono lintera operazione del duo Bardari-Donizetti, in primis la scarnificazione di un racconto lussureggiante e la concentrazione su un nucleo essenziale di dramatis personae, in grado tuttavia di comprendere e condensare le dinamiche del plot. Ovvero, quel filtro aveva agito comunque nella ri-creazione in prosa di qualche anno prima, nellintento di rimuoverlo, o allontanarsene, ma ne era stata implicitamente riconosciuta la portata critica e ideologica (in base alla quale la ricezione schilleriana si sovrappone e si confonde per molti versi con la ricezione donizettiana). Tornando a De Rosa, non è soltanto la contiguità cronologica a prevalere su qualsiasi (legittima) considerazione sullautonomia dei due modelli, quanto lintento esplicito di instaurare un confronto fra i due spettacoli che vada ben al di là della riconoscibile (e altrettanto legittima) cifra dautore. In altri termini, lartista raccoglie la provocazione del Massimo e la rilancia, proprio perché sceglie intelligentemente di non sottrarsi a una lettura incrociata dei drammi e delle loro realizzazioni sceniche. La questione tuttavia è molto spinosa, perché la sostanziale conferma di un impianto scenico-drammaturgico in una rielaborazione che appare, sin dal suo esordio, deliberatamente altra rispetto al suo testo di riferimento, per fattori contestuali, per il prestigio delle convenzioni nel melodramma primo-ottocentesco, per la declinazione romantica specificatamente italiana, si presterebbe almeno a uno scetticismo preventivo. Molto si è scritto sulla decisa transcodificazione cui il libretto sottopone la materia schilleriana, ed è opinione pressoché unanime che lintervento operistico punti a una radicale semplificazione della complessa architettura tematica delloriginale e insista, modificando soprattutto il personaggio di Elisabetta, su una contrapposizione amorosa che offusca ogni altra implicazione della vicenda, dalla guerra di religione allavidità di potere, dallausterità riformata allo slancio cattolico della sofferenza e del martirio, che trova comunque larga eco nel finale. Ne consegue che tutto ruota intorno a un triangolo che si impone sin dalle prime battute, trasformando gli attori di questa situazione in vittime di una passione impossibile e in quanto tali capaci di proporsi al pubblico in unottica diametralmente opposta a quella che anima il pathos schilleriano, dove le risorse argomentative e lintreccio dei punti di vista conferisce a ciascun personaggio unaura densa di autodeterminazione. E dunque, in un contatto fra scena e platea, le ragioni possono orientare una maggiore adesione alluno o allaltro. Che questa “semplificazione” avvenga «in modo così radicale da superare addirittura le aspettative del genere melodramma, che fa delleros non un argomento privilegiato ma una lente attraverso la quale vedere e sussumere il mondo», appare oggi il merito precipuo di una rilettura assai felice, per lenergia con cui sa generare spettacolo e per lattenzione con cui salvaguarda ed esalta gli snodi cruciali in soluzioni linguistico-musicali davvero pregevoli. Ma, da un punto di vista strettamente contenutistico, si tratta pur sempre di una semplificazione, della subordinazione a un archetipo inarrivabile, che si recupera per una potenzialità drammatica sostanziale in grado di reggere anche senza il tessuto connettivo della Storia. L««oia an genoito» senza «ta genomena». Un azzardo, vittorioso ma irripetibile. Il raffronto ravvicinato nel tempo fra Schiller e Donizetti, nella lente di un comune approccio registico e di un simile orizzonte dattesa nel pubblico, pone tuttavia in crisi questa gerarchia acquisita anche ad onta delle ricorrenze dei titoli nei rispettivi ambiti di repertorio. Esibisce davanti agli occhi degli spettatori il dato macroscopico di una rielaborazione meditata, ovvero la sostituzione dellalternarsi schilleriano fra Elisabetta e Maria con il passaggio di testimone dalluna allaltra. Nella regia sancarliana risulta confermato il gioco dei due piani, ma, sfruttando le opportunità offerte dal teatro, si accentua non solo la verticalità, ma la separatezza fra lo spazio dellazione drammatica e quello degli eventi che si consumano in un altrove immaginato e incombente. Il gusto dellautocitazione si esprime in pochi, eloquenti segnali, gli abiti di Elisabetta e Maria, ad esempio, o il trono che campeggia al centro della pedana sopralevata. È come se la messinscena acquisisse progressivamente respiro, man mano che la tragedia si compie, fino ad espandersi nellintero palcoscenico nelle ultime fasi, la confessione di Maria, la sua vestizione, la preghiera, il commiato, lascesa al patibolo che si offre allo sguardo in un metaforico passaggio dallombra alla luce. Ma è proprio nellaver “costretto” il melodramma nella stupenda griglia immaginata per la prosa qualche anno prima il graffio più disarmante della regia. È lì che deflagra la cosciente incommensurabilità dei due testi, o la contraddittorietà stupefacente del miracolo di Bardari e Donizetti. Lopera si attesta su consuetudini vetuste della scena in musica, ma spinge fino alle estreme conseguenze il «systéme historique» che va alla ricerca di unità interiori contro una prassi classicistica, fino allinveramento della lettura sottile e inquietante che Manzoni offre del dramma schilleriano a testimonianza di un diverso modo di costruire interesse e, soprattutto, commozione: Schiller ha creduto che lo spettacolo di una donna che ha gustate le più alte prosperità del mondo, di una donna caduta nella forza della sua nemica, di una donna lusingata da speranze di essere tolta alla morte, rassegnata nello stesso tempo, quando la vede inevitabile, memore de' suoi falli, pentita, consolata dai sentimenti e dai soccorsi della religione, che lo spettacolo di questa donna che vediamo avvicinarsi di momento in momento ad una morte certa, etc. sia commoventissimo. Ora quella parte di commozione che nasce appunto dalla certezza che lo spettatore ha che questo carattere grandioso, e interessante, va alla sua ruina non era combinabile colla incertezza del suo destino. Ma il mantenere lo spettatore in perplessità commoverebbe di più? Questo è un affare di sentimento. Chi lo può decidere? Basta che non si possa senza irriflessione o senza ostinazione dire che il modo scelto dallo Schiller non è atto a commuovere. Così pure (per applicare un altro principio noto dalla stessa Tragedia) Aristotele ha detto una cosa che è stata ripetuta universalmente e costantemente che luccisione di un personaggio per volontà del suo nemico è la meno tragica. Benissimo quando si tratti di non cavare gli effetti che dal contrasto dei doveri e dei sentimenti colle passioni, o dalla terribile sventura di commettere per ignoranza lazione da cui si sarebbe più lontani quella cioè di cagionare la morte di chi si ama. Ma se Schiller avesse voluto servirsi appunto della nimicizia di Elisabetta e di Maria, per rappresentare la sorte di chi cade in mano di un nemico potente, artificioso, e vendicativo, se avesse voluto rappresentare lo stato dell'animo di chi prova questa sorte, il contrasto tra le antiche passioni di avversione e di rancore, e l'abbattimento della sventura, tra il desiderio di deprimere il nemico, e quello di placarlo e dall'altra parte la triste e amara e torbida gioia di chi si tiene quel nemico con cui ebbe tanti contrasti e del quale ha temuto, la smania della vendetta, e il timore della infamia che la può seguire, la viltà ingegnosa degli adulatori che la propongono come necessaria alla pubblica tranquillità, e il coraggio degli uomini dabbene che la vogliono impedire, se avesse voluto rappresentare i diversi sentimenti che eccitano le due nemiche in quelli che le circondano, la ambizione cortigianesca mista di disprezzo interno che si agita intorno la fortunata, la compassione mista di prevenzioni fanatiche, e l'amore misto di debolezza che eccita quella che è nella sventura, se dico Schiller avesse voluto cavare questo partito dal soggetto di un nemico che ne sacrifica un'altro, si avrebbe ragione di piantargli in faccia la sentenza di Aristotele, e di dirgli: il vostro soggetto non è interessante. Ma si dovrebbe prima esaminare se tutti questi mezzi ed altri ch'io taccio sieno mezzi di commozione, ed istruzione morale. Dico d'istruzione morale, e senza appoggiarmi a questo esempio, io credo che questo genere considerato in teoria, sia per questa parte molto superiore all'altro, e questa parte è importantissima. – Senza avanzare la nota questione se il fine della poesia sia di commovere o di istruire, io partirò da un principio nel quale tutti convengono, che il diletto e la commozione devono essere subordinati allo scopo morale, o almeno non contraddirgli. Nellenfatizzare quei tratti che illustrino e avvalorino le modalità di uno stile tragico teso a sublimare «le travail de lhistorien» in un «degré de développement exclusivement propre à son art» e «décidé, dirigé par une raison», Manzoni in fondo riassume i termini della riduzione italica di un soggetto (in linea peraltro con una sua tradizione antichissima), decretandone la metamorfosi nel senso di Adelchi, con Elisabetta avvinta comunque alle ragioni di Carlo («Pensoso, / Non esultante, d'un gagliardo il fato / Io contemplo, e d'un re. Nemico io fui / D'Adelchi; egli era il mio, né tal, che in questo / Novello seggio io riposar potessi, Lui vivo e fuor delle mie mani») e Maria Stuarda, caduta, lusingata, rassegnata, alla fine non lontana dalle intime persuasioni del moribondo Adelchi Godi che re non sei; godi che chiusa
All'oprar tè ogni via: loco a gentile,
Ad innocente opra non vè: non resta
Che far torto, o patirlo. Una feroce
Forza il mondo possiede e fa nomarsi
Dritto: la man degli avi insanguinata
Seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
Coltivata col sangue; e omai la terra
Altra messe non dà. Sulle tavole del San Carlo – al contrario di quanto si registra nella riflessione italiana di stampo romantico nei primi decenni del XIX secolo – Donizetti è effettivamente “ingabbiato” in Schiller, calato nei ritmi, negli spazi, nel respiro delloriginaria Maria Stuart: per questa via il palcoscenico sembra confermare il fatto che «la lettura manzoniana […] delinea una recezione romantica del testo schilleriano» da «applicare […] alla Maria Stuarda», così come rileva sensibilmente linattingibilità della complessità ideale della tragedia tedesca nei canoni dellopera italiana dellOttocento. Il problema che si profila dinanzi alla regia di De Rosa riguarda semmai la natura di questa inattingibilità. Incomprensione o interpretazione capziosa? Ambizioni più limitate di un teatro di mestiere italico o scelta di campo? Se per Schiller lepisodio storico era stato occasione per la scoperta di una «tragische Qualität» fondata sulla lotta immanente fra un Potere sottomesso al diritto e un Potere che si costruisce un proprio diritto, fra lautodeterminazione e le tensioni molteplici che sovrastano il libero arbitrio di ciascuno di noi (dalla ragion di stato alle passioni, dalle condizioni sociali alla diversa energia con cui sappiamo confrontarci con il destino), resta il fascino (o almeno la tentazione) di una prospettiva aperta, anche di fronte alla verità storica che ha decretato il prevalere di una soluzione sullaltra – ché a questo mira, forse, la studiata palinodia di Elisabetta, quando punisce chi le ha proibito un eventuale gesto di clemenza. Nel melodramma non vè intersezione fra i due mondi, fra le due regine, «non resta / che far torto o patirlo». Anche nella ribellione, nel dubbio, nel ripensamento. E si fa strada unidea, pensando anche alla realtà ottocentesca: non è Schiller che filtra in Maria Stuarda, ma limpossibilità della quaestio proposta da Schiller. La storia, gli uomini, hanno già deciso. Per sempre. La peculiare suggestione dello spettacolo donizettiano firmato da De Rosa, a prescindere dalla pur notevole qualità dellapporto musicale, consiste forse proprio nella sovrapposizione di uno schema mentale e ostensivo messo a punto per il dramma in prosa su una costruzione drammaturgica si direbbe meno sofisticata e nascosta, eppure attenta a ricreare, nellandamento paratattico del libretto, una tessitura altrettanto profonda, uninterpretazione diversa ma ugualmente coerente. Lopera lirica – si sa – non legge per semplificare, legge per orientare. Una trama, un contrasto, un problema. Non si tratta di difendere la “piccola” drammaturgia italiana contro la grande letteratura dOltralpe, ma di coglierne lacutezza, lo stile. E la responsabilità. La riduzione dai cinque ai tre atti segna una ridistribuzione del protagonismo: lalternanza si fa avvicendamento, la conflittualità fra i due modelli politici ed esistenziali si fa incompatibilità. Per questa via riaffiora lo spirito martirologico che la vicenda ha tradizionalmente assunto in area romanza o assume rilievo il motivo amoroso, trasfigurato da Schiller in un altro pretesto di discussione della regalità. Lavorare sulla memoria di una scena militante, invocare nello spettatore ladozione di uno sguardo incrociato, la contaminazione di approcci fatalmente diversi e uguali insieme equivale a promuovere in maniera forte, diretta, coinvolgente lesegesi di una transcodifica che può riferirsi a un tempo alla stagione ottocentesca come a quella, labile e oscura, dei nostri tempi. E non si pensi solo al teatro.
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