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Francesco Cotticelli

Regine a duello

Data di pubblicazione su web 01/09/2014
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Si ringrazia la Fondazione Donizetti per aver autorizzato la riproduzione di un testo che compare nel volume Donizetti in scena. Atti del Convegno internazionale, Bergamo, 10-12 ottobre 2012, a cura di Federico Fornoni, Bergamo, Fondazione Donizetti, 2014

Il dialogo intenso e appassionato che Schiller intrattiene con Goethe riguardo a Maria Stuart, dalla scelta del soggetto all’impegnativa elaborazione degli atti, isola già alcune delle caratteristiche che avrebbero decretato il successo imperituro della tragedia. Da un lato una «completa rappresentazione delle condizioni»[1] – secondo il metodo euripideo – in cui la catastrofe agisce come forza immanente sin dalle prime battute e la tensione scaturisce dal fallimento di ogni tentativo di scongiurarla[2]; dall’altro l’efficacia e la verità di una Storia autentica[3], che tuttavia si sgretola dietro l’irrompere della dimensione più profonda, più umana (quasi a sottolineare, per dirla con Carmelo Bene, fine esegeta dell’Adelchi, la volgarità del Politico[4]) per lasciare emergere l’immane solitudine di personaggi inermi di fronte al loro destino. L’esercizio del potere, la ragion di stato, la contrapposizione ideologica e religiosa, che pur costituiscono materia imprescindibile in una delle vicende più fosche dell’età moderna, si incarnano in un intrico di passioni individuali, sentimenti frustrati, gelosie, irresoluzioni fra le proprie inclinazioni e le aspettative che il ruolo parrebbe evocare di continuo, senza tralasciare quella “paura” di stampo aristotelico e quella “compassione” cristiana[5] (un implicito tributo alla tradizionale lettura di Maria martire cattolica) che ispirano il «poetischer Kampf» contro l’«historischer Stoff»[6]. Se in un’opera di rara complessità un obiettivo risulta centrato appieno, è il ritratto della regina di Scozia come «essere fisico», incapace di suscitare tenerezza se non nella nutrice, e anzi per nulla tenera di per sé e oggetto di reazioni emotive esclusivamente tumultuose nei suoi interlocutori[7]. Anche quando si tratta di conforto, solidarietà, smarrimento. È questa la regalità più insidiosa – ben al di là della funzione simbolica che la prigionia fomenta ed esalta: sapere imporsi agli altri come per una necessità naturale, esibire una dialettica inquietante perfettamente in bilico tra rigore e seduzione. E il bisogno di teatralità che affiora nella corrispondenza è risolto anzitutto in una dicotomia che non pone solo le due protagoniste idealmente l’una contro l’altra, ma le attraversa quasi, in uno scarto fra i comportamenti dettati dal rango e lo slancio verso scelte libere costantemente negate. L’incontro/scontro frontale manda in frantumi qualsiasi ipotesi di ricomposizione del dissidio interiore, irrigidendo le due donne nell’immagine che il destino – non senza fasi controverse – ha tracciato per loro. Si accelera così la cronaca di una morte annunciata.

Ossessionato dalle pagine buie del mondo contemporaneo (la guerra in Iraq e l’eccidio di militari e gente comune nel tentativo di riportare la pace in una regione del pianeta, tra filmati e fotogrammi sottoposti agli occhi del mondo[8]), Andrea De Rosa firma nel 2007 la regia di Maria Stuart di Schiller per il Teatro Stabile di Napoli – Teatro Mercadante[9], nella persuasione che sia necessario, per capire quelle immagini e la realtà di riferimento, «interrogarle guardando indietro […], come attraverso il teatro si riesce a fare»[10]. Lo spettacolo prosegue una ricerca originale su personaggi emblematici dell’universo tragico occidentale, come la straordinaria Elektra di Hugo von Hofmannsthal[11], in cui la parete di vetro che separa gli spettatori dagli attori e l’uso di cuffie olofoniche dà corpo e spessore alla sublime, claustrofobica ferinità di una ribelle destinata a liberarsi trionfalmente solo attraverso la morte, o a morire solo attraverso una libertà riconquistata nel trionfo[12]. Oltre a congelare, rinnovandolo, il passato nel presente, evidenziando la continuità terrifica che ispira anche il ricorso a Schiller.

Assolutamente coerente con questo approccio si rivela il lavoro di traduzione e adattamento del testo, che si spoglia dell’«abbondante uso di metafore, di termini astratti e di riferimenti mitologici»[13], senza rinunciare, pur nell’assunzione di una lingua parlata poco connotata nel senso dell’aulicità, a una ricchezza di echi che sa farsi aspra doppiezza cortigiana. I numerosi tagli al dettato originale sono in linea con un’ansia di sobrietà o un’esigenza di concitazione nella quale palpitano le costrizioni di un libero arbitrio cui sovrasta un dovere (e una dignità) opprimente. D’altronde, il copione e lo spettacolo – tenendo conto della funzione drammaturgica assegnata ai personaggi – propongono un organico più assottigliato (Paulet si cela dietro Talbot, ad esempio), che sacrifica la coralità disegnata da Schiller in favore di una messinscena centrata su un reale (e non solo metaforico) corpo a corpo. Di qui procede anche la preferenza accordata a un rapido susseguirsi di voci laddove l’originale tedesco immagina lunghi confronti, fra tirate e aforismi dolenti: l’estrema sintesi passa anche per la risoluzione delle battute più corpose in un dialogo fitto, avvincente, che mantiene fede ai contenuti delle varie sequenze come al prestigio degli interlocutori coinvolti. Talora il traduttore Nanni Balestrini e il regista, sensibili a qualche inversione strategica nel botta e risposta dei momenti salienti (gli ultimi attimi di libertà di Maria, ad esempio), si spingono fino a veri e propri virtuosismi, come quando – sopprimendo in larga parte l’attacco del secondo atto schilleriano – lavorano a un vero e proprio intarsio fra le scene terza e quarta del secondo atto: il colloquio fra Elisabetta e i suoi consiglieri (II, 3) prende le mosse dall’ironica eppur sincera constatazione della fugacità del successo mondano dopo la lettura dello scritto della sovrana di Scozia (II, 4). La donna che «si asciuga le lacrime»[14] è immediatamente riconquistata dal suo ruolo istituzionale, che le impone sagacia dialettica, diffidenza: solo con Leicester emergerà per un istante il rimpianto venato di invidia per la rivale, cui è stato concesso il lusso di non curarsi del giudizio altrui e di potersi affidare all’altro sesso come una vittoria, innalzando al trono i suoi favoriti, e non come il sacrificio della propria indipendenza. È il momento in cui tutto si orienta, precipitando quasi, verso l’inventio poetica oltre (ed entro) la storia, l’«oia an genoito» di aristotelica memoria, incastonando l’emergere della relazione di Leicester con Maria, il fanatismo salvifico di Mortimer e l’incontro fra le due regine, in una spirale senza uscita se non attraverso la consapevolezza dell’insanabile contraddizione fra questione politica e dilemma umano. Un altro felice intarsio si ha nell’istante supremo della firma del foglio in cui si decreta la condanna a morte, dove la stanchezza di vivere e di regnare che accompagna l’atrocità di quella risoluzione (IV, 9) muove senza soluzione di continuità dal disagio per la folla volubile e la minacciata libertà ai veri re, che non devono piacere al mondo (IV, 10). A confronto con il prosciugarsi del «cattolicesimo estenuato e estetizzante»[15] della regina di Scozia, cui «affida il patetico trionfo della sua morte»[16], la concentrazione di lampi di crudeltà e cedimenti pensosa conferma «l’impressione che oggi il lucido tormento di Elisabetta ci sia più contemporaneo delle sfrenate passioni e dei mistici slanci di Maria»[17].

Ma l’istinto di riattualizzazione non indulge a nessuna tentazione didascalica, e anzi punta diritto al cuore dei problemi sollevati dall’impostazione drammatica raffinata e sottile, scegliendo di renderla il più possibile visibile, immagine da interrogare, appunto. L’azione si dipana fra due pedane larghe e spoglie, l’una sul palco, l’altra in platea, circondata da seggi dove prendono posto talora i personaggi o assistono alla vicenda senza interferire: le polarità su cui si basa il racconto (in primis il diritto contro la forza del potere) emergono con immediatezza, così come la separatezza e l’asimmetria dichiarano da subito l’incombenza e l’ineluttabilità dell’esito luttuoso[18]. L’astuto montaggio dei cinque atti si scompone in sequenze che, movendosi al di qua e al di là di un confine ideale, alludono ai luoghi della confidenza e dell’intimità (la prigione, ad esempio), agli incontri ufficiali (dove, sul palco, fa la sua comparsa un trono), ai momenti di cospirazione e agli sfoghi della vendetta. Altera e remota, Elisabetta (un’efficacissima Anna Bonaiuto) crea in un vivace gioco prossemico lo spazio della sua fiera regalità, mentre – avvicinata agli spettatori – la Maria Stuarda di Frédérique Loliée (che era stata intensissima Elektra nelle mani del regista e offre col suo accento francese qualcosa di esotico e di inafferrabile – il tratto in fondo più realistico eppure più evocativo), appare, nell’abitudine alla rinuncia, nel giro ristrettissimo dei suoi contatti, straordinariamente libera nei gesti, nei movimenti, testimone di una disperata vitalità e di un’insopprimibile fascinazione che è la sua arma più pericolosa. È la restituzione elegante di una struttura a quadri, a dissolvenze, in cui – nonostante le pressioni della politica e l’inasprimento delle lotte intestine che fanno da sfondo alle sequenze di carattere più spiccatamente processuale – Elisabetta e Maria sono l’una per l’altra proiezioni fantastiche e, soprattutto, emblemi di quel che la vita ha negato a ognuna di loro, la capacità di suscitare favore pubblico e privato indipendentemente dalla gestione del potere o la facoltà di disporre della propria influenza senza sottostare al mutevole sostegno del pubblico e del privato.

Il discorso si confonde e si radicalizza allorquando il delicato equilibrio fra due maestà si spezza e gli eventi riservano a entrambe la vertigine dell’abbandono. L’azione precipita perché è il piano ideale a farsi reale, una scelta esistenziale a prendere volto: la regina d’Inghilterra invade lo spazio della contemplazione di sé, degli affetti minimi ma duraturi, della regalità come natura; la regina di Scozia – nell’assaporare una nuova libertà – approda, al cospetto della rivale, nelle stanze del potere, della direzione e organizzazione del consenso, della regalità come servizio. Per entrambe la scoperta è fatale. Non è possibile restituire l’ordine originario. A scontrarsi sono due concezioni del Politico, dove il diritto e la forza si contendono priorità e sfere d’influenza. Con l’esecuzione di Maria muore la flebile speranza di Elisabetta in un potere dal volto umano: la Storia si avvia a perpetuare la tensione fra ragioni di Stato e riconoscimento dei popoli, fra grandi obiettivi e piccole misure di sopravvivenza, fra contingenze e utopia.

Nel Marzo del 2010 il Teatro di San Carlo, sull’onda del successo tributato alla messa in scena del dramma di Schiller, commissiona ad Andrea De Rosa, che sta ricoprendo l’incarico di direttore del Teatro Stabile napoletano, la regia di Maria Stuarda di Donizetti[19]. Un’offerta paradossale, una sfida quasi, se si pensa che nell’allestire il lavoro in prosa il filtro dell’opera lirica, consolidatasi nei repertori internazionali anche a seguito di sondaggi e riscoperte mirate, era stato considerato una forzatura riguardo alla sua fonte[20]; eppure la rielaborazione registica non si era mostrata del tutto indifferente ai principi che sorreggono l’intera operazione del duo Bardari-Donizetti, in primis la scarnificazione di un racconto lussureggiante e la concentrazione su un nucleo essenziale di dramatis personae, in grado tuttavia di comprendere e condensare le dinamiche del plot. Ovvero, quel filtro aveva agito comunque nella ri-creazione in prosa di qualche anno prima, nell’intento di rimuoverlo, o allontanarsene, ma ne era stata implicitamente riconosciuta la portata critica e ideologica (in base alla quale la ricezione schilleriana si sovrappone e si confonde per molti versi con la ricezione donizettiana). Tornando a De Rosa, non è soltanto la contiguità cronologica a prevalere su qualsiasi (legittima) considerazione sull’autonomia dei due modelli, quanto l’intento esplicito di instaurare un confronto fra i due spettacoli che vada ben al di là della riconoscibile (e altrettanto legittima) cifra d’autore. In altri termini, l’artista raccoglie la provocazione del Massimo e la rilancia, proprio perché sceglie intelligentemente di non sottrarsi a una lettura incrociata dei drammi e delle loro realizzazioni sceniche.

La questione tuttavia è molto spinosa, perché la sostanziale conferma di un impianto scenico-drammaturgico in una rielaborazione che appare, sin dal suo esordio, deliberatamente altra rispetto al suo testo di riferimento, per fattori contestuali, per il prestigio delle convenzioni nel melodramma primo-ottocentesco, per la declinazione romantica specificatamente italiana, si presterebbe almeno a uno scetticismo preventivo. Molto si è scritto sulla decisa transcodificazione cui il libretto sottopone la materia schilleriana[21], ed è opinione pressoché unanime che l’intervento operistico punti a una radicale semplificazione della complessa architettura tematica dell’originale e insista, modificando soprattutto il personaggio di Elisabetta, su una contrapposizione amorosa che offusca ogni altra implicazione della vicenda, dalla guerra di religione all’avidità di potere, dall’austerità riformata allo slancio cattolico della sofferenza e del martirio, che trova comunque larga eco nel finale. Ne consegue che tutto ruota intorno a un triangolo che si impone sin dalle prime battute, trasformando gli attori di questa situazione in vittime di una passione impossibile e in quanto tali capaci di proporsi al pubblico in un’ottica diametralmente opposta a quella che anima il pathos schilleriano, dove le risorse argomentative e l’intreccio dei punti di vista conferisce a ciascun personaggio un’aura densa di autodeterminazione. E dunque, in un contatto fra scena e platea, le ragioni possono orientare una maggiore adesione all’uno o all’altro. Che questa “semplificazione” avvenga «in modo così radicale da superare addirittura le aspettative del genere melodramma, che fa dell’eros non un argomento privilegiato ma una lente attraverso la quale vedere e sussumere il mondo»[22], appare oggi il merito precipuo di una rilettura assai felice, per l’energia con cui sa generare spettacolo e per l’attenzione con cui salvaguarda ed esalta gli snodi cruciali in soluzioni linguistico-musicali davvero pregevoli.

Ma, da un punto di vista strettamente contenutistico, si tratta pur sempre di una semplificazione, della subordinazione a un archetipo inarrivabile, che si recupera per una potenzialità drammatica sostanziale in grado di reggere anche senza il tessuto connettivo della Storia. L’««oia an genoito» senza «ta genomena». Un azzardo, vittorioso ma irripetibile.

Il raffronto ravvicinato nel tempo fra Schiller e Donizetti, nella lente di un comune approccio registico e di un simile orizzonte d’attesa nel pubblico, pone tuttavia in crisi questa gerarchia acquisita anche ad onta delle ricorrenze dei titoli nei rispettivi ambiti di repertorio. Esibisce davanti agli occhi degli spettatori il dato macroscopico di una rielaborazione meditata, ovvero la sostituzione dell’alternarsi schilleriano fra Elisabetta e Maria con il passaggio di testimone dall’una all’altra. Nella regia sancarliana risulta confermato il gioco dei due piani, ma, sfruttando le opportunità offerte dal teatro, si accentua non solo la verticalità, ma la separatezza fra lo spazio dell’azione drammatica e quello degli eventi che si consumano in un altrove immaginato e incombente. Il gusto dell’autocitazione si esprime in pochi, eloquenti segnali, gli abiti di Elisabetta e Maria, ad esempio, o il trono che campeggia al centro della pedana sopralevata. È come se la messinscena acquisisse progressivamente respiro, man mano che la tragedia si compie, fino ad espandersi nell’intero palcoscenico nelle ultime fasi, la confessione di Maria, la sua vestizione, la preghiera, il commiato, l’ascesa al patibolo che si offre allo sguardo in un metaforico passaggio dall’ombra alla luce.

Ma è proprio nell’aver “costretto” il melodramma nella stupenda griglia immaginata per la prosa qualche anno prima il graffio più disarmante della regia. È lì che deflagra la cosciente incommensurabilità dei due testi, o la contraddittorietà stupefacente del miracolo di Bardari e Donizetti. L’opera si attesta su consuetudini vetuste della scena in musica, ma spinge fino alle estreme conseguenze il «systéme historique»[23] che va alla ricerca di unità interiori contro una prassi classicistica, fino all’inveramento della lettura sottile e inquietante che Manzoni offre del dramma schilleriano a testimonianza di un diverso modo di costruire interesse e, soprattutto, commozione:

Schiller ha creduto che lo spettacolo di una donna che ha gustate le più alte prosperità del mondo, di una donna caduta nella forza della sua nemica, di una donna lusingata da speranze di essere tolta alla morte, rassegnata nello stesso tempo, quando la vede inevitabile, memore de' suoi falli, pentita, consolata dai sentimenti e dai soccorsi della religione, che lo spettacolo di questa donna che vediamo avvicinarsi di momento in momento ad una morte certa, etc. sia commoventissimo. Ora quella parte di commozione che nasce appunto dalla certezza che lo spettatore ha che questo carattere grandioso, e interessante, va alla sua ruina non era combinabile colla incertezza del suo destino. Ma il mantenere lo spettatore in perplessità commoverebbe di più? Questo è un affare di sentimento. Chi lo può decidere? Basta che non si possa senza irriflessione o senza ostinazione dire che il modo scelto dallo Schiller non è atto a commuovere.

Così pure (per applicare un altro principio noto dalla stessa Tragedia) Aristotele ha detto una cosa che è stata ripetuta universalmente e costantemente che l’uccisione di un personaggio per volontà del suo nemico è la meno tragica. Benissimo quando si tratti di non cavare gli effetti che dal contrasto dei doveri e dei sentimenti colle passioni, o dalla terribile sventura di commettere per ignoranza l’azione da cui si sarebbe più lontani quella cioè di cagionare la morte di chi si ama. Ma se Schiller avesse voluto servirsi appunto della nimicizia di Elisabetta e di Maria, per rappresentare la sorte di chi cade in mano di un nemico potente, artificioso, e vendicativo, se avesse voluto rappresentare lo stato dell'animo di chi prova questa sorte, il contrasto tra le antiche passioni di avversione e di rancore, e l'abbattimento della sventura, tra il desiderio di deprimere il nemico, e quello di placarlo e dall'altra parte la triste e amara e torbida gioia di chi si tiene quel nemico con cui ebbe tanti contrasti e del quale ha temuto, la smania della vendetta, e il timore della infamia che la può seguire, la viltà ingegnosa degli adulatori che la propongono come necessaria alla pubblica tranquillità, e il coraggio degli uomini dabbene che la vogliono impedire, se avesse voluto rappresentare i diversi sentimenti che eccitano le due nemiche in quelli che le circondano, la ambizione cortigianesca mista di disprezzo interno che si agita intorno la fortunata, la compassione mista di prevenzioni fanatiche, e l'amore misto di debolezza che eccita quella che è nella sventura, se dico Schiller avesse voluto cavare questo partito dal soggetto di un nemico che ne sacrifica un'altro, si avrebbe ragione di piantargli in faccia la sentenza di Aristotele, e di dirgli: il vostro soggetto non è interessante. Ma si dovrebbe prima esaminare se tutti questi mezzi ed altri ch'io taccio sieno mezzi di commozione, ed istruzione morale. Dico d'istruzione morale, e senza appoggiarmi a questo esempio, io credo che questo genere considerato in teoria, sia per questa parte molto superiore all'altro, e questa parte è importantissima. – Senza avanzare la nota questione se il fine della poesia sia di commovere o di istruire, io partirò da un principio nel quale tutti convengono, che il diletto e la commozione devono essere subordinati allo scopo morale, o almeno non contraddirgli[24].

Nell’enfatizzare quei tratti che illustrino e avvalorino le modalità di uno stile tragico teso a sublimare «le travail de l’historien»[25] in un «degré de développement exclusivement propre à son art»[26] e «décidé, dirigé par une raison»[27], Manzoni in fondo riassume i termini della riduzione italica di un soggetto (in linea peraltro con una sua tradizione antichissima), decretandone la metamorfosi nel senso di Adelchi, con Elisabetta avvinta comunque alle ragioni di Carlo («Pensoso, / Non esultante, d'un gagliardo il fato / Io contemplo, e d'un re. Nemico io fui / D'Adelchi; egli era il mio, né tal, che in questo / Novello seggio io riposar potessi, Lui vivo e fuor delle mie mani»[28]) e Maria Stuarda, caduta, lusingata, rassegnata, alla fine non lontana dalle intime persuasioni del moribondo Adelchi

Godi che re non sei; godi che chiusa
All'oprar t’è ogni via: loco a gentile,
Ad innocente opra non v’è: non resta
Che far torto, o patirlo. Una feroce
Forza il mondo possiede e fa nomarsi
Dritto: la man degli avi insanguinata
Seminò l'ingiustizia; i padri l'hanno
Coltivata col sangue; e omai la terra
Altra messe non dà[29].

Sulle tavole del San Carlo – al contrario di quanto si registra nella riflessione italiana di stampo romantico nei primi decenni del XIX secolo – Donizetti è effettivamente “ingabbiato” in Schiller, calato nei ritmi, negli spazi, nel respiro dell’originaria Maria Stuart: per questa via il palcoscenico sembra confermare il fatto che «la lettura manzoniana […] delinea una recezione romantica del testo schilleriano» da «applicare […] alla Maria Stuarda»[30], così come rileva sensibilmente l’inattingibilità della complessità ideale della tragedia tedesca nei canoni dell’opera italiana dell’Ottocento[31]. Il problema che si profila dinanzi alla regia di De Rosa riguarda semmai la natura di questa inattingibilità. Incomprensione o interpretazione capziosa? Ambizioni più limitate di un teatro di mestiere italico o scelta di campo? Se per Schiller l’episodio storico era stato occasione per la scoperta di una «tragische Qualität» fondata sulla lotta immanente fra un Potere sottomesso al diritto e un Potere che si costruisce un proprio diritto, fra l’autodeterminazione e le tensioni molteplici che sovrastano il libero arbitrio di ciascuno di noi (dalla ragion di stato alle passioni, dalle condizioni sociali alla diversa energia con cui sappiamo confrontarci con il destino), resta il fascino (o almeno la tentazione) di una prospettiva aperta, anche di fronte alla verità storica che ha decretato il prevalere di una soluzione sull’altra – ché a questo mira, forse, la studiata palinodia di Elisabetta, quando punisce chi le ha proibito un eventuale gesto di clemenza[32]. Nel melodramma non v’è intersezione fra i due mondi, fra le due regine, «non resta / che far torto o patirlo». Anche nella ribellione, nel dubbio, nel ripensamento. E si fa strada un’idea, pensando anche alla realtà ottocentesca: non è Schiller che filtra in Maria Stuarda, ma l’impossibilità della quaestio proposta da Schiller. La storia, gli uomini, hanno già deciso. Per sempre.

La peculiare suggestione dello spettacolo donizettiano firmato da De Rosa, a prescindere dalla pur notevole qualità dell’apporto musicale, consiste forse proprio nella sovrapposizione di uno schema mentale e ostensivo messo a punto per il dramma in prosa su una costruzione drammaturgica si direbbe meno sofisticata e nascosta, eppure attenta a ricreare, nell’andamento paratattico del libretto, una tessitura altrettanto profonda, un’interpretazione diversa ma ugualmente coerente. L’opera lirica – si sa – non legge per semplificare, legge per orientare. Una trama, un contrasto, un problema. Non si tratta di difendere la “piccola” drammaturgia italiana contro la grande letteratura d’Oltralpe, ma di coglierne l’acutezza, lo stile. E la responsabilità. La riduzione dai cinque ai tre atti segna una ridistribuzione del protagonismo: l’alternanza si fa avvicendamento, la conflittualità fra i due modelli politici ed esistenziali si fa incompatibilità. Per questa via riaffiora lo spirito martirologico che la vicenda ha tradizionalmente assunto in area romanza o assume rilievo il motivo amoroso, trasfigurato da Schiller in un altro pretesto di discussione della regalità. Lavorare sulla memoria di una scena militante, invocare nello spettatore l’adozione di uno sguardo incrociato, la contaminazione di approcci fatalmente diversi e uguali insieme equivale a promuovere in maniera forte, diretta, coinvolgente l’esegesi di una transcodifica che può riferirsi a un tempo alla stagione ottocentesca come a quella, labile e oscura, dei nostri tempi. E non si pensi solo al teatro.

  
[1] Cfr. la lettera a Goethe del 26 aprile 1799: «Indessen habe ich mich an eine Regierungsgeschichte der Königin Elisabeth gemacht und den Prozeß der Maria Stuart zu studieren angefangen. Ein paar tragische Hauptmotive haben sich mir gleich dargeboten und mir großen Glauben an diesen Stoff gegeben, der unstreitig sehr viel dankbare Seiten hat. Besonders scheint er sich zu der Euripidischen Methode, welche in der vollständigen Darstellung des Zustandes besteht, zu qualifizieren, denn ich sehe eine Möglichkeit, den ganzen Gerichtsgang zugleich mit allem Politischen auf die Seite zu bringen, und die Tragödie mit der Verurteilung anzufangen. Doch davon mündlich und bis meine Ideen bestimmter geworden sind…» [nel frattempo mi sono accinto ad occuparmi di una storia del governo della regina Elisabetta e ho cominciato a studiare il processo di Maria Stuart. Mi si sono già profilati un paio di motivi tragici salienti, che mi hanno infuso grande fiducia in questo materiale, che presenta senza dubbio moltissimi aspetti promettenti. Soprattutto sembra qualificarsi alla luce del metodo euripideo, che consiste in una completa rappresentazione delle condizioni, dal momento che intravedo una possibilità di mettere da parte l’intera fase processuale con tutti i risvolti politici e di dare inizio alla tragedia con la condanna. Ma di questo a voce e allorché le mie idee siano diventate più definite]: cfr. Schiller Goethe Briefwechsel, herausgegeben von Emil Staiger, revidierte Neuausgabe von Hans-Georg Dewitz, Frankfurt am Main und Leipzig, Insel Verlag, 2005, p. 748. Qui e altrove le traduzioni dal tedesco sono di chi scrive.
[2] Cfr. la lettera a Goethe del 18 giugno 1799: «Ich fange schon jetzt an, bei der Ausführung, mich von der eigentlich tragischen Qualität meines Stoffs immer mehr zu überzeugen, und darunter gehört besonders, daß man die Katastrophe gleich in den ersten Szenen sieht und, indem die Handlung des Stücks sich davon wegzubewegen scheint, ihr immer näher und näher geführt wird» [Comincio già adesso, nella fase di realizzazione, a convincermi sempre più della qualità propriamente tragica del mio materiale, e a ciò si riferisce in particolare il fatto che si vede la catastrofe già nelle prime scene e man mano che l’azione sembra allontanarsi da essa, le si avvicina sempre di più] : cfr. Schiller Goethe Briefwechsel, cit., p. 763.
[3] Cfr. la lettera a Goethe dell’11 giugno 1799: «Bei meinem jetzigen Geschäft könnte die Anschauung eines neuen historischen Stücks auf der Bühne, wie es auch sonst beschaffen sein möchte, nützlich auf mich wirken. Die Idee, aus diesem Stoff ein Drama zu machen, gefällt mir nicht übel. Er hat schon den wesentlichen Vorteil bei sich, dass die Handlung in einen taktvollen Moment konzentriert ist und zwischen Furcht und Hoffnung rasch zum Ende eilen muss. Auch sind vortreffliche dramatische Charaktere darin schon von der Geschichte hergegeben» [Per il mio lavoro attuale l’osservazione di un nuovo dramma storico sulla scena, non importa con quali altre caratteristiche, potrebbe tornarmi utile. L’idea di fare di questo materiale un dramma non mi dispiace. Ha già in sé il vantaggio essenziale che l’azione è concentrata in un momento discreto e deve precipitare verso la fine tra paura e speranza. Inoltre già la storia presenta eccellenti caratteri drammatici]: cfr. Schiller Goethe Briefwechsel, cit., pp. 760-761.
[4] Il riferimento è allo scritto su Adelchi che appare in Carmelo Bene, Opere. Con l’autografia di un ritratto, Milano, Bompiani, 20022, pp. 1233-1268, relative allo spettacolo L’Adelchi di Alessandro Manzoni in forma di concerto, rielaborazione, regista e protagonista Carmelo Bene, musiche di G. G. Luporini, percussionista A. Striano, prima rappresentazione Milano, Teatro Lirico, 23 febbraio 1984.
[5] Cfr. la lettera a Goethe del 18 giugno 1799: « An der Furcht des Aristoteles fehlt es also nicht, und das Mitleiden wird sich auch schon finden» [Non manca quindi la paura di Aristotele, e vi si ritroverà anche la compassione]: cfr. Schiller Goethe Briefwechsel, cit., p. 763.
[6] Cfr. la lettera a Goethe del 19 luglio 1799: «Von der Maria Stuart werden Sie nicht mehr als einen Akt fertig finden; dieser Akt hat mir deswegen viel Zeit gekostet und kostet mir noch 8 Tage, weil ich den poetischen Kampf mit dem historischen Stoff darin bestehen musste und Mühe brauchte, der Phantasie eine Freiheit über die Geschichte zu verschaffen, indem ich zugleich von allem, was diese Brauchbares hat, Besitz zu nehmen suchte» [Della Maria Stuart non ritroverete terminato nulla più che un solo atto; quest’atto mi è costato molto tempo e mi costa ancora 8 giorni, perché in esso ho dovuto sostenere la tenzone poetica con la materia storica e ho dovuto faticare per garantire alla fantasia una certa libertà sulla storia, mentre contemporaneamente cercavo di impossessarmi di tutto ciò che questa ha di utilizzabile]: cfr. Schiller Goethe Briefwechsel, cit., p. 782. L’antinomia cui si riferisce Schiller è desunta attraverso l’esegesi tardosettecentesca da Aristotele, Poetica, 1451a36-1451b8 («[…] risulta chiaro che compito del poeta non è dire ciò che è avvenuto ma ciò che potrebbe avvenire, vale a dire ciò che è possibile secondo verosimiglianza o necessità. Lo storico e il poeta non differiscono tra loro per il fatto di esprimersi in versi o in prosa […] ma differiscono in quanto uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. Per questo motivo la poesia è più filosofica e più seria della storia, perché la poesia si occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari») e 1451b29-1451b32 («È chiaro dunque che il poeta deve essere creatore di trame piuttosto che di versi, perché è poeta in quanto imita, e imita le azioni. Se anche gli capita di rappresentare fatti avvenuti, è ugualmente poeta: niente impedisce infatti che tra i fatti avvenuti ce ne siano alcuni che è verosimile avvengano, e secondo una tale verosimiglianza ne è lui il creatore»). Si cita da Aristotele, Poetica, traduzione e introduzione di Guido Paduano, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 19-21. La riflessione alimenta le principali prese di posizioni teoretiche del primo Ottocento, tra le quali, per l’oggetto in questione, si segnalano almeno le Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur di August Wilhelm Schlegel, apparse a Heidelberg nel 1809, il saggio De l’Allemagne di Madame de Stäel del 1813 e, tra le fonti italiane, la  Lettre à M.r C*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie di Alessandro Manzoni, redatta intorno al 1820.
[7] Cfr. la lettera a Goethe del 18 giugno 1799: «Meine Maria wird keine weiche Stimmung erregen, es ist meine Absicht nicht, ich will sie immer als ein physisches Wesen halten, und das Pathetische muß mehr eine allgemeine tiefe Rührung als ein persönlich und individuelles Mitgefühl sein. Sie empfindet und erregt keine Zärtlichkeit, ihr Schicksal ist nur heftige Passionen zu erfahren und zu entzünden. Bloß die Amme fühlt Zärtlichkeit für sie» [La mia Maria non susciterà alcun sentimento di tenerezza, non è mia intenzione, voglio considerarla sempre come un essere in carne e ossa, e il senso del patetico deve essere più una commozione generale profonda che una compassione personale e individuale. Ella non prova e non suscita alcuna tenerezza, il suo destino è solo quello di provare e accendere passioni forti. Solo la nutrice prova tenerezza per lei]: cfr. Schiller Goethe Briefwechsel, cit., p. 764.
[8] Cfr, le considerazioni dello stesso regista nel programma di sala dello spettacolo nella Conversazione su Maria Stuart di Friedrich Schiller di Andrea De Rosa e Nanni Balestrini, pp. 6-10.
[9] Maria Stuart di Friedrich Schiller, traduzione di Nanni Balestrini, regia di Andrea De Rosa, con Anna Bonaiuto (Elisabetta), Frédérique Loliée (Maria Stuart), Alessandra Asuni (Margherita Kurl), Flavio Bonacci (Lord Talbot), Massimo Brizi (Sir Davison), Andrea Calbucci (Lord Leicester), Fortunato Cerlino (Sir Mortimer), Nunzia Schiano (Anna Kennedy), Antonio Zavatteri (Lord Burleigh), scene di Sergio Tramonti, costumi di Ursula Patzak, luci di Pasquale Mari, musiche di Giorgio Mellone, suono di Hubert Westkemper, aiuto regia Alessandra Cutolo, assistente scene Luigi Ferrigno, assistente costumi Giovanna Napolitano, trucco Bruna Calvaresi, assistente di produzione Roberta Scaglione, direttore di scena Marcello Iale, datore luci Antonio Gatto, elettricista Angelo Grieco, macchinisti Luigi Sabatino, Giuseppe Calvagna, fonico Cesare Gardini, prima rappresentazione Napoli, Teatro Mercadante – Teatro Stabile di Napoli, 17 ottobre 2007.
[10] Cfr. la breve illustrazione dello spettacolo (con estratti significativi della rassegna stampa) a firma del regista sul sito http://www.teatrostabilenapoli.it/?p=content&id=141.
[11] Elettra di Hugo von Hofmannsthal, un progetto di Andrea De Rosa e Hubert Westkemper, regia di Andrea De Rosa con Frédérique Loliée (Elettra), Maria Grazia Mandruzzato (Clitennestra), Moira Grassi (Crisotemide), Gabriele Benedetti / Paolo Briguglia (Oreste), scene di Raffaele Di Florio, suono di Hubert Westkemper, costumi di Ursula Patzak, luci di Enrico Bagnoli, musiche di Giorgio Mellone, prima rappresentazione Cavallerizza Reale di Torino, 7 dicembre 2004.
[12] Per Elektra di Hofmannsthal si vedano almeno l’edizione critica in Hugo von Hofmannsthal, Sämtliche Werke. VII. Dramen 5. Alkestis Elektra, herausgegeben von Klaus E. Bohnenkamp und Mathias Mayer, Frankfurt am Main, S. Fischer Verlag, 1997 e, per le traduzioni italiane, Hugo von Hofmannsthal, Elettra. Tragedia in un atto, a cura di Jelena Reinhardt, Perugia, Morlacchi, 2008, con relativa bibliografia.
[13] In Conversazione su Maria Stuart di Friedrich Schiller cit., p. 10. Il copione dello spettacolo, messomi a disposizione dal regista, è stato confrontato con le seguenti edizioni: Friedrich Schiller, Maria Stuart, Stuttgart, Reclam, 2001 e Id., Maria Stuart. Text und Kommentar, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2004.
[14] Friedrich Schiller, Maria Stuart, II, 4 («nachdem sie den Brief gelesen, Ihre Tränen trocknend»).
[15] In Conversazione su Maria Stuart di Friedrich Schiller cit., p. 9.
[16] Ibidem.
[17] Ivi, p. 6.
[18] Cfr. le note dello scenografo Sergio Tramonti (Ferita era la scena) nel programma di sala dello spettacolo.
[19] Maria Stuarda, opera in tre atti di Gaetano Donizetti, libretto di Giuseppe Bardari, direttore Andriy Yurkevych, regia Andrea De Rosa, con Sonia Ganassi (Elisabetta), Mariella Devia (Maria Stuarda), Caterina Di Tonno (Anna Kennedy), Ricardo Bernal (Leicester), Carlo Cigni (Talbot), Marco Caria (Cecil), scene Sergio Tramonti, costumi Ursula Patzak, luci Pasquale Mari, prima rappresentazione al Teatro San Carlo di Napoli il 14 marzo 2010.
[20] Cfr. quanto asserito dallo stesso Andrea De Rosa: «Spesso questo testo è stato letto anche alla luce della interpretazione che ne ha dato l’opera lirica (Donizetti), nella quale il dramma delle due donne è forzato fino a sconfinare nella gelosia, quindi rinnegando o ignorando completamente lo sfondo storico» (in Conversazione su Maria Stuart di Friedrich Schiller cit., p. 8).
[21] Cfr., oltre al classico William Ashbrook, Donizetti. La vita, Torino, EDT, 1986; Donizetti. Le opere, Torino, EDT, 1987 (e qui pp. 130-136),  almeno Paolo Cecchi, “Per rendere il soggetto musicabile”: il percorso fonte-libretto-partitura in Maria Stuarda e in Marino Faliero, in L’opera teatrale di Gaetano Donizetti. Atti del Convegno internazionale di studio / Proceedings of the International Conference on the Operas of Gaetano Donizetti. Bergamo, 17–20 settembre 1992, a cura di Francesco Bellotto, Bergamo, Comune di Bergamo, Assessorato allo spettacolo, 1993, pp. 223-275 e Helga Lühning, Wenn Maria Stuart in die Oper geht. Von Schillers Drama zum Libretto für Donizetti, in Edition und Übersetzung. Zur wissenschaftlichen Dokumentation des interkulturellen Texttransfers. Beiträge der Internationalen Fachtagung der Arbeitsgemeinschaft für germanistische Edition, 8. bis 11. März 2000, hrsg. von Bodo Plachta und Winfried Woesler, Tübingen, Niemeyer, 2002, pp. 419-433.
[22] Guido Paduano, «Ma, vinta, l’altera divenne più fiera». Tragedia e melodramma: il primato dell’amore, nel programma di sala Maria Stuarda a cura della Fondazione Teatro La Fenice di Venezia per la stagione lirica e di balletto 2009, pp. 27-52: 28.
[23] Cfr. la Lettre a M.r C. sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie (si è consultata l’edizione in Alessandro Manzoni, Opere, a cura di Guido Bezzola, III, Opere varie, Milano, Rizzoli, 1961, pp. 293-424 – il testo disponibile in http://www.bibliotecaitaliana.it/xtf/view?docId=bibit001524/bibit001524.xml ha come risorsa cartacea l’edizione mondadoriana a cura di Carla Riccardi e Biancamaria Travi – cfr. nota seguente). La citazione è a p. 310.
[24] Dai Materiali estetici, in Tutte le opere di Alessandro Manzoni, V. 3, a cura di Carla Riccardi e Biancamaria Travi, Milano, Mondadori, 1991, pp. 8-10 (disponibile anche in www.bibliotecaitaliana.it).
[25] Lettre a M.r C. cit., p. 297.
[26] Ivi, p. 298.
[27] Ibidem. Ma sulle questioni si vedano anche la lettera del Gennaio 1822 a Goethe in Weimar (n. 143) e la lettera a Fauriel del Marzo 1822, in Tutte le opere di Alessandro Manzoni, V. 1, a cura di Cesare Arieti, Milano, Mondadori, 1970, rispettivamente alle pp. 222-223 e 258-262.
[28] Adelchi, a. V, sc. 7, vv. 312-315 (da Tutte le opere di Alessandro Manzoni, I, a cura di Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti, Milano, Mondadori, 1957, p. 651 – disponibile anche in www.bibliotecaitaliana.it).
[29] Ivi, a. V, sc. 7, vv. 351-359 (da Tutte le opere di Alessandro Manzoni, I, Milano, Mondadori, 1957, pp. 652-653).
[30] Luca Zoppelli, Una drammaturgia borghese, in Il teatro di Donizetti. Atti dei convegni delle celebrazioni 1797-1997/1848-1998, Bergamo, Fondazione Donizetti. III. Voglio amor, e amor violento. Studi di drammaturgia. Bergamo 8-10 ottobre 1998, a cura di Livio Aragona e Federico Fornoni, 2006, pp. 79-93 (per Maria Stuarda cfr. in particolare le pp. 86-89): 88. Sulla contestualizzazione del melodramma donizettiano fra riflessioni di area tedesca e recezione italiana, con particolare riferimento a Manzoni, cfr. anche Id., Tragisches Theater und Oper: Manzoni, Donizetti und Schillers «Maria Stuart», «Schweizer Jahrbuch für Musikwissenschaft», n.s. 22, 2002, pp. 295-311.
[31] Cfr. Paolo Cecchi, “Per rendere il soggetto musicabile” cit., p. 235 (a proposito dell’«insostenibilità etica dei meccanismi politici su cui si reggeva il potere assolutistico dell’ancien régime» e sul fatto che «la complessità ideale della tragedia di Schiller – che si realizza sempre all’interno e grazie a meccanismi drammatici e non si sovrappone ad essi come logos superimposto – era inattingibile in base ai canoni dell’opera italiana dell’Ottocento»).
[32] Friedrich Schiller, Maria Stuart, V, scena ultima, vv. 4003-4005: «Das Urteil war gerecht, die Welt kann uns / Nicht tadeln, aber euch gebührte nicht, / Der Milde unsres Herzens vorzugreifen» [Il giudizio era giusto, il mondo non può rimproverarci, ma a voi non spettava di anticipare la clemenza del nostro cuore].

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