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Margherita Cricchio

Architettura dipinta: Niccolò Lapi nel Convento di San Jacopo Sopr’Arno

Data di pubblicazione su web 21/03/2014
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«[…] fu ferace nell'inventare, gran pratico nel colorito e particolarmente nell'a fresco. Era talmente ricco di invenzione che qualunque grand'opera, macchinosa che ella fosse, non lo atterriva, ma al contrario gli somministrava occasione di maggiormente far pompa del suo valore».[1] Con queste parole Francesco Maria Gabburri introduce nelle sue Vite la personalità di Niccolò Francesco Lapi (1661-1732), pittore fiorentino di primo Settecento dotato di ricchezza inventiva e capacità esecutiva immediata, tanto da distinguersi in modo particolare nella tecnica dell'affresco. Allievo di Pier Dandini (1646-1712), il Lapi derivò dal maestro la conoscenza della pittura di Pietro da Cortona, i cui dipinti studiò approfonditamente, anche se palesò maggiormente la dipendenza dal linguaggio «proto-settecentesco»[2] del Luca Giordano della Galleria Riccardi. Dichiarato uno dei dodici maestri dell'Accademia del Disegno, l'artista «fu [...] tardi conosciuto nella sua patria»[3] e, benché le sue opere siano state «stimate assai dopo la sua morte»,[4] non ha goduto di ampia considerazione da parte della storiografia artistica, neppure in epoche più recenti.[5]

Col presente lavoro, nell'ambito di una più ampia e documentata analisi degli affreschi conservati nell'antico convento di San Iacopo sopr'Arno a Firenze, si vuole cogliere l'occasione per offrire un piccolo ma spero utile contributo per una rivalutazione della personalità artistica di Niccolò Lapi: nel 1721 furono commissionati importanti lavori di ammodernamento del refettorio che il pittore realizzò in collaborazione con l'architetto granducale Giovan Battista Foggini (1652-1725) ed il quadraturista Rinaldo Botti (1658-1740). Gli affreschi, sprovvisti di fortuna critica, sono stati oggetto di attribuzioni controverse che in questa sede possono essere riesaminate alla luce di dettagliati contratti di committenza stipulati tra i padri e i due frescanti.[6]

Il refettorio è oggi l'unico ambiente del convento, chiamato Palazzo della Missione dal nome della Congregazione dei Preti della Missione che lo abitò a partire dai primi anni del Settecento, a conservare la testimonianza di un apparato decorativo, ben concepito e di particolare vivacità, riscoperto grazie ad un recente intervento di restauro.[7] Di sobrie ed eleganti proporzioni, esso fa parte delle strutture originarie seicentesche della fabbrica disegnate dall'architetto cortonese Bernardino Radi (1581-1643) nella prima metà del secolo,[8] quando il complesso conventuale era abitato dai Canonici Regolari di San Salvatore, ordine che precedette l'ingresso dei Padri Missionari a San Iacopo;[9] la grande sala fu probabilmente progettata per assolvere alla funzione di oratorio interno della canonica ed è ipotizzabile che tale sia rimasta fino a quando, nel 1721, venne trasformata nel nuovo refettorio del convento e decorata con pitture confacenti alla nuova destinazione d'uso. Dal punto di vista architettonico si tratta di un'aula a pianta rettangolare di notevole altezza – tale da interessare pianterreno e primo piano del palazzo – coperta da un'ampia volta lunettata impostata su peducci in pietra serena, semplici nel disegno e arricchiti da scanalature orizzontali. L'antica destinazione d'uso come cappella è avvalorata dal fatto che una delle due pareti corte della sala, quella settentrionale, è concepita come una nicchia centinata con evidente funzione di abside. L'ex oratorio presenta tre finestre nei lati lunghi: quelle sulla parete occidentale si aprono sul corridoio del primo piano del palazzo e risalgono al disegno del Radi, quelle sulla parete orientale, che si affacciano sul chiostro e differiscono dalle precedenti per il profilo arcuato e le dimensioni maggiori, appartengono al rifacimento settecentesco e vanno perciò ricondotte all'intervento dell'architetto granducale.[10]

I lavori per il refettorio rientrarono in un più ampio progetto di ‘rinascita’ edilizia non solo del complesso monastico ma anche dell'annessa chiesa di San Iacopo sopr'Arno, già dal 1707 interessata da importanti interventi di ristrutturazione e ammodernamento barocco che il granduca Cosimo III, protettore dei Preti della Missione, volle sostenere e finanziare, coinvolgendo proprio il suo architetto più fidato, Giovan Battista Foggini.[11]

Nella fabbrica della chiesa, in seguito ai lavori strutturali, si procedette alla decorazione parietale nella quale furono coinvolti i maggiori decoratori fiorentini del tempo, tra i quali i frescanti Pier Dandini ed il figlio Ottaviano, Matteo Bonechi, Ranieri del Pace e lo stesso Niccolò Lapi[12] il quale in questa fase, all'inizio degli anni Venti, lavorò anche per il refettorio.

La decorazione pittorica si estende su tutti e quattro i lati della sala: sui lati lunghi si sviluppa una decorazione geometrica divisa in cornici e specchiature, venuta alla luce durante il restauro del 2007; sul lato meridionale e su quello settentrionale, invece, sono presenti due grandi affreschi rappresentanti, rispettivamente, La pesca miracolosa e La lavanda dei piedi (figg. 1-2), la cui raffigurazione viene a sfondare illusivamente la parete e a prolungare lo spazio reale del refettorio.

Oggetto di errata attribuzione, l'affresco raffigurante La pesca miracolosa, realizzato sulla parete settentrionale dotata di abside, è stato riferito alla mano di Pier Dandini, mentre quello rappresentante La lavanda dei piedi a Niccolò Lapi.[13] In realtà ambedue le opere devono essere ricondotte unicamente all'allievo che vi lavorò in collaborazione con il quadraturista Rinaldo Botti, autore dell'architettura dipinta che incornicia le due scene.

L'inesatto riferimento a Pier Dandini, morto nel 1712,[14] e cioè ben prima della documentata decorazione del refettorio, deriva dalla biografia dedicata al pittore, redatta da Giovanni Targioni Tozzetti nella seconda metà del Settecento.[15] Rifacendosi ad una lettera scritta di pugno dallo stesso Dandini, il biografo racconta che l'artista aveva realizzato per i Padri della Missione una pala destinata alla chiesa di San Iacopo sopr'Arno ed una pittura ad affresco nel refettorio del convento.[16] Su questa base è stato ritenuto che La pesca miracolosa fosse riconducibile alla mano del Dandini mentre La lavanda dei piedi a quella del Lapi che, come il maestro, ebbe un ruolo attivo nella decorazione ad affresco della chiesa. Come ha messo in rilievo Sandro Bellesi, è assai probabile che Pier Dandini avesse dipinto un affresco raffigurante un cenacolo, oggi non più visibile all'interno del Palazzo della Missione.[17] L'ipotesi, infatti, trova conferma nelle memorie lasciate dai padri i quali parlano di un refettorio più antico, quello dei Canonici Regolari, trasformato in sagrestia dai missionari stessi. Non è quindi da escludere che l'affresco del Dandini esista ancora all'interno dell'edificio e che sia nascosto da pitture sovrammesse.

La presenza di Niccolò Lapi nel complesso della Missione, invece, è emersa a seguito degli studi condotti da Maria Cristina Improta sulla chiesa di San Iacopo sopr'Arno.[18] Egli, oltre a contribuire alla decorazione della chiesa – di cui tratteremo in seguito – ebbe un ruolo attivo anche nell'esecuzione di pale d'altare, destinate alle cappelle interne delle casa, e di altri apparati decorativi per il medesimo convento;[19] ma, aspetto più rilevante, l'artista dipinse l'immagine ormai perduta di una Madonna con il Bambino sopra la porta della stanza del lavamano, oggi non più esistente, a servizio del nuovo refettorio.[20]

Passando ad analizzare nel dettaglio la decorazione, vediamo che gli affreschi del Palazzo della Missione si inseriscono appieno nella tipologia tematica delle pitture proprie dei refettori dipinti tra Sei e Settecento. Come Luisa Vertova ha messo in evidenza, dal Trecento al Cinquecento nel cenacolo viene raffigurata la Crocifissione o, in sostituzione ad essa, l'Ultima Cena che muta nella forma ma non nel significato, con riferimenti espliciti al sacrificio divino per la remissione dei peccati dell'umanità. Dal Seicento in poi queste raffigurazioni entrano «in agonia» e gli ordini religiosi richiedono agli artisti di decorare l'ambiente ove la comunità si riunisce per consumare i pasti, con figurazioni tratte dalle sacre scritture, diverse nei temi e nei soggetti e perlopiù attinenti alla mensa.[21]

La lavanda dei piedi raffigura il gesto compiuto da Cristo agli apostoli durante l'Ultima Cena ed è raccontata nel Vangelo di Giovanni (13, 1-15). Avvenuta la cena e l'istituzione eucaristica, Gesù si alzò da tavola e, versata dell'acqua in un catino, lavò i piedi dei discepoli e li asciugò con il panno con cui si era cinto la vita. Quando ebbe finito affermò agli apostoli di avere dato loro l'esempio: se lui aveva lavato loro i piedi, a loro volta, i discepoli, avrebbero dovuto mettersi al servizio gli uni  degli altri.

Anche La Pesca miracolosa fa riferimento al Vangelo di Giovanni (21, 1-14) e rappresenta l'ultima apparizione di Cristo agli apostoli dopo la Risurrezione, avvenuta sulle rive del lago di Tiberiade quando, dopo una battuta di pesca, Simon Pietro ed i compagni tornarono a terra con le reti vuote. All'alba Gesù si presentò loro e li incoraggiò a gettare nuovamente le reti in acqua; lo fecero e le ritirarono piene di pesce, quindi riconobbero il Signore. Appena scesi a terra videro una brace accesa, Gesù li invitò a desinare insieme a lui distribuendo loro del pane e del pesce.

Come è emerso dai documenti, il Lapi fu incaricato di realizzare «due facciate di Pittura à fresco»,[22] una «nella parte anteriore in contro la porta dello stesso refettorio»[23] e l'altra «nella parte posteriore sopra la porta»[24] nella parete dotata del piccolo catino absidale. Ambedue  gli affreschi si sviluppano all'interno delle pareti centinate incorniciati da una finta architettura dipinta. Ne La lavanda dei piedi, il pittore fu impegnato in una raffigurazione dall'impaginazione complessa. Sul proscenio si svolge l'azione principale: Gesù chinato a terra lava i piedi a Pietro e intorno a lui, come in un secondo palcoscenico rialzato, vi è l'immagine animata degli apostoli, alcuni dei quali sono stretti intorno alla tavola su cui è appena stata consumata l'Ultima Cena. L'impianto architettonico conduce lo sguardo dell'osservatore verso le prospettive di fondo costituite da un loggiato su cui si muovono, concitatamente, alcune figure di inservienti e curiosi. Dall'alto una gloria di angeli si cala sulla scena mentre, in primissimo piano, a sinistra, una figura maschile vestita secondo la moda cinquecentesca fa da mediatrice tra lo spazio figurato e quello reale del refettorio introducendo lo spettatore all'interno dell'immagine sacra. Sull'arco che incornicia la raffigurazione, un cartiglio dipinto con una iscrizione rievoca il fatto evangelico: Exemplum/Dedi Vobis (Gv 13, 1-15).

La pesca miracolosa ha un'impaginazione architettonica meno complessa; anche in essa due coppie di colonne binate sorreggono un arco a incorniciare la raffigurazione che si presenta estremamente movimentata grazie alla resa pittorica veloce e vivace. L'affresco, dal ritmo concitato, rappresenta Gesù nell'atto di ordinare ai discepoli di alzare le reti; in primo piano, sopra la cornice della porta, sono dipinti un pane ed un pesce, chiaro rimando simbolico alla mensa e quindi al Cenacolo. L'impaginazione della scena è composta di due parti, ovvero due gruppi che fungono da quinte prospettiche – a sinistra Cristo ed un discepolo vicini ad uno sperone di roccia, a destra la barca con altri sei discepoli, tra cui Pietro e Giovanni intenti ad alzare la rete colma di pesci – che convergono verso l'unità della scena. Sull'intera superficie dipinta dominano i colori freddi sulla tonalità dell'azzurro a dare una resa ‘palpabile’ dell'atmosfera, rischiarata dalla luce limpida del mattino. Anche in questo caso un'inscrizione sulla sommità indica il richiamo evangelico: Venite/Prandete (Gv 21, 1-14).

Durante le operazioni di restauro è emerso che i due affreschi, fatta eccezione per le finte architetture prospettiche, furono realizzati mediante disegno diretto sull'intonaco, senza l'uso del cartone e con stesura di larghe e spesse campiture di colore,[25] procedimento che ha conferito dinamicità e vivacità alle due composizioni, in particolar modo a La pesca miracolosa. Questo particolare modo di operare, tutto giordanesco, viene messo in risalto dal Gabburri che descrive il Lapi dotato di capacità creativa immediata che gli permise un'intensa attività pittorica: l'artista fedele allo stile di fine Seicento, derivò dalla corrente giordanesca la lezione cromatico-luministica e la capacità di creare grandi composizioni senza ripensamenti. L'apprendistato presso il Dandini non ebbe ripercussioni significative sullo stile del Lapi; tuttavia il maestro si avvalse spesso della collaborazione dell'allievo, da lui particolarmente apprezzato,[26] e questo potrebbe aver contribuito all'equivoco attributivo degli affreschi in esame.

Nell'opera del pittore l'adesione alle tipologie ed al gusto di fine Seicento appare preponderante, benché reinterpretata secondo una sensibilità culturale tipicamente fiorentina, legata al disegno, al chiaroscuro e all'uso prospettico:[27] nella composizione d'insieme delle due scene affrescate è manifesta la tendenza classicheggiante del Lapi il quale, proprio grazie al disegno, dà vita a forme solide e vigorose, ricche di panneggi, che si muovono in uno spazio sapientemente costruito. L’artista dimostra attenzione verso gli illustri esempi della pittura rinascimentale e ne La lavanda dei piedi è evidente il suo tributo al Cenacolo di Andrea del Sarto. Inoltre, la composizione di questa stessa scena, nell'insieme innovativa e «macchinosa»,[28] nonché corale, offre numerosi spunti desunti anche dallo studio dalla pittura veneta, in particolare quella di Paolo Veronese, conosciuta attraverso le opere di Pier Dandini.[29]

Niccolò Lapi operò sulle due impaginazioni ad affresco ma non sulle finte architetture,  la cui realizzazione fu riservata ad «altro professore»:[30] l'artista incaricato di realizzare le ‘scenografie’ dipinte fu Rinaldo Botti impegnato anche nella decorazione che si sviluppa sulle pareti lunghe del refettorio.[31] Lo stesso intervento di restauro ha confermato la diversa mano che opera sulle pitture di quadratura e ha rivelato che le stesse, così come gli inserti vegetali che decorano le trabeazioni, furono realizzate con la tecnica dell'incisione diretta.[32] Ulteriore conferma stilistica è data dall'opera che il Botti realizzò nel salone delle feste di Palazzo Incontri, l'illusionistico loggiato del 1702, in collaborazione con Lorenzo del Moro;[33] in ambedue i casi la finta architettura viene a sfondare la superficie muraria con un loggiato saldamente costruito negli spessori e imitante il colore del marmo, ravvivato da inserti color oro sui cartigli e nei capitelli.

Le riquadrature lungo le pareti finestrate furono disegnate ed ideate proprio da colui che sovrintese ai lavori architettonici, Giovan Battista Foggini, ma fu lo stesso Botti ad esserne  l'esecutore:[34] la decorazione consiste in un insieme di cornici, dal disegno estremamente sobrio ed elegante, che viene a confondersi illusionisticamente con le reali strutture della sala. Sui toni del grigio, ad imitazione della pietra serena, essa è composta da modanature che arricchiscono i peducci seicenteschi e da finte cornici di finestre con volute e ghirlande, a riprendere gli elementi che decorano i grandi archi sulle pareti centinate. Sulla parete occidentale finestre dipinte rispecchiano, per disegno e proporzioni, quelle reali messe in opera dal Foggini, ad esse affrontate. Tra una finestra e l'altra si intervallano cornici e specchiature che conferiscono dinamicità alla decorazione scandendo le pareti e conducendo l'occhio dello spettatore verso i due principali affreschi del refettorio.

Questo ‘scrigno’, all'interno del poco noto Palazzo della Missione, è oggi la testimonianza più visibile di quello che fu il recupero funzionale ed artistico del convento voluto dal granduca Cosimo III ed insieme ad esso la chiesa di San Iacopo sopr'Arno ci racconta di quelle che furono le opere eseguite durante le attività in questa fabbrica. Tra il 1716 ed il 1721, com'è noto, il Lapi opera in chiesa affrescando le cupolette di due cappelle attigue, quella della Concezione e quella intitolata al Crocifisso.[35] La prima, che raffigura Dio Padre con angeli (fig. 3), risente stilisticamente della pennellata sagrestanesca, frizzante e lieve, fortemente presente in chiesa, all'inizio del secondo decennio, con le pitture dello stesso Sagrestani e di Giuseppe Moriani nonché di Matteo Bonechi e Ranieri del Pace. L'altra cupoletta del Mosè con il serpente di bronzo (fig. 4) è documentata con precisione al 1721,[36] data di esecuzione agli affreschi del refettorio: in essa il Lapi realizza figure più vigorose legate al tardo Seicento e ai modi derivati da Luca Giordano.

Al Lapi infine potrebbero essere ricondotti anche i Santi Pietro e Paolo, già attribuiti a Matteo Bonechi,[37] realizzati a monocromo ai lati della tribuna dell'altar maggiore e allusivamente dipinti all'interno di due nicchie. I due affreschi, che si presentano in precario stato di conservazione, sarebbero infatti da accostare ad un'altra coppia di figure che il Lapi realizzò nel 1722, utilizzando la stessa tecnica del monocromo, sotto il portico della chiesa, ai lati della porta di accesso: la Fede e la Religione.[38] Le due allegorie personificate, non pervenute ai giorni nostri, sono da ricondurre iconologicamente alle figure degli apostoli Pietro e Paolo, in un collegamento che li rappresenta come le due forme diverse ma complementari del messaggio cristologico.



[1]Cfr. F.M.N. Gabburri, Vite di Pittori (1730-1742), Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Pal. E.B.95, iv, c. 1981.

[2]Cfr. M. Chiarini, La pittura del Settecento in Toscana, in La pittura in Italia. Il Settecento, a cura di G. Briganti, Milano, Mondadori Electa, 1990, vol. i, pp. 301-349: 315.

[3]Cfr. F.M.N. Gabburri, Vite di Pittori, cit.., c. 1981.

[4]Ibid.

[5]Su Francesco Niccolò Lapi, v. nota 4 e cfr. O. Marrini, Serie dei ritratti di eccellenti pittori, Firenze nella stamperia Moückiana, 1765, vol. i, pp. xix-xx; L. Lanzi, Storia pittorica della Italia (1795-1796), ed. 1809, a cura di M. Capucci, i, Firenze, Sansoni, 1968, p. 198; M. Marangoni, La pittura fiorentina nel Settecento, «Rivista d'Arte», viii, 1912, 3-4, p. 18; U. Thieme-F. Becker, Allgemeines Lexicon der bildenden Künstler, Leipzing 1928, xxii, p. 369; voce Niccolò Lapi, in Dizionario Enciclopedico Bolaffi dei Pittori e degli Incisori Italiani, Torino 1974, iv, p. 358; G. Edward, in Gli Ultimi Medici. Il tardo Barocco a Firenze, Firenze, Centro Di, 1974, p. 274; L. Montigiani, Lapi Niccolò, in La Pittura in Italia. Il Seicento, a cura di M. Gregori e E. Sheleier, Milano, Electa, 1990, vol. ii, p. 782; S. Bellesi, Catalogo dei pittori fiorentini tra Sei e Settecento: biografie e opere,  Firenze, Polistampa, 2009, vol. iii, pp. 175-176.

[6]Archivio di Stato di Firenze (d'ora in poi ASF), Corporazioni Religiose Soppresse dal Governo Francese (d'ora in poi CRSGF), 140, f. 148, cc. sciolte n.n.; M. Cricchio, Il Palazzo della Missione e la Chiesa di San Iacopo sopr'Arno a Firenze, tesi di laurea, Università degli Studi di Firenze, a.a. 2008-2009, pp. 149-155, 258-260 (relatore prof. Giovanni Leoncini).

[7] Cfr. S. Giovannoni-S.C. Hluvko, Ex refettorio del convento di San Iacopo sopr'Arno, Palazzo della Missione, «Kermes: arte e tecnica di restauro», xx, 2007, 65, pp. 43-52.

[8]L'architetto Bernardino Radi operò sulla canonica di San Iacopo sopr'Arno dal 1639 al 1643. M. Cricchio, Sul Ponte a Santa Trinita: il complesso di San Iacopo sopr'Arno, in S. Bertocci, S. Parrinello (a cura di), Architettura eremitica, Sistemi Progettuali e Paesaggi Culturali, Atti del Terzo Convegno Internazionale di Studi, Camaldoli 21-23 Settembre 2012, pp. 401-405.

[9]I Preti Missionari della Congregazione di San Vincenzo de' Paoli entrarono a San Iacopo sopr'Arno nel 1703  con il sostegno di Cosimo III. Precedentemente alla loro venuta il convento era abitato, fin dal 1575, dai Canonici Regolari di San Salvatore, provenienti dall'antico monastero di San Donato a Scopeto.

[10]Archivio della Congregazione della Missione Provincia Romana (d'ora in poi ACMR), Casa di Firenze Note di tutte le case, edifici e fabbricati della C.M. di Firenze 1727, cc. 57r-67v;  M. Cricchio, Il Palazzo della Missione, cit. pp. 89-90, 149-150. La documentazione conferma quanto affermato da Francesco Saverio Baldinucci nella vita di Giovan Battista Foggini in F. S. Baldinucci, Vite di Artisti dei secoli XVII-XVIII, 1725-1730, ed. cons. a cura di A. Matteoli, Roma, De Luca, 1975, p. 475: «Disegnò eziandio per i medesimi Padri, con tutto l'accrescimento e ornato del monasterio, il nuovo refettorio [...]».

[11]Cfr. M.C. Improta, La Chiesa di Santa Verdiana a Castelfiorentino, Ospedaletto (Pisa), Pacini, 1986, p. 60; R. Spinelli,  Giovan Battista Foggini: «architetto primario della Casa Serenissima» dei Medici (1652-1725), Firenze, Edifir, 2003, pp. 253-261. ACMR, Casa di Firenze, 1727, c. 58v. Il progetto di ammodernamento della Chiesa di San Iacopo sopr'Arno, assegnato al Foggini dal Baldinucci, trova ulteriore conferma grazie al rinvenimento di nuova documentazione inedita che viene ad avvalorare quanto affermato dallo storiografo.

[12] Cfr. M.C. Improta, La Chiesa di Santa Verdiana, cit., pp. 68-83.

[13] Cfr. S. Giovannoni e S. C.Hluvko, Ex refettorio del convento di San Iacopo sopr'Arno, cit., p. 43.

[14] Cfr. S. Bellesi, Dandini Pietro, in La Pittura in Italia. Il Seicento, cit., vol. ii, p. 710.

[15]Cfr. S. Bellesi, Una vita inedita di Pier Dandini, «Rivista d'Arte», vi, 1991, pp. 89-188.

[16]Ivi, pp. 153, 167.

[17]Ivi, p. 167.

[18] Cfr. M.C. Improta, La Chiesa di Santa Verdiana, cit., pp. 73, 80-82, 135-136. Nel testo di Maria Cristina Improta non si menziona Niccolò Lapi come autore degli affreschi del refettorio. L'attribuzione è stata formulata in seguito al rinvenimento di alcune ricevute del pittore relative a generici lavori effettuati dal Lapi all'interno del convento dei missionari.

[19]ASF, CRSGF, 140, f. 149, Conti e ricevute, cc. sciolte n.n.: ricevuta del 4 aprile 1723 per due pale d'altare realizzate da Niccolò Lapi, ricevuta del 28 giugno del medesimo anno per la pittura a tempera di alcuni paramenti all'interno della Casa della Missione.

[20] Cfr. M.C. Improta, La Chiesa di Santa Verdiana, cit., p. 135.

[21] Cfr. L. Vertova, I cenacoli fiorentini, Torino, ERI, 1995, pp. 103-105.

[22]ASF, CRSGF, 140, f. 148, c. sciolta n.n.

[23]Ibid.

[24]Ibid.

[25] Cfr. S. Giovannoni e S.C. Hluvko, Ex refettorio del convento di San Iacopo sopr'Arno, cit., p. 44.

[26] Cfr. S. Bellesi, Una vita inedita, cit., p. 130.

[27] Cfr. F.MN. Gabburri, Vite di Pittori, cit., c. 1981: «Nella prospettiva era eccellente in superlativo grado, talmente che molti pittori anche bravi incorrevano a lui per consiglio. Nell’intelligenza del chiaroscuro nessuno del suo tempo lo superò».

[28]Ibid.

[29] Cfr. Targioni Tozzetti in S. Bellesi, Una vita inedita, cit., pp. 89-188.

[30]ASF, CRSGF, 140, f. 148, c. sciolta n.n.: «[…] Si è convenuto che il Signor Lapi abbia d'avere per sua mercede piastre sessanta tre fiorentine per tutto Lavoro che quaranta sijno per la pittura della Lavanda e venti tre per l'Apparizione […] dichiarandosi però, che il lavoro spettante all'Architettura che doverà servire per ornato delle medesime facciate, e pitture, s'abbi a fare da altro professore […]».

[31]Ivi, f. 148, c. sciolta n.n.: «[…] si è convenuto, che il suddetto Signor Rinaldo abbia da avere per mercede di tutti i lavori sopraddetti; e generalmente di ogni architettura espressa che sarà necessario farsi nel detto Refettorio […]».

[32] Cfr. S. Giovannoni e S. C. Hluvko, Ex refettorio del convento di San Iacopo sopr'Arno, cit., p. 44.

[33] Cfr. V. Gallai, Gli affreschi di Lorenzo del Moro e Rinaldo Botti nel Salone delle Feste, in Palazzo Incontri, a cura di E. Barletti, Firenze, Banca Cassa di Risparmio, 2007, pp. 101-121. Per l'attività artistica di Rinaldo Botti, cfr. anche A. Guicciardini Corsi Salviati, Affreschi di Palazzo Corsini a Firenze 1650-1700, Firenze, Centro Di, 1989 e F. Farneti-S. Bertocci, L'architettura dell'inganno a Firenze. Spazi illusionistici nella decorazione pittorica delle chiese tra Sei e Settecento, Firenze, Alinea, 2002, pp. 31-35.

[34]ASF, CRSGF, 140, f. 148, c. sciolta n.n.: «si conviene tra i Reverendi Padri della Congregazione della Missione […] et il Signor Rinaldo Botti […] di ornare le finestre del detto Refettorio con pitture parimente a fresco, e fingere le finestre medesime dalla parte di contro, il tutto secondo li modelli accordati dal Reverendo Padre Superiore, e detto Signor Botti, e quanto alle finestre e riquadrature sotto i peducci della rivolta, secondo il disegno fatto dal Signor Giovanni Battista Foggini, come sopra accordato».

[35]Cfr. M.C. Improta, La Chiesa di Santa Verdiana, cit.,  pp. 131, 135.

[36]ASF, CRSGF, 140, f. 76, Debitori e Creditori, c. 47 d.

[37]Cfr. M.C. Improta, La Chiesa di Santa Verdiana, cit., p. 72. La studiosa giustifica la non eccelsa qualità degli affreschi affermando che sia la tecnica che il tema figurativo non si prestavano alle attitudini di Matteo Bonechi, il quale potrebbe aver fatto intervenire nell'esecuzione la propria bottega.

[38]Cfr. F. Settimanni, Memorie fiorentine regnante Cosimo III de' Medici Granduca Sesto, 1701-1702, ms. in ASF, Manoscritti n. 141, c. 459v; ivi, CRSGF, 140, f. 106, c. sciolta n. 268, Ricordo delle esequie del granduca Gian Gastone I celebrate nella chiesa di San Iacopo sopr'Arno il 23 Ottobre 1737, in cui si descrive l'architettura «dipinta a chiar’oscuro abbellita da due figure, rappresentanti la Fede e la Religione, che stanno a i lati della Porta Grande». Una ricevuta di pagamento del Lapi conferma la presenza di alcune pitture ad affresco realizzate dall'artista sulla facciata della chiesa (ivi, f. 152, c. 860 m.).


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