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Cesare Molinari

La Salomé di Richard Strauss a Vienna

Data di pubblicazione su web 13/10/2013
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Il mito di Salomè si è venuto formando nel corso di molti secoli. Alla sua origine non c’è una vera narrazione, tanto che Thomas Rohde, lo studioso che più si è impegnato nel raccogliere i testi letterari attraverso i quali il mito stesso ha preso corpo, comincia il saggio conclusivo della sua antologia con questa perentoria affermazione: “Salome hat nie getanzt” – Salomè non ha mai ballato[1]. In effetti, i brevi passaggi in cui i Vangeli di Marco e di Matteo parlano della decollazione del Battista accennano bensì a una figlia di Erodiade, ma senza fare il nome di Salomè, che si ritrova invece nelle Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, il quale però la nomina soltanto per i suoi due mariti. I Padri delle Chiesa (Origene, Ambrogio e Giovanni Crisostomo) che citano e commentano i passi di Marco e di Matteo relativi alla morte del Battista soprattutto per condannare la danza, le feste e i giuramenti incauti, non fanno in alcun modo il nome di Salomè, che si ritrova invece, e proprio in questo contesto, soltanto in un’epistola di Isidoro Pelusino, patriarca di Costantinopoli vissuto fra il 360 e il 430. Tuttavia, ancora nei grandi misteri di Arnoul Gréban e di Jean Michel, che sviluppano ampiamente il tema in forma drammatica, la danzatrice viene chiamata semplicemente “La Fille” (Gréban) o “La Fille Florence” (Michel). Bisognerà poi aspettare addirittura il 1780 per ritrovare Salomè come protagonista della fatale danza in un’elegia di Philippine Gatterer, intitolata appunto Die Kraft des Tanzes – Il potere della danza, e di cui vale la pena di citare almeno una strofa:

Da trat Miss Salome herein

im vollem Jugendglanz

geschmeidig, wie ein Rohr im Wind

und frisch, wie Rosenknospen sind;

und tanzte schöne Tanz.

(Allora entrò miss Salomè

nel colmo del suo fulgore giovanile

flessuosa come una canna al vento

e fresca come un bocciolo di rosa;

e danzò una bella danza).

Si potrà allora concludere, senza paura di troppo radicali smentite, che il mito di Salomè è sostanzialmente un mito ottocentesco, almeno nella sua compiutezza anche onomastica e nonostante il fatto che talvolta le figure e i nomi di Salomè e di Erodiade  ancora si confondano alternandosi, poiché si poteva credere che la figlia della moglie di Erode Antipa si chiamasse anch’essa Erodiade, oppure che lei stessa avesse ballato – così ad esempio nell’incompiuto poemetto di Mallarmé e nell’Atta Troll di Heine, che peraltro si riferisce alla linea leggendaria della morte di Salomè-Erodiade decapitata dai ghiacci. Con questa pesante riserva che, se è vero che per lunghi secoli il tema di Salomè ha conosciuto relativamente poche emergenze letterarie, esso è però rimasto un motivo iconografico ricorrente e perfino invadente nelle arti figurative per tutto il Medioevo e poi, ancora di più, nel Rinascimento e nell’Età barocca: fino al Quattrocento prevale l’episodio della danza, mentre dal Cinquecento si incontra più di frequente l’icona di Salomè con la testa di Giovanni Battista, spesso in parallelo con quella di Giuditta con la testa di Oloferne. Tuttavia nell’Ottocento la linea figurativa e quella letteraria troveranno importanti momenti di incontro e di sovrapposizione – basti pensare alla famosa descrizione del quadro di Gustave Moreau nell’A rebours di Huysmans.

Comunque sia di ciò, resta il fatto che tutto il secolo XIX è scandito da sonetti poemetti e brevi racconti che accennano o sviluppano la storia di Salomè, ma è negli ultimi venticinque anni che si concentrano le tre tappe decisive che precedono la definitiva sistemazione di Oscar Wilde. Si tratta di due racconti – Hérodiade di Gustave Flaubert (1877) e Salomè di Jules Laforgue (1886) – e di un’opera lirica – Hérodiade di Massnet, su libretto di Paul Millet e Henri Grémont, del 1881, esplicitamente derivato dal Conte di Flaubert, ma che propone una Salomè che si innamora, corrisposta, di Giovanni, e si fa cristiana, riprendendo uno spunto già presente in un poema burlesco del XII secolo, Ysengrimus, nel quale però Salomè-Erodiade viene chiamata Pharaildis.

Come è ben noto, Wilde scrive e pubblica la sua Salomè in francese e, poco dopo nella traduzione inglese, nel 1893, chiarendone subito l’ispirazione immaginifica e fantasmatica grazie alle illustrazioni del giovanissimo Aubrey Beardsley, quasi in concorrenza con la serie di dipinti, acquarelli e disegni eseguiti da Gustave Moreau fra il 1875 e il 1878. Vietato in Inghilterra, il dramma fu rappresentato per la prima volta l’11 febbraio 1896 da Lugné Poe per il simbolista Théâtre de l’Oeuvre, ma nella più “borghese” Comédie Parisienne (l’attuale Athenée), con Suzanne Després nel ruolo eponimo che Wilde avrebbe desiderato fosse recitato da Sarah Bernhardt. Nei primi anni del nuovo secolo, Salomè ottenne un’ampia rinomanza e un buon successo (un po’ di scandalo un po’ di autentica ammirazione) anche grazie alle rappresentazioni allestite da prestigiosi registi come Max Reinhardt e Alexander Tairov. Tuttavia, a far transitare trionfalmente il mito di Salomè nel XX secolo fu soprattutto la versione operistica musicata da Richard Strauss.

Il rapporto tra il dramma di Wilde e l’opera di Strauss è in effetti abbastanza eccezionale. Infatti il testo drammatico di partenza, che è in prosa, non viene riscritto, o almeno rimaneggiato dal librettista, ma puramente e semplicemente tradotto, con pochi e non essenziali tagli (il più rilevante riguarda l’eliminazione del personaggio di Tigellino, che rappresenta l’imperatore romano alla corte del tetrarca Erode Antipa) e qualche significativa, ma spesso obbligata variante lessicale. Del resto bisogna ricordare che le successive opere di Strauss furono musicate su libretti di Hofmannsthal (Elektra, Die Frau ohne Schatten) che sono certamente drammi di autonomo valore poetico. E un importante commentatore delle prime opere di Strauss, Eugen von Ziegler[2], ebbe a sostenere che il testo drammatico di Wilde possiede una propria musicalità che è, al contempo, esigenza di musica – osservazione certamente fondata se si pensa alle frequenti ripetizioni di frasi e di parole e al rincorrersi delle immagini, che sembrano quasi suggestioni di Leit-Motive musicali; ma anche paradossale se si ha in mente la profonda differenza di sonorità fra la lingua francese e quella tedesca. Come se, lo spartito restando lo stesso, l’esecuzione fosse affidata a strumenti diversi.

Il dramma di Wilde e, di conseguenza, l’opera di Strauss, pur essendo un atto unico, sono solidamente strutturati in tre parti, nettamente distinte, ma che scivolano l’una nell’altra. In tutte e tre le parti si tratta di un confronto diretto fra due personaggi, ma molto diversamente contestualizzato.

La prima parte è centrata sul tentativo di seduzione che Salomè conduce nei confronti del profeta Jochannaan (San Giovanni Battista) e che emerge dalla fitta rete di desideri e di sguardi: Salomè guarda e desidera Jochannaan, Narraboth (il “giovane siriano” in Wilde) cerca di impedire quello sguardo, ma desidera Salomè, mentre il paggio cerca di impedire a lui di guardare e quindi desiderare la principessa. Sono presenti tutte le vocalità contemplate dall’opera: Salomè soprano, Narraboth tenore, Jochannaan baritono, contralto il paggio, mentre i due soldati sono bassi. Ma le diverse vocalità non si fondono mai in termini corali, restando anzi decisamente individuali – una rete dunque, ma non un insieme.

La seconda parte è un lungo confronto fra Salomè ed Erode, che si invertono le parti: prima Erode prega Salomè, poi lei esige da lui il premio promesso. Ma questo lungo confronto emerge quasi a fatica da una complessa dimensione corale (anche scenicamente corale) per la presenza degli Ebrei che a tratti cantano veramente in coro, ma prevalentemente in concertato, oltre che di Erodiade e degli eventuali ospiti-comparse. La danza di Salomè si colloca dopo quella sorta di pausa comico-corale costituita appunto dal dibattito degli Ebrei. Essa è certamente il momento centrale del dramma, il momento della peripezia da cui scaturisce la catastrofe, per dirla in termini aristotelici. Ma è proprio a proposito di questa danza, che è, ricordiamo, soggetto preferito da molte opere d’arte figurative, soprattutto fra Medioevo e primo Rinascimento, che troviamo la seconda e più profonda variante introdotta nella traduzione tedesca del testo di Wilde. Si tratta di una didascalia, e non è quindi pensabile che sia dovuta all’iniziativa della traduttrice Edwige Lachmann: va, al contrario, ascritta direttamente a Richard Strauss, il quale sostituisce la secca indicazione di Wilde – «Qui Salomè balla la danza dei sette veli» –  con una dettagliata descrizione musicale e coreografica della danza stessa. La scelta di Wilde non è casuale né, tanto meno, dovuta a una sua improponibile debolezza descrittiva, ma è legata da una parte all’ipotesi di affidare a Sarah Bernhardt il ruolo di Salomè, e, dall’altra, a una concezione mistica e astratta della danza, che, ricordiamo, è l’unica forma di spettacolo amata dai poeti simbolisti in ragione della sua immaterialità. Riferendosi alle illustrazioni di Beardsley, Wilde scrive a un amico che il giovane artista era il solo «oltre a me stesso a sapere cosa sia la danza dei sette veli e che possa vedere questa danza invisibile»[3]. Non è difficile immaginare che abbia altresì pensato che solo Sarah Bernhardt avrebbe potuto “recitare”, senza ballare, una danza invisibile. Così come, forse, avrà pensato di fare la Duse del 1897, la quale, pochi anni più tardi interpreterà il ruolo della cieca nella Città morta, restando quasi sempre immobile. Strauss invece aveva assoluto bisogno che la danza fosse effettivamente ballata, sia per creare una corrispondenza visiva del lungo intermezzo orchestrale, ma sia anche per dare corpo alla presenza di Salomè, fino a quel momento immobile e sostanzialmente silente e che, dopo aver ballato, dovrà ripetere ossessivamente solo quattro parole: «Den Kopf des Jochanaan» (La testa di Jochanaan).

Anche la terza parte può essere descritta come un confronto fra due personaggi, anzi, il confronto più ravvicinato che si possa immaginare. Ma, poiché l’interlocutore maschile è lui, questa volta, totalmente silenzioso trattandosi della testa decapitata del Battista, il confronto si risolve in un lungo monologo, tra i più lunghi nella storia dell’opera lirica. Né si può parlare di “aria”, al massimo forse di “arioso”, non foss’altro per la varietà inesausta dei motivi e delle tonalità che si susseguono e si intersecano. Ma si tratta comunque di un monologo che vorrebbe essere dialogo poiché Salomè si rivolge continuamente a Jochanaan, lo interpella, ripetendone continuamente il nome e sollecitando una risposta, fino a chiudergli definitivamente la bocca con il bacio desiderato. Questa volta il contesto ambientale è sparito: Erode ed Erodiade osservano in disparte, fino a quando, con un ordine secco, Erode determina la definitiva catastrofe, e l’uccisione di Salomè viene perpetrata in un’esplosione di fiati e di percussioni.

Molti commentatori hanno sostenuto che il dramma di Salomè potrebbe essere definito come la tragedia dello sguardo. Ed è certamente vero: guardare è pericoloso: precipita nell’abisso del desiderio. Così il paggio, a più riprese, supplica Narraboth di non guardare Salomè, così come Erodiade ingiungerà a Erode di non guardare la ragazza, la quale, del resto, è fuggita dal banchetto proprio per sottrarsi allo sguardo del tetrarca – poiché anche essere guardati comporta un rischio.

Tuttavia non bisogna dimenticare che Salomè è attratta in primo luogo dalla voce di Jochanaan: «che strana voce!», per poi insistere a più riprese, concludendo «la tua voce m’incanta”»(m’enivre) che nella versione tedesca diventa «la tua voce è come musica alle mie orecchie». Solo dopo averlo sentito parlare, e anzi, dopo averlo sentito nominare “il figlio dell’Uomo”, sembra accorgersi della sua bellezza: «è bello come te?», prima avendone notato soltanto la magrezza o la consunzione (maigre nella versione francese, wasted in quella inglese, più vicina al tedesco abgezehrt). È come se la percezione della bellezza dell’uomo si fosse venuta formando in lei comprendendo altresì fattori estranei al concetto e allo sguardo, come la voce o l’essere terribile (schreklich, che è uno degli aggettivi più ricorrenti della versione Strauss-Lachmann). Il motivo verrà ripreso nel finale, ma rovesciato, allorché Salomè dice «quando ti guardo, sento una musica misteriosa»: quasi come se la bellezza si riconvertisse in fascino.

Al contrario, la bellezza di Salomè è assoluta: «come è bella la principessa Salomè questa notte» sono le parole con cui Narraboth apre la tragedia. Perciò tutti la ammirano e/o la temono – il giovane Siriano come il tetrarca Erode, ma anche il paggio e la stessa Erodiade. Fino a questo punto peraltro non ci sarebbe niente di profondamente sconvolgente rispetto alla diffusa percezione dell’essere e del ruolo  reciproco degli uomini e delle donne: la bellezza, in termini puramente visivi, è una qualità delle donne, mentre il fascino degli uomini è fatto di un complesso intreccio di fattori. La novità sta nel comportamento, sia sociale – Salomè rivendica il suo status di “principessa di Giudea” – sia, soprattutto, erotico: l’iniziativa amorosa le appartiene in toto e si realizza in un corteggiamento tipicamente maschile, con l’esaltazione, certamente lirica, delle parti del corpo amato, che sono via via più importanti del corpo stesso – i capelli e la bocca (al posto del seno e delle gambe). Inoltre concepisce l’amore come assoluto possesso. Tutto questo ha indotto Ortega y Gasset a definire il nuovo aspetto della femminilità in quello che ha chiamato Esquema de Salomé. Se poi la fortuna tardo ottocentesca e poi novecentesca del mito di Salomè (assieme alla rivisitazione di tante bad girls del più remoto passato, da Jezabel a Medea o di un’età più vicina come Lucrezia Borgia, giù fino a Hedda Gabler) sia stato determinato dall’esplosione del femminismo a partire dalle suffragette inglesi fino all’odierna rivoluzione sessuale, non lo saprei dire. Certo le coincidenze cronologiche ci sono tutte.

La Volksoper di Vienna fu inaugurata nel 1898 come Kaiserjubiläum Stadttheater in occasione dei cinquant’anni di regno di Francesco Giuseppe, su iniziativa di un gruppo di industriali e ricchi borghesi che intendevano dedicarla alla rappresentazione di drammi di lingua tedesca. Solo a partire dal 1903 il repertorio divenne prevalentemente e poi esclusivamente musicale, tanto che, nel 1908 assunse ufficialmente il nome di Volksoper. Si tratta di un teatro di medie dimensioni (può contenere circa 1300 spettatori). Ma forse proprio perché progettato come teatro di prosa non è dotato di un palcoscenico vasto e spazioso paragonabile a quello della Staatsoper, e quindi inadatto a contenere produzioni a grande spettacolo di tipo wagneriano. Per questo, ma certamente soprattutto per tener fede alla sua denominazione di teatro “popolare” (originariamente “cittadino”), il repertorio è rimasto prevalentemente più leggero, proponendo molte operette e perfino musicals, fra le quali però si inseriscono delle opere, soprattutto ovviamente di Mozart, che possono essere impegnative anche dal punto di vista spettacolare, come il Flauto magico. In ogni caso, prevalgono lavori di autori tedeschi e, ancor più, austriaci.

Da tutti questi punti di vista Salomè sembra essere un’opera ideale per questo teatro, dove appunto nel 1907 ebbe luogo la sua prima rappresentazione austriaca, sia pure eseguita da un complesso ospite, seguìta, nel 1910, dalla prima edizione prodotta in proprio dal teatro stesso. Rimase poi memorabile l’esecuzione andata in scena il 9 aprile 1911 per la direzione dello stesso Richard Strauss, che tenne il cartellone fino al 1917, per 33 repliche. A questo punto però la Volksoper dovrà fare i conti anche con la concorrenza della grande Staatsoper  dove l’opera era stata vietata con un provvedimento che non poteva riguardare i teatri privati, qual’era appunto la Volks.

Alla Staatsoper dunque Salomè venne rappresentata per la prima volta nel 1918, ma il ruolo di Salomè fu interpretato da una soprano che si era formata proprio nel secondo teatro d’opera viennese. E le curiose coincidenze non si fermano qui: Salomè sarà ripresa alla Volksoper nel 1944 in occasione dell’ottantesimo compleanno di Strauss e alla Staatsoper nel 1952, ma poi ancora nel 1972 per la regia di Boreslaw Barlog, nativo di quella Wroclaw (Breslau, in tedesco) il cui teatro aveva realizzato quella rappresentazione con cui Salomè fu presentata per la prima volta al pubblico viennese nel 1907. Questa regia verrà riproposta nel corso della stagione autunnale del 2011, in quella stessa stagione cioè in cui alla Volksoper venne proposto lo spettacolo che intendo commentare – si tratta dunque di una ripresa. Entrambi gli spettacoli terranno il cartellone ancora nella stagione invernale del 2014.

Sottolineo questo punto perché, se si può ammettere che in linea teorica ogni spettacolo debba essere considerato come un evento unico, di fatto, per lo spettatore c’è una bella differenza fra repliche e riprese – soprattutto nell’opera lirica. Certo: in una serie di repliche spesso ci sono interpreti “in alternanza”, che introducono importanti variazioni soprattutto sul piano vocale. Ma in una ripresa che abbia luogo in una stagione successiva, magari dopo qualche anno, i mutamenti sono, di solito, radicali. Nel caso poi dello spettacolo andato in scena alla Staatsoper il 7 ottobre 2011  si trattava già della ripresa di una ripresa e Boreslaw Barlog, regista della prima assoluta, era già morto da più di quarant’anni.

La Salomè proposta dalla Volksoper il 24 settembre 2013, ad una cui replica ho assistito, era più semplicemente una ripresa di quella allestita il 15 ottobre 2011, ma con un cast completamente rinnovato e perfino con un nuovo direttore d’orchestra (Alfred Eschwé), il quale ha voluto esaltare il ruolo dell’orchestra stessa, forzandone l’intensità fino a oscurare il canto degli interpreti meno dotati sul piano della potenza (come proprio la protagonista – Annemarie Kremer –  di cui altrimenti si sarebbe potuta meglio apprezzare l’ampiezza dell’arco tonale).

Naturalmente, il rinnovamento del cast (ma bisogna ricordare che nelle diverse serie di repliche alcuni interpreti cantarono appunto in alternanza) comporta notevoli varianti anche sul piano visivo. Così, la Salomè del 2011, Morenike Fadayomi, un tipo di donna orientale, dai lunghi capelli  neri e dalla carnagione bruna, fisicamente aggressiva, viene definitivamente sostituita nel 2013 dalla bionda e pallida Annemarie Kremer, portata ad accentuare i toni affettuosi e spesso anche timidi. Rimangono sostanzialmente immutati i costumi la scenografia l’illuminazione e, complessivamente, l’impostazione registica e coreografica che definisce poi anche l’azione mimica dei personaggi e il significato globale dell’interpretazione. Sono questi gli elementi (se si può fare astrazione dalla dimensione più squisitamente musicale, cosa assi dubbia) che permettono di definire le diverse riprese (oltre che le diverse repliche) come un organico sviluppo del progetto. Cercherò pertanto di descriverli, sempre ricordando che mi riferisco alla particolare emergenza fenomenologica del 24 settembre 2013.

La scena è immersa nel buio, all’inizio persino velata da un sipario di tulle nero. Sulle quinte nere i quattro soldati, vestiti in una sorta di divisa kaki (ma si tratta piuttosto di un abito civile segnato da due sciarpe che si incrociano), si distinguono appena, né fra di loro emerge la figura di Narraboth, come invece nella maggior parte delle altre regìe, e in particolare quella di Peter Hall al Covent Garden (1992), dove Narraboth portava una vistosa tunica verde. Appena più caratterizzata la figura del paggio, interpretato, come di norma, da una contralto, ma particolarmente alta – forse una discreta concessione all’idea della presenza, nel testo di Wilde, del tema della omosessualità. Comunque sarà proprio questa presenza ad accentuare il rilievo finalmente concesso al suicidio del giovane Siriano, il quale di fatto, come vedremo, viene ucciso da Salomè. All’ingresso di Salomè, discreto e quasi furtivo, ma che introduce una nota di luce con il suo costume di veli bianco-azzurri, il velo si solleva e la scena si rischiara alquanto, anche perché illuminata dal disco della luna, al cui interno si muovono incerte figure che si definiscono come la silhouette di una donna nuda che accenna un passo di danza: unico riferimento a una possibile nudità della principessa, in uno spettacolo assolutamente casto, e che anzi sembra esaltare il principio della castità, come del resto si può dedurre dalle parole della stessa Salomè, che definisce la luna «fresca e casta» (“kühl und keusch”) e Jochanaan «casto come la luna», mentre in molte altre interpretazioni la danza dei sette veli si conclude proprio con un completo denudamento: così fa Maria Ewing nella citata regia di Peter Hall, così Catherine Malfitano in quella di Peter Weigl a Berlino (1990), così infine succede nella regìa di Giorgio Albertazzi a Roma, il quale, per la danza, sostituisce la cantante Francesca Patanè con la ballerina di professione Marika Albertazzi (2007). Tutti costoro in qualche modo aderiscono all’ipotesi che il mito di Salomè sia all’origine dello streaptise (peraltro adombrato solo in un passaggio di Sant’Agostino, il quale dice che «sotto la leggera tunica la ragazza appariva in una sorta di nudità»).

Al rischiararsi della scena lo spettatore si accorge anche che il centro del palco è segnato da una grande circonferenza grigia, simile a quella della rappresentazione andata in scena a Berlino nel 1985 per la regia di Wieland Wagner, ma qui essa occupa un’area proporzionalmente molto maggiore. Si tratta ovviamente della sponda della cisterna da cui proviene la voce del profeta e che determina, subito, l’impostazione circolare dell’intera azione coreografica, ma al tempo stesso ne rende più evidenti le significative violazioni. La vita degli uomini e delle donne si svolge attorno a questo cerchio magico, che tutti cercano di non violare se non nei momenti cruciali, a cominciare da Salomè, il cui tentativo di sedurre Narraboth affinché apra il coperchio della cisterna si risolve in un balletto circolare, che però si conclude sulla sinistra del palco in una sorta di scambio dei sette veli – quelli del costume di Salomè e le inutili sciarpe che si incrociano sul petto di Narraboth e dei soldati. I veli (e siano pure essi stracci o poco più) diventano dunque, fin da questa sorta di prologo, il motivo dominante dell’intero spettacolo.

Ma, per il momento, non si tratta che di un’anticipazione che prepara una prima impennata spettacolare di questa rappresentazione fatta, come detta la musica di Strauss, di un perenne  rincorrersi di motivi cui si intrecciano e si sovrappongono improvvise esplosioni. È un grande coup de théâtre: Salomè ha persuaso Narraboth ad aprire il coperchio della cisterna, che rivela non l’orrida caverna (Guft) immersa nell’oscurità che Salomè aveva descritto spiandola dall’esterno, bensì un lago di luce accecante: la luce che illuminerà il mondo e gli uomini. Jochanaan ne esce a fatica, ma senza i prolungati sforzi di molti altri interpreti, e si erge nella sua maestosa frontalità, praticamente mantenuta per tutto il tempo della sua presenza. Non è vestito di pelli di capra, o di un semplice perizoma, ma di tanti indumenti confusamente sovrapposti, coperti da una lunga pezza di panno rosso, drappeggiata a guisa di toga. La lunga azione con cui Salomè cerca di sedurre il profeta, trascorrendo nei diversi e contrastanti accenti indicati dal testo drammatico e dai motivi musicali, si svolge prevalentemente come una sorta di danza della donna, che a tratti si ferma componendosi in un’immagine frontale, con lei inginocchiata davanti a Jochanaan, il quale trova toni e gesti di inusuale tenerezza, questa azione raggiunge il suo momento culminante, quando lei gli chiede – tre volte nel testo tedesco – di baciarne la bocca, provocando così il suicidio di Narraboth.

Tutte le regie hanno giustamente cercato di dare particolare rilievo a questo momento, taluna soprattutto per sottolineare l’indifferenza della donna davanti alla morte del suo innamorato, cui aveva promesso un fiore e un sorriso, in contrasto con il doloroso precipitarsi del paggio sul corpo del suicida, soprattutto quando, essendo Narraboth collocato tra Salomè e Jochanaan, come da didascalia, lei scavalca il corpo del morto come se si trattasse di un qualsiasi ostacolo, per avvicinarsi all’uomo desiderato. In almeno un caso, nella regia di Luc Bondy per il Covent Garden (1992), prima di pugnalarsi Narraboth aveva cercato di trattenere Salomè prendendola per la vita e dopo, una volta caduto, afferrandone il piede, che la principessa aveva liberato scalciando con fredda violenza e con rilevato fastidio[4]. Ma nel nostro spettacolo non si tratta più tanto di indifferenza o di freddo disprezzo, quanto di responsabilità diretta. L’idea era già stata proposta in un’improbabile edizione in abiti moderni andata in scena alla Komische Oper di Berlino nell’aprile del 2011, dove una Salomè in minigonna e giubbetto di tela spara sul povero Siriano una raffica di mitra. Nell’edizione della Wiener Volksoper l’episodio si sviluppa in termini molto più complessi e ricchi di organici valori simbolici. Mentre chiedeva a Jochanaan di poterlo toccare e poi baciare, Salomè comincia a togliergli di dosso la toga, che si rivela essere un lungo panno rosso, una vera pezza da negozio: è la donna che spoglia l’uomo perché, come spiega Ortega y Gasset, Salomè non vuole essere accarezzata o baciata, vuole accarezzare e baciare, caso mai soltanto essere guardata (ma solo da lui, non certamente da Erode)  perché, come dirà nel finale, «se tu mi avessi guardata mi avresti amata». Ora, questa lunga pezza rossa arriva, attraversando quasi miracolosamente metà dello spazio scenico, al lontano Narraboth, ne avvolge il collo e lo uccide. Strumento di morte per Narraboth, questa pezza, che sarebbe improprio ma non del tutto sbagliato chiamare anche straccio, è in primo luogo la spoglia di Jochanaan, che Salomè potrà maneggiare avvolgere e ripiegare o  distendere durante tutta la seconda parte, fino a farla diventare, nella terza, una palla che sostituisce, come testa del Battista, la realistica maschera che già Lugné-Poe aveva commissionato al museo delle cere per la prima assoluta della tragedia di Oscar Wilde.

Nella seconda parte viene introdotta una non molto grande, ma significativa variante scenografica: una mezza torre esagonale addossata al fondale e formata da due serie di archi sovrapposti che fungono da finestre o da palchetti da teatro da cui si può osservare ed essere guardati. È come se la sala del banchetto di Erode si fosse introdotta sulla terrazza del palazzo. Infatti nell’arco del primo piano si collocherà Erodiade per osservare, nel finale, il monologo di Salomè, la quale, per iniziare la danza, era salita al piano superiore per svolgere il famoso panno lasciandolo scendere fino a terra, quasi fossero i suoi capelli sui quali un amante potrebbe arrampicarsi per raggiungerla, secondo la più romantica delle immagini. Ma i capelli sono essi stessi l’amante o la sua spoglia.

Come già detto, in questa seconda parte il confronto fra Salomè ed Erode, che ne costituisce il filo conduttore, avviene in un contesto molto più popolato, anche se a rappresentare gli ospiti del banchetto sono solo i cinque Ebrei e i due Nazareni, mentre in altri spettacoli, come quello andato in scena al Metropolitan di New York (2008) o quello di Salisburgo (1976), la scena era popolata di variopinte comparse in abiti da sera moderni a New York, mentre a Salisburgo c’era grande sfoggio di ricchi e variopinti costumi orientali (come succedeva anche nella regìa viennese di Boreslaw Barlog, dove però questi costumi orientali riecheggiano stilisticamente opere di Klimt). Nel nostro caso, Ebrei e Nazareni portano moderni e modesti completi grigi, come lo stesso Erode – né ridicolo né grottesco – il quale però indossa anche un pesante mantello che gli verrà strappato da Salomè. Erodiade introduce un’altra pennellata di bianco lucente che accentua il suo ruolo di protagonista negli scontri con Erode e con la voce di Jochanaan. Il confronto fra Salomè ed Erode è in partenza molto squilibrato, data la logorrea del primo e il silenzio della seconda, ma qui viene parzialmente riequilibrato non solo dalla danza (come è ovvio), ma anche da precedenti azioni della principessa nei confronti del tetrarca.

La danza comincia dalla torre, ma poi si sviluppa in basso, piuttosto veloce e molto agita, i grigi Ebrei, una volta esaurita la loro corale rissa, ne costituiscono dapprima lo sfondo, per poi venirne totalmente coinvolti, incontrando la danzatrice in varie figurazioni, facendola girare o sollevandola, come succede nei balletti e, soprattutto, agitando le loro giacche verso di lei in risposta ai suoi veli. Quando poi, al suo culmine, la danzatrice conquista il centro del magico cerchio al cui interno, ma ormai silente, ancora giace Jochanaan, tutti gli ebrei si distendono proni attorno ad esso per contemplarla affascinati. La danza ha cioè qualcosa di eccessivo, e persino di forzato, che lascia intuire come essa non possa in alcun modo essere considerata frutto di un qualche desiderio di esibizione di Salomè, quanto piuttosto un concedersi a sguardi indesiderati – una forma di prostituzione dolorosa, ma necessaria in funzione di un preciso disegno: la principessa si degrada a quelle cantanti da cabaret, che, mentre eseguono la loro canzone, provocano i clienti accettandone le carezze e sedendosi ai loro tavoli. Bisogna dire che questo succede, in modi diversi, anche in altri spettacoli, in uno dei quali la danza si conclude in un valzer ballato con Erode in una sala improvvisamente vuota (regia di David McVicar al Covent Garden, 2008). Ma alla Volksoper la danza si fa particolarmente intensa, quasi violenta eppure si conclude, come accennato, nell’ammirata contemplazione di tutti, di modo che le parole con cui Erode la accoglie («Ah! Herrlich! Wundervoll! Wundervoll!» – Regale! Meraviglioso! Meraviglioso!) diventano espressione di un sentire universale.

Nella terza parte, uscendo dalla cisterna, il boia consegna a Salomè il panno rosso, avvolto come una palla. Lo spettatore più scaltrito potrebbe aspettarsi che esso contenga la testa di Jochanaan: in diversi altri casi, come nell’edizione diretta da Nikolaus Lehnhof per il festival di Baden Baden nel 2011, Salomè la riceveva avvolta in un panno bianco insanguinato, che poi toglieva per iniziare la sua lunga conversazione-monologo con la raccapricciante testa decapitata. Ma qui, nella regìa di Marguerite Borie (che nel 2011 aveva diretto anche la versione francese dell’opera a Liegi), la palla di panno rosso “è” la testa del Battista, ciò che esclude a priori ogni macabra tenebrosità. E la soprano Annemarie Kremer, la quale punta sui toni più addolciti, escludendo quelli esaltati, come già aveva fatto nella prima parte, dove, non per nulla, il concertatore stesso aveva tagliato il passaggio in cui Salomè dice «Le rosse fanfare di trombe che salutano i re e scoraggiano i nemici non sono tanto rosse come la tua bocca», un’immagine sinestetica musicalmente accompagnata da un inteso ritmo di fiati e di percussioni.

Baciare quel panno rosso, che ha solo vagamente la forma di una testa, diventa allora come baciare un caro ricordo, al massimo una fotografia, ciò che esclude qualsiasi dimensione sessuale, tanto forzata invece negli, in verità sconvolgenti, deep kisses, dove la lingua della donna penetra nella bocca della tragica maschera usati, fra le altre, da Maria Ewing nella regia di Peter Hall e da Catherine Malfitano per quella di Peter Weigl – non per nulla queste due interpreti avevano concluso nude la danza dei sette veli. Che poi il grande velario bianco che si alza a coprire quel castissimo bacio possa nascondere un rapporto erotico più intenso e completo, lo si può anche immaginare, ma ciò potrebbe solo rendere casto anche quell’amore, piuttosto che sporcare quel bacio.

Se ne può dedurre che, per Marguerite Borie, l’amore di Salomè per Jochanaan è totale, anche se, con una feconda contraddizione, esso comporta il completo possesso dell’amato, fino a renderlo attualmente un oggetto che non riesce mai a ridursi a puro simbolo.

Che peraltro il tema della contraddittoria concezione dell’amore possa essere integrato ed espresso da quello del velo, che a sua volta si sostiene sul totalizzante motivo della danza, costituisce forse il principale motivo di interesse di questo intenso spettacolo. Alla fine Salomè muore, come dev’essere. Ma qui non viene schiacciata dagli scudi dei soldati o trafitta dal boia, semplicemente sparisce: la sua fine, restando segnata dall’ordine di Erode, viene espressa soltanto dalla formidabile esplosione orchestrale che, per paradosso, traspone quella singola e invisibile morte in una sorta di catastrofe universale, poiché la grande tela bianca che si era alzata già a celare gli amori di Salomè con Jochanaan – e cioè con la morte – in verità nasconde tutta la scena, ossia, forse, il mondo intero, a eccezione soltanto di uno spicchio di cielo nero.

Salomè, tragedia lirica in un atto. Da Oscar Wilde, traduzione di Edwige Lachmann, musica di Richard Strauss.

Coproduzione Wiener Volksoper, Opéra di Montecarlo, Opéra Royal de Wallonie, Liège.

Personaggi e interpreti:

Herodes: Roberto Wörle

Herodias: Alexandra Kloose

Salome: Annemarie Kremer

Jochanaan: Sebastian Holocek

Narraboth. Mehrzad Montazeri

Page: Martina Mikelic.

 

Regia: Marguerite Borie

Coreografia: Darren Ross

Scena e luci: Laurent Castaingt

Costumi: Pietre Coene

Orchestra della Volksoper Wien, Direttore: Alfred Eschwé 

 

[1] T. Rohde, Mythos Salome, Leipzig, Reclam Verlag, 2000, p. 265.

[2] Eugen von Ziegler,  Richard Strauss in seinen dramatischen Dichtungen, München, Ackermann, 1907, pp. 56-96

[3] The letters of Oscar Wilde, a cura di Rupert Hart-Davis, London, Fourth Estate, 1962, p. 348.

[4] In una messa in scena studentesca (ma non priva di interesse) del testo di Wilde Salome addirittura calpestava il corpo di Narraboth nell'attraversarlo (Anathan Theatre, University Steubenville, Ohio, 1999).

 


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