logo drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | I lettori scrivono | Link | Contatti
logo

cerca in vai

Valeria Tavazzi

Fra parodia e riforma: libretti goldoniani per i comici del San Samuele

Data di pubblicazione su web 14/07/2013
.

Il presente studio è il risultato di un periodo di ricerca condotto presso la Fondazione Giorgio Cini di Venezia a seguito di una borsa di studio post-dottorato del Centro Vittore Branca.

Le opere giovanili scritte da Goldoni perché venissero intonate dagli attori della compagnia Imer costituiscono una delle parti meno note e più sperimentali della sua attività. Ripubblicate di recente in un volume dell’edizione nazionale goldoniana, a cura di Anna Vencato[1], mostrano una fase dell’apprendistato goldoniano molto importante per capire tanto la sua produzione di librettista che la parabola della sua successiva collaborazione con i comici, se non altro perché rivelano la sua profonda e precoce conoscenza delle dinamiche in atto sui palcoscenici veneziani. Si tratta di quattro drammi musicali – Aristide, La fondazion di Venezia, Lugrezia romana in Costantinopoli e La contessina – accomunati quasi esclusivamente dalla loro peculiare destinazione scenica, ovvero dal fatto di non essere scritti per cantanti professionisti, ma per semplici attori; per il resto rivelano però toni e funzioni differenti: Aristide è un insolito “dramma eroicomico”, La fondazion di Venezia un’introduzione di stagione, la Lugrezia romana un testo satirico, mentre la Contessina è un dramma giocoso. Pur nella loro varietà e nell’indubbia originalità di cui sono portatori, questi testi si collocano tutti sulla scia di esperienze teatrali già avviate e sembrano rispondere perfettamente alla strategia commerciale di Giuseppe Imer che accostava repertorio recitato e cantato, introducendo ad esempio gli intermezzi fra gli atti del teatro di prosa[2]. A partire da questa constatazione ci soffermeremo su alcuni aspetti del confronto con il coevo repertorio del San Samuele, iniziando per il momento dall’Aristide e dal prologo della Fondazion di Venezia e riservando a una fase successiva della ricerca ulteriori approfondimenti.

L’Aristide è un “dramma eroicomico” di Calindo Grolo, andato in scena nell’autunno del 1735, la prima sera delle recite dopo un’accademia[3]. Oltre a fornire una netta indicazione di genere, il frontespizio del libretto, pubblicato da Valvasense nello stesso anno[4], riporta celato da un anagramma il nome dell’autore, mentre l’apparato paratestuale interno applica un gioco analogo alle varie figure coinvolte nell’allestimento e agli interpreti (con Asate Galocani, alias Pietro Gandini, nel ruolo di Aristide o Sattalea Quapessali, ovvero Elisabetta Passalacqua, in quello di Arsinoe). I dati desumibili dal libretto restituirebbero lo spaccato della compagnia e dei suoi collaboratori alla metà degli anni trenta con una notevole precisione, se non fosse per la menzione di Lotavio Vandini, cioè Antonio Vivaldi, quale compositore della musica. Sebbene la partitura di questo e degli altri drammi goldoniani per i comici del San Samuele sia perduta, i repertori attribuiscono la paternità musicale dell’Aristide ad Antonio Maccari, mentre, d’altro canto, non esistono prove documentarie che estendano a questo testo la collaborazione Goldoni-Vivaldi attuata per la Griselda. Alla luce di questi fatti Piero Weiss ha avanzato l’ipotesi che la menzione di Vivaldi sia in realtà il frutto di uno scherzo ai suoi danni, parallelo a quello che lo vede ritratto nel frontespizio del Teatro alla moda[5]. Senza entrare nel merito della discussa collaborazione vivaldiana, su cui non esistono comunque dati certi, c’è un altro aspetto dell’apparato paratestuale dell’Aristide su cui vale la pena soffermarsi: il sonetto di dedica a Linco Melliado, ovvero Domenico Lalli, direttore dei teatri Grimani prima dell’arrivo di Goldoni e solo in seguito da lui ufficialmente sostituito in questo ruolo[6].

«Linco non ti stupir se a te mio drama

dedico, e non a qualche alto soggetto,

amo più tosto il tuo leale affetto,

che nudrire nel seno avida brama,

Tu il sai per prova, ed io lo so per fama,

ch’oggi a i grandi un Poeta è poco accetto;

ei consuma su i fogli il suo intelletto,

e spera in van mercede, e in vano esclama.

Erano, or più non son quei Mecenati,

ch’oro davan per Carmi, onde nel mondo

chiara spandean la loro fama i Vati.

Nella Capanna mia vivo giocondo,

canto sol per diletto, e degl’ingrati

all’aspetto deforme io mi nascondo» (pp. 127-128)[7].

In termini non del tutto alieni alle dedicatorie, qui Goldoni affronta il tema della crisi del mecenatismo e ricorre alla pratica della dedica professionale, rivolgendosi per di più a una figura nei cui confronti avrà in seguito parole di stima[8]. Anna Vencato ha notato come, allontanandosi dalla verve paratestuale tipica delle parodie del melodramma – con dediche a pittoreschi personaggi di invenzione come Sussiegata Sprezzatutti (La fama dell’onore, 1727) o Paracelso Ebrette (Nerone detronato, 1726) – Goldoni risponda a temi più urgenti di natura economica e raggiunga con questi versi esiti di insolita levità[9]. E in effetti, a confronto con simili precedenti, la dedica a Lalli appare piuttosto seria e improntata a un aplomb appena scalfito dal gioco anagrammatico. Tuttavia, essa acquista una sfumatura diversa se letta considerando il particolare tipo di accordo che legava Goldoni ai Grimani proprio relativamente alle dediche. Leggiamo il passo delle Memorie italiane:

«Giunto al tempo della Quaresima, l’Imer mi ha procurato un altro avvantaggio. Soleva Sua Eccellenza Grimani per la Fiera dell’Ascensione far rappresentare nello stesso Teatro un’opera seria per Musica. Si serviva ordinariamente di Drammi vecchi; e questi avevan sempre bisogno, o di essere accorciati per addattarli alla calda stagione, o di essere in parte cangiati secondo il bisogno del Compositor della Musica, o secondo il capriccio de’ Virtuosi. Per questo dunque, ed anche per la direzione e per l’istruzion degli Attori vi voleva un Poeta, che sapesse far delle Arie nuove, ed avesse qualche cognizion di Teatro. Era da molti anni in possesso di tale esercizio, tanto per il Teatro di San Samuele, che per quello di San Gio. Grisostomo, appartenenti alla stessa famiglia Grimani, il signor Sebastiano Biancardi Napolitano, uomo di estrazione molto civile, il quale lasciata la Patria erasi (non so per qual causa) cambiato il nome, e chiamavasi Domenico Lalli. Aveva egli del genio per la Poesia; e dalle Opere sue stampate si può giudicare del suo talento. Le dediche in quel tempo erano decadute di quella fortuna di cui godevano ne’ tempi addietro; ma pure si sostenevano ancora in qualche riputazione: e il Lalli dedicando i libretti de’ Drammi vecchi, quando ricomparivano vestiti di nuovo sopra la scena, ne ricavava qualche profitto. Io fui proposto per succedergli in quest’impiego; ma non curandomi di un guadagno, che mi pareva assai stravagante, fu detto che l’utile delle dediche resterebbe al Lalli, ed a me la direzion del Teatro, rimettendo alla generosità del Cavalier Padrone la ricognizion delle mie fatiche. Ciò piacque al Lalli medesimo, e fummo sempre in buona armonia, ed amicizia»[10].

Una conferma del racconto goldoniano possiamo averla osservando i libretti del repertorio andato a scena sui teatri Grimani sia negli anni che precedono l’incontro di Goldoni con Imer sia in quelli della loro collaborazione: vi compaiono con regolarità quasi sistematica dediche a firma di Domenico Lalli, non solo per tutti quei testi, individuati da Weiss, presumibilmente rimaneggiati dal suo più giovane collega, ma addirittura per opere originali di Goldoni (ad esempio Gustavo I Re di Svezia e Statira)[11]. Poiché di solito nel Settecento i proventi della vendita dei libretti andavano agli autori solo in occasione della prima rappresentazione di un dramma, mentre erano a beneficio dell’impresario o del direttore del teatro quando si riportavano in scena opere vecchie, ritoccate o meno[12], appare chiaro che sostituire Lalli nelle sue mansioni presso i teatri Grimani lasciando a lui questo introito, e rinunciarvi non solo in quanto «impasticciatore» di drammi altrui ma anche in qualità di autore drammatico, doveva essere non piccolo sacrificio. Quello che alla lente deformante del ricordo appare a Goldoni «un guadagno assai stravagante» era in realtà una prassi più o meno codificata e contribuiva in modo decisivo al già precario ménage di un uomo di penna e di teatro.

Se poi confrontiamo la dedica goldoniana con quelle numerosissime di Lalli, sia in testi suoi, sia in opere altrui rappresentate sotto la sua direzione, alla ricerca di possibili punti di contatto con il sonetto di Goldoni, dobbiamo constatare la distanza che separa quest’ultimo dalla prassi dedicatoria di Lalli: fra i numerosissimi paratesti a firma di Lalli non compaiono versi (usati invece da Metastasio indirizzando la Didone abbandonata alle dame veneziane e l’anno dopo da Antonio Franceschini nell’omaggio a Giovanni Battista Garelli che apre La clemenza nella vendetta)[13], né testi che affrontino in modo così esplicito la crisi del mecenatismo. Non è dunque con le dediche che dialoga il testo goldoniano ma con un altro tipo di produzione, non inserita nelle soglie dei drammi per i teatri Grimani, di cui ci lascia testimonianza una raccolta uscita solo tre anni prima dell’Aristide, le Rime berniesche di Bastian Biancardi napoletano chiamato Domenico Lalli tra gl’Arcadi Ortanio pubblicate a Venezia da Lovisa contestualmente a un analogo volume di Rime lalliane[14]. Mentre le Rime raccolgono la produzione seria mostrando la varietà e vastità di rapporti intrattenuti da Lalli (con Zeno, Giovan Battista Recanati, Joseph Smith) e nella Vita dell’autore a esse premessa ci forniscono le sue avventure rocambolesche e a tratti truffaldine, le Rime berniesche ci trasportano subito, grazie al genere comico, sul terreno delle più pressanti difficoltà del poeta teatrale: in un testo ad Apostolo Zeno ci viene fornito ad esempio un vivace ragguaglio dei teatri veneti, mentre in un successivo capitolo, sempre a Zeno, sulle «sventure de Poeti Drammatici» troviamo un’interessante summa dei topoi sul teatro d’opera diffusi in tanta produzione metateatrale, dagli impresari che «i varij merti / pongon d’ogni poeta in bilancino», alla concorrenza di più giovani scrittori forestieri, fino alla solita trafila di compositori, interpreti, «Ballerini, Comparse, e Marangoni» impegnati tutti «a martirizzar l’afflitto auttore»[15].

Il tema del mecenatismo diventa esplicito poi in testi indirizzati direttamente a personaggi potenti con cui Lalli intratteneva rapporti di letterario “vassallaggio”; qui l’appello agli interlocutori si accompagna a lamentele sulla sua infelice condizione economica. Ad esempio, rivolgendosi A Sua Eccellenza il Signor Michele Grimani rievoca, con una punta di invidia, elargizioni destinate ad altri («Di generositate un segno stato, / Cento Doble pagar per due libretti, / A un Poeta di me più fortunato»[16]); mentre in un testo d’occasione al duca di Baviera vagheggia la possibilità di avere una pensione e traccia un gustoso profilo della sua estrema indigenza:

«[...] Il Lalli vive

Con far versi; idest da povero,

Drammi inventa, e rime scrive,

ma non basta al suo ricovero.

[...]

Strazzaroli, Ebrei del Ghetto

Testimonij io qui vi chiamo,

Giacché a dirla in senso schietto,

Ben sapete quanto io v’amo.

Fate fede s’io v’ho fatto

Per trofeo del mio mestiere,

Con un Stabile contratto

Guardarobba del mio avere.

Che vuol dir, che da quel punto

Che fo versi per contanti,

Son per voto ognor congiunto

Al spedal de Mendicanti»[17].

Un secondo componimento Alla medesima altezza serenissima elettorale chiama direttamente in causa una sua opera, L’Edippo, dedicata appunto a Carlo Alberto di Baviera, che viene mandata al protettore distratto per ricordargli le esigenze del suo sottoposto:

«Se Un suo Figlio a dirla schietto

Di piacervi ottenne il vanto,

E l’ottenne perché in petto

la pietà vi mosse il pianto.

Ora il Padre in cerca va

Di potere anch’ei decidere,

Se ne Prenci la pietà,

Nascer possa ancor dal ridere»[18].

Al tono serio delle dediche ufficiali Lalli accostava quindi componimenti giocosi, densi di rimproveri alla disattenzione o alla scarsa liberalità dei mecenati e dunque molto più vicini alla dedica goldoniana.

Alla luce di questi fatti appare chiaro come il sonetto di Goldoni nasconda un sottotesto molto più ampio e articolato di quanto immaginato finora, di certo percepibile all’epoca da chi ricordava la raccolta di Lalli (o la diffusione spicciolata dei suoi testi poetici) e aveva magari contezza degli accordi intercorsi fra Goldoni e i Grimani. La mancanza di «avida brama» con cui Goldoni giustifica la dedica professionale da un lato infatti cela l’effettiva impossibilità di porre una dedica seria su un testo come l’Aristide (anche perché se così non fosse il firmatario ne sarebbe appunto Lalli), dall’altro sembra alludere proprio alla rinuncia goldoniana ai relativi emolumenti, evidenziata dall’accenno con cui scherma la sua inesperienza a fronte del navigatissimo interlocutore: «tu il sai per prova, ed io lo so per fama / ch’oggi a i grandi un Poeta è poco accetto». Nel porgere un omaggio che le circostanze rendono sottilmente ambiguo, Goldoni sembra inoltre strizzare l’occhio proprio a quella produzione in cui Lalli si era lamentato della sua condizione e, indirettamente, dell’inanità delle dediche, amplificando così, agli occhi di un lettore accorto ed informato, la distanza che separa il suo disinteresse dall’approccio alimentaire del collega. Con un’abilità che incontreremo spesso nei paratesti maturi e che solo oggi viene adeguatamente messa in luce dagli studi[19], Goldoni costruisce insomma un testo ambivalente, che mentre allontana ogni sospetto di acrimonia nei confronti di Lalli, serve allo stesso tempo a segnare la disparità fra di loro. E se nel farlo si avvale di quella «levità sconosciuta al passo un po’ greve» dei paratesti precedenti, giustamente individuata da Anna Vencato[20], non rinuncia però in tutto alla prospettiva parodica che li improntava, ma invece di rivolgerla a personaggi di invenzione, colpendo genericamente i toni melliflui dell’omaggio interessato, strizza l’occhio ai versi di Lalli e alla sua peculiare condizione di poeta senza diritto di firma[21].

Qualcosa di simile, nella rilettura di topoi comuni non solo al melodramma serio, ma anche alla produzione satirica diffusa nella prima metà del Settecento, Goldoni compie anche all’interno del testo. La storia messa in scena nell’Aristide è difatti piuttosto convenzionale: l’eroe greco si introduce nella reggia di Serse travestito da moro per saggiare la fedeltà della moglie Arsinoe, catturata e insidiata dal tiranno. Temi propri del dramma serio – la fedeltà, la gelosia, l’amore del tiranno per la moglie del nemico, condiviso anche dal sottoposto Cireno – si intrecciano dunque con un travestimento da intermezzo e con il controcanto comico delle vicende amorose tra i servitori Carino e Bellide. In questa mescolanza di piani vengono ripresi passaggi che, senza indicare una derivazione diretta, mostrano però un fondo comune anche ad altri testi satirici o agli intermezzi.

All’inizio del testo goldoniano Aristide incontra il servo Carino addormentato che, svegliandosi di soprassalto e non riconoscendo il padrone perché ha il volto dipinto, si spaventa. Quando Aristide per rassicurarlo svela la sua identità, Carino ribatte:

«Carino: Il mio padrone

     è Aristide di Grecia e non Plutone.

Aristide: Aristide son io.

Carino:                             Lasciate un poco

     che meglio vi contempli. Agl’occhi, al naso,

     alle spalle, alla vita, ai piedi, al tergo,

     alla voce senz’altro io vi discerno.

     Adunque morto siete

     e lo spirito vostro andò all’inferno» (p. 131).

Questa breve scenetta ricorda vagamente un passo di un’operina satirica scritta in risposta al Rutzvanscad il giovane di Valaresso (a sua volta parodia dell’Ulisse il giovane di Lazzarini e della Merope di Maffei), intitolata Mintidaspe il vecchio e attribuita al piemontese Michel Angelo Boccardo. In un suggestivo prologo, Atlante stanco di portare sulle spalle il globo terrestre, prima di deporlo e di vedere uscire da esso due schiere vocianti di poeti vecchi e nuovi in perenne lotta fra loro, invoca l’aiuto di Giove e si vede arrivare invece quello del diavolo Frisesomoro:

«Atlante: Questi se non m’inganno

     All’abito, al sembiante,

     Al favellar tremendo è il Gran Plutone»[22].

La scena che nel Mintidaspe introduce una figura comicamente diabolica di Frisesomoro – due anni dopo personaggio del libello Li diavoli in maschera (Venezia, Storti, 1726) – nel testo goldoniano sviluppa invece un equivoco da Commedia dell’Arte affidato nella sua resa scenica alle capacità mimiche di Giuseppe Imer, che interpretava il ruolo di Carino.

Un secondo passaggio sembra invece prelevato direttamente da un intermezzo. Subito dopo averlo riconosciuto, Carino chiede ad Aristide la ragione del suo strano abbigliamento e quello risponde:

«Aristide: Per iscoprir la fede

     Della Consorte mia.

Carino: Male, malissimo.

     Vi ponete Padrone al un gran cimento:

     Chi sapere, e veder troppo desia

     Spesso discopre quel, che non vorria» (p. 131).

Luogo comune su cui si basa la maggior parte degli intermezzi[23], il travestimento per saggiare la fedeltà del coniuge era stato sfruttato da Goldoni stesso negli Sdegni amorosi tra Bettina putta de campielo e Buleghin barcariol venezian, con una analoga conclusione. Dopo aver cantato l’aria «La zelosa sempre cerca / de trovar in qualche intrigo / quel so caro, quel so amigo / per poderlo maltrattar», Bettina dice infatti:

«Purtroppo se pol dar che me succeda

     de trovar qual che cerco

     e che trovà che l’abbia

     me penta po d’aver recercà tanto»[24].

Ma quello che nelle parole di Bettina denota consapevolezza dei limiti dell’amato e una sottile analisi psicologica dei propri sentimenti, nell’oscillazione già melodrammatica fra opposti desideri, fra esigenza di verità e speranza di ingannarsi, nell’Aristide è ancora una volta affidato al gioco servo-padrone, a quella dialettica fra opposte istanze, seria e giocosa, da cui scaturisce il riso anche nelle più mature commedie goldoniane.

Di fronte a questi esempi viene da pensare, con Ortolani, «a certi melodrammi del Seicento, prima dello Zeno, dove l’elemento comico si accozza col tragico in bizzarra forma»[25]; a sancire la distanza da quella stagione sta però non solo la circostanza che vede già avvenuta la riforma di Zeno e ampiamente avviata quella metastasiana, ma l’intervento dirompente – per la sua capacità di  interpretare problemi percepiti dagli addetti ai lavori e di propagarsi immediatamente in una miriade di altre pubblicazioni – del Teatro alla moda di Benedetto Marcello[26]. Dopo i precetti marcelliani la commistione in musica di serio e faceto acquista facilmente infatti una sfumatura parodica perché, anche nel semplice riuso di luoghi comuni molto diffusi, corre il rischio di ricordare il libello o le molte scritture parodiche che da esso traggono spunto. Così ad esempio l’aria in cui Arsinoe manifesta i suoi propositi di fedeltà anche nel caso in cui Aristide dovesse morire («Tortorella a cui tolse la morte / l’infelice diletto consorte, / finché il duolo riserbala in vita, / piange sempre né più si marita / per serbar al suo sposo la fè», p. 143) fa pensare al precetto rivolto da Marcello ai poeti affinché, per sembrare filosofi, «distinguendo co’ Paragoni le Proprietà degli Animali, delle Piante, de’ Fiori ec.»[27] introducano a sproposito nelle arie farfallette, rossignuoli o navicelle; anche perché nella scena il tono comico è già dato dalla precedente rassicurazione di Bellide alla sua padrona: «Non v’afliggete, / già per marito avete / un bravo greco valoroso e scaltro / e se questo mancasse / ne trovarete in breve tempo un altro», seguita dall’aria «A una donna spiritosa / non può mai mancar marito, / sol chi fa la schizzignosa / suol morir con appetito» (p. 142).

In un testo scritto perché venisse intonato da attori, volutamente ibrido e con notevoli concessioni al comico, ogni riferimento seppur vago alla tradizione della parodia del melodramma viene dunque amplificata dalle circostanze. Nonostante questo, l’aspetto satirico, che sarà percorso in pieno da Goldoni nella successiva Lugrezia romana, si ferma nell’Aristide su un piano di blanda allusività e non esplica tutto il suo potenziale. Un esempio di questa scelta intermedia è visibile nella ripresa della celebre aria metastasiana dalla Didone abbandonata «Son regina e sono amante», messa a confronto con l’aria originale di Metastasio e con la più esplicita parodia che compare in un testo successivo attribuito proprio a Giuseppe Imer, Il trojano schernito in Cartagine nascente e moribonda (1743):

«Son regina e sono amante;

     e l’impero io sola voglio

     del mio soglio e del mio cor.

     Darmi legge invan pretende

     chi l’arbitrio a me contende

     della gloria e dell’amor»

(Didone abbandonata, I,5)[28].

«Son Vassallo, e son amante

     O’ divisi col Regnante

     Per colei gl’affetti miei,

     E sospiro anch’io mercè.

     Fan contrasto entro il mio core

     Il dovere con l’amore

     La passion con la mia fe»

(Aristide, scena V, p. 139).

«Son Regina, e sono amante,

     Caro m’è l’altrui contante;

     Ma l’Impero io sola voglio

     Del mio soglio, e del mio Cor.

     Il mio Enea è un Beccafico

     Bianco, rosso, grasso, e tondo,

     Stimo più di tutt’il mondo

     La sua mano, ed il suo amor»

(Trojano schernito)[29].

Mentre la parodia di Imer, che segue passo passo l’originale metastasiano calcandone diversi passaggi, riprende la prima terzina della celebre aria e ne snatura il senso con l’interpolazione di un verso insinuante, per poi piegare in direzione di toni decisamente comici, il testo goldoniano richiama appena l’incipit dell’arietta, nel ribaltamento dovuto alla diversa situazione (a pronunciare queste parole non è un personaggio femminile, di stirpe regale, ma il capitano di Serse Cireno, anch’egli innamorato di Arsinoe) e nella sostituzione di «regina» con «vassallo».

Se in mancanza della partitura e quindi di uno studio sul rapporto fra questo testo e le sue fonti musicali, non possiamo spingerci oltre nell’individuazione di intenti parodici alla base dell’esperimento goldoniano, da quanto detto finora appare comunque chiaro come con l’Aristide Goldoni concepisca un testo ibrido, a metà strada fra l’opera, di cui pure conserva almeno parzialmente la tenuta delle parti serie, e la satira rappresentata negli anni precedenti al San Luca e al San Samuele con esiti ben più spinti. Nell’alternanza fra serio e comico accompagnati dalla musica sembra anzi dare spazio alla versatilità della compagnia Imer, di cui ricordiamo sono evocati in anagramma i nomi nel frontespizio, rispondendo a una strategia che a giudicare dalle tracce rimaste, sembra piuttosto comune nelle compagnie dell’epoca e senz’altro già percorsa nel più sperimentale fra i teatri veneziani.

Ce lo dimostra la lettura del secondo testo musicale goldoniano per i comici del San Samuele, La fondazion di Venezia, su cui si sono soffermate di recente, con maggiore ampiezza rispetto a quella dedicata all’Aristide, sia Anna Vencato nell’introduzione alla sua edizione, sia Ginette Herry nel primo volume della sua monumentale biografia goldoniana. Non riassumiamo qui le questioni già discusse dalle studiose, per quanto con esiti divaricati[30], limitandoci invece a concentrare l’attenzione sul prologo e sul suo rapporto con l’unico precedente noto, l’Introduzione alle recite della truppa de comici nel teatro Grimani a S. Samuele per l’autunno di quest’anno 1726, posta in musica da Giovan Battista Pescetti e pubblicata nello stesso anno per Alvise Valvasense.

Nelle Memorie italiane Goldoni racconta di aver suggerito a Imer nel 1735 di rinnovare il tradizionale complimento con cui la prima donna accompagnava ogni anno l’apertura della stagione, sostituendolo con un meccanismo più complesso a cui avrebbero partecipato tutti gli attori della compagnia e in cui la prima donna si sarebbe distinta solo nel finale. A giustificare il cambiamento intervengono da un lato la pigrizia della Bastona, che non si curava di imparare un pezzo nuovo, avendo recitato il suo solito complimento nei trent’anni precedenti, e dall’altra le immancabili esigenze della compagnia che aveva «de’ personaggi nuovi da produrre a Venezia». Per questo Imer accetta la proposta del suo collaboratore e Goldoni compone

«una specie di divertimento per la prima sera, diviso in tre parti, che riempivano lo spazio di tre Atti soliti di una Commedia. La prima parte era un’Accademia di belle lettere, nella quale recitava ciascun Personaggio un Componimento in lode di Venezia, o dell’Uditorio, e le Maschere lo facevano ne’ loro linguaggi, e l’Arlecchino principalmente nel suo Carattere. La seconda parte era una breve, allegra Commedia di un Atto solo, in cui le Maschere e i nuovi Personaggi brillavano principalmente; e la terza un’Operetta in Musica in sei Personaggi, intitolata la Fondazion di Venezia [...]»[31].

L’autore fa in modo che nella parte accademica «i personaggi novelli si mettano in grazia dell’uditorio»[32] anticipando così un meccanismo che ritroveremo quindici anni dopo nel Teatro comico, concepito anch’esso con identica funzione proemiale per valorizzare le doti del nuovo Pantalone Collalto e contemporaneamente manifesto della poetica teatrale riformata[33]. Rievocando l’episodio giovanile, che forse si sovrappone nel ricordo proprio al successivo Teatro comico[34], Goldoni ci tiene a segnalare la novità di una simile impresa, la dose di cambiamento che lui stesso immette nei consunti materiali di baule. Il confronto con la citata introduzione del 1726, se non può spingerci a smentire recisamente le affermazioni goldoniane – anche perché non possediamo i testi dell’accademia e della successiva commedia in un atto e non possiamo dunque valutarne la tenuta drammaturgica – induce tuttavia a mettere in dubbio la spiccata novità del procedimento, definendo meglio i contorni della tradizione precedente.

Il testo del ’26 nasce, in base a quanto possiamo dedurre, da un’occasione similare, ovvero la sostituzione di una compagnia comica che ha abbandonato la città lagunare con un’altra e la connessa necessità di presentare i nuovi attori al pubblico. In una «Veduta di Mare, adornata da Glauchi, e Tritoni, che scherzano», compare l’Adria su una conchiglia trainata da mostri marini che, dopo aver cantato un’aria di sdegno, manda a chiamare Nettuno e lo rimprovera di aver dato «placide l’onde» ai comici in partenza da Venezia, lasciando così «d’attori ignudo» un «gran teatro»[35]. Mentre si profila un rapporto di deferenza del dio del mare nei confronti della donna, funzionale alla consueta glorificazione di Venezia, emergono così le ragioni alla base del testo, perché Nettuno si giustifica prontamente:

«Vidi fugir, nol niego,

     Lo stuol, di cui favelli,

     Né rispinger curai l’incauto Legno,

     E ne men volli, che restasse assorto,

     Poich’ei trovar deve il naufraggio in porto,

     Ma di tal fuga non ti caglia; io stesso

     Dalle Spiaggie d’Iberia,

     Dalle Rive dell’Arno

     A’ questa tua Cara città guidai,

     Che dei fugiti empiesse,

     Con egual modo il loco

     Ed’al piacer servisse

     De Cittadini tuoi:

     Colpevole mi chiama, ora se puoi»[36].

La scena serve dunque ad avvisare il pubblico della sostituzione avvenuta sulle tavole del teatro San Samuele, in cui se non ci sono più gli attori della stagione precedente – destinati, con scarso understatement, a far «naufraggio in porto»[37] – ce ne saranno altri appena giunti dalla Spagna e dalla Toscana. Il riferimento è senz’altro alla partenza della compagnia di cui faceva parte Gaetano Casanova (che troveremo l’anno successivo a Londra insieme alla moglie Zanetta)[38] e al ritorno in laguna di Bonaventura Navesi che, direttore del San Luca dopo Riccoboni, era partito appunto per la Spagna nel 1723 in seguito a non meglio identificati screzi con i Vendramin, per approdare nel 1726 ai teatri Grimani con un ingaggio per due anni[39]. La necessità di far noto il cambiamento agli spettatori viene dunque amplificata dal fatto che si sarebbero ritrovati davanti uno o più attori già noti, perché avevano recitato al concorrente San Luca fino a pochi anni prima.

Nel seguito del testo Adria fornisce poi delle coordinate che, sebbene circoscritte alla prima sera, possono essere interpretate quale embrionale dichiarazione di intenti da parte dei nuovi arrivati:

«Vanne, tutti gl’invia

     In questa spiaggia, e dille,

     Ch’io vò veder in questa prima impresa,

     Misto al serio il giocoso,

     il ridicolo al grave, e ogn’un s’adopri,

     Che dall’alto mio Soglio,

     Il merito d’ogn’un pesar io voglio»[40].

Ma ciò che più conta ai fini del confronto con Goldoni è che a questo punto vengano chiamati in scena gli attori e che si svolga il tradizionale complimento della prima donna:

«Doppo ciò verranno i Comici in Scena, guidati dalla Prima Donna, la quale eserciterà coll’Uditorio gl’atti del suo dovere; Indi accorgendosi della mancanza del capo della Compagnia, cercato in vano da Comici, posti in disordine, vedrassi questo Comparire addormentato sopra d’una Conchiglia, additato alla Compagnia dall’istessa»[41].

Dopo l’ennesima manifestazione di giubilo dell’Adria, è quindi il momento di dare inizio alla rappresentazione vera e propria che sembra improntata alla stessa varietà perseguita da Goldoni per la Fondazion di Venezia:

«Adria partita, e prottestato il suo rispetto dal Capo della Compagnia all’Udienza partiranno tutti li Comici à dar principio alla loro rappresentazione, che sarà un’Operetta di vago intreccio, breve, e  giocosa, divisa in due atti da una Farscia comica rappresentata dalle Maschere.

Il Titolo dell’Operetta è questo.

Il Re, che non è Re, l’Uomo non Uomo Fatto Uomo dal caso, e Re dall’Uomo.

Il Titolo della Farscia si è Pantalone travagliato per la mala inclinatione del Figlio»[42].

Sebbene i titoli delle operette rappresentate siano del tutto alieni alle successive scelte goldoniane, e rimandino piuttosto a pasticci o scenari della Commedia dell’Arte, comunque interessante ai nostri occhi risulta l’accostamento in un’unica serata di pezzi vari, presumibilmente funzionali alla valorizzazione dei diversi interpreti tipica dell’inizio di stagione[43]. In questa serata proemiale trovano infatti spazio sia gli attori “seri” nella strana operetta menzionata, sia le maschere, utilizzate in una farsa probabilmente a soggetto durante l’entr’acte, mentre la stessa cornice con Nettuno e l’Adria permetteva di sfoggiare le capacità canore dei comici specializzati negli intermezzi (e che quello stesso anno interpreteranno ad esempio Tropotipo di Lalli).

Pur con le dovute differenze, siamo dunque in presenza di un testo che per posto occupato all’interno del cartellone (prima sera delle recite), teatro (S. Samuele) e composizione tripartita (di cui rimane, analogamente, solo la parte per musica) sembra il diretto antecedente dello spettacolo goldoniano. Per questo, e per la comune preferenza che vi viene manifestata per i generi misti, già Anna Vencato ha sottolineato come in esso si prefigurino «le intenzioni di Goldoni»[44], evidenziando la persistenza nel testo goldoniano di una tradizione comicale espressa dalla compagnia Imer che fa del prologo un «mediato ma esplicito manifesto degli attori»[45].

E infatti nella princeps della Fondazion di Venezia, Goldoni accompagna la leggenda dello sbarco di un gruppo di nobili in laguna e della loro unione a con gli umili pescatori che la popolano, con un prologo in cui, sulla medesima spiaggia, la commedia e la musica in gara fra loro si contendono il primato sui palcoscenici veneziani. Nel litigio fra le due la musica rinfaccia alla commedia di essere stata tollerata solo grazie a lei, testimoniando così una lunga pratica della mescolanza fra recitazione e canto da parte dei comici, finché l’intervento del genio dell’Adria, chiamato a risolvere la contesa, non arriva a teorizzare la necessità della concordia:

«Oggi l’una di voi non è bastante

senza l’altra piacer su queste scene.

Se non ha la commedia

l’ornamento del canto,

spera invan riportar applauso e vanto;

e la Musica stessa

se non ha ne’ suoi drammi oltre raggione

qualche commica azione,

se conserva il rigor della Tragedia,

anzi che dar piacer, suo canto attedia» (p. 155).

Appurata l’interdipendenza fra le due, da leggere sullo sfondo di un’abitudine della compagnia Imer e non solo, la gara proseguirà per stabilire chi fra commedia e musica debba avere «il primo loco» e avverrà sul palco del San Samuele dove prima l’una e poi l’altra si faranno valere davanti al genio-giudice. Il prologo introduce così le varie parti della rappresentazione e conferma l’alternanza fra l’«allegra commedia in un atto solo» e la musica della Fondazion di Venezia.

Rispetto alla commistione di generi suggerita dai comici nel 1726, qui Goldoni fa un passo avanti e affronta non solo il tema della commedia per musica, che aveva avuto un precedente, ad esempio, proprio ad opera di Lalli con l’Elisa andata in scena al Sant’Angelo nel 1711, ma anche quello delle performance canore dei comici, ovvero di quel particolare repertorio che lui stesso sta sperimentando parallelamente al filone tragico e al rifacimento dei melodrammi seri. La concorrenza degli attori nei confronti del teatro per musica, ottenuta attraverso l’accostamento del canto alle rappresentazioni di prosa, era già stata oggetto, del resto, di una satira che dieci anni prima, prendendo di mira l’impresario Orsatto e con esplicito riferimento al Teatro alla moda di Benedetto Marcello, aveva parodiato la Didone abbandonata di Metastasio, L’opera in comedia di N. N. divertimento comico-critico da recitarsi nel famosissimo teatro alla moda. Modellata su L’opéra de campagne e su Le Départ des comédiens di Dufrensy[46], ma densa di riferimenti alla vita spettacolare contemporanea[47], questa commediola aveva già tematizzato, nella scelta da parte dei comici di rappresentare un’opera all’improvviso, la concorrenza fra commedia e musica, fra attori e cantanti (condotta anche da un punto di vista economico, visto che gli attori cantano per molto meno dei professionisti, con critica agli onorari dei virtuosi apparsi nella stagione precedente); ma soprattutto attesta come questa rivalità avesse già dato i suoi frutti nel 1726[48]. Nella prima scena dell’Opera in commedia Arlecchino rimprovera infatti a Fichetto di non aver saputo imparare a memoria in tre settimane quattro versi da recitare nella loro prossima rappresentazione e, quando quello sostiene che sia normale avere simili difficoltà, ribatte:

«Come? in trè settimane? e che faresti allora quando rappresentar si dovesse una qualch’opera, come già s’è introdotto a gran dispetto de’ musici, e degl’Impresarj, che hanno vedute le nostre recite rendere deserti i loro Teatri»[49].

Quando Goldoni nel 1736 pubblica il prologo della Fondazion di Venezia è chiaro dunque come si stia confrontando con il repertorio e le esigenze degli attori e come, dietro questo precedente del Teatro comico, si stagli netto all’orizzonte il profilo impresariale di Giuseppe Imer. Ciò che però sembra non sia stato sufficientemente messo in luce è come questa tradizione sia un dato di fatto già nel 1726 e come quindi Goldoni ammanti di novità nel ricordo una serie di opzioni, attribuite a lui o al capocomico, che erano già state percorse. Come il confronto con i dati reali impone di smentire, insomma, le dichiarazioni goldoniane a proposito dell’introduzione degli intermezzi a Venezia, evidentemente funzionale alla ricerca di un “primato” che lo induce anche a sminuire il ruolo di Antonio Gori[50], allo stesso modo la scelta di elaborare in forme più ampie e articolate il complimento di inizio stagione sembra derivare da una prassi già attestata. In quest’ottica anche la commistione di serio e faceto, di canto e recitazione, più che prefigurare «un genere avvenire»[51] sembra in linea con le precedenti sperimentazioni praticate sulle tavole del San Samuele.


  

[1] C. Goldoni, Drammi musicali per i comici del San Samuele, a cura di A. Vencato, Venezia, Marsilio, 2009.

[2] Goldoni stesso ci fornisce testimonianza di questa pratica: cfr. Memorie italiane. Prefazioni e polemiche III, a cura di R. Turchi, Venezia, Marsilio, 2008, p. 223. Un’ulteriore conferma della recitazione degli intermezzi da parte dei comici e del successivo allontanamento di Goldoni da questa stagione si ha nel Teatro comico, su cui cfr. P. Vescovo, «L’Armonia dei cucchiai»: Metastasio nello specchio dei comici, in Il canto di Metastasio, vol. II. Atti del convegno di studi, (Venezia, 14-16 dicembre 1999) a cura di M.G. Miggiani, Bologna, Forni, 2004, 2 voll., pp. 573-585.

[3] Cfr. A. Vencato, Introduzione a C. Goldoni, Drammi musicali per i comici del San Samuele, cit., pp. 9-110: 68.

[4] Su queste prime stampe goldoniane, cfr. A. Scannapieco, «Io non soglio scrivere per le stampe...»: genesi e prima configurazione della prassi editoriale goldoniana, in «Quaderni veneti», 1994, 20, pp. 119-186.

[5] Cfr. P. Weiss, Goldoni poeta d’opere serie per musica, in «Studi goldoniani», n. 3, 1973, pp. 7-40 e Id., Da Aldiviva a Lotavio Vandini. I «drammi per musica» dei Comici a Venezia, nel primo settecento, in L’invenzione del gusto: Corelli e Vivaldi. Mutazioni culturali, a Roma e Venezia, nel periodo post-barocco, a cura di G. Morelli, Milano, Ricordi, 1982, pp. 168-188: 185). Weiss arriva persino a ipotizzare che lo stesso Goldoni possa essere vittima dello scherzo e non sia quindi il vero autore dell’Aristide. Sulla questione cfr. anche Franco Fido, Le tre «Griselde» e un episodio dei «Mémoires»: appunti su Goldoni librettista di Vivaldi, in Da Venezia all’Europa. Prospettive sull’ultimo Goldoni, Roma, Bulzoni, 1984, pp. 168-188: 170-171.

[6] Sebbene i compiti di Goldoni anche in questa prima fase rispondano a quelli di un direttore (almeno stando alle sue dichiarazioni), l’incarico di direttore al posto di Lalli gli venne ufficialmente assegnato solo nella quaresima del ’36. Cfr. G. Herry, Carlo Goldoni. Biografia ragionata, to. I, 1707-1744, Venezia, Marsilio, 2007, p. 199.

[7] Per questo testo e per la Fondazion di Venezia si cita da C. Goldoni, Drammi musicali per i comici del San Samuele, cit.

[8] Sulla dedica cfr. M. Paoli, La dedica. Storia di una strategia editoriale, Pisa, Pacini Fazzi, 2009, pp. 324-328. Per la stima di Goldoni per Lalli, oltre al passo citato subito dopo, cfr. Memorie italiane, cit., p. 263.

[9] Cfr. A. Vencato, Introduzione a C. Goldoni, Drammi musicali per i comici del San Samuele, cit., pp. 14-17. Sulla produzione parodica dei comici cfr. inoltre P. Weiss, Da Aldiviva a Lotavio Vandini, cit.

[10] C. Goldoni, Memorie italiane, cit., pp. 239-240.

[11] Cfr. P. Weiss, Goldoni poeta d’opere serie per musica, cit., pp. 20-21 e C. Goldoni, Drammi seri per musica, a cura di S. Urbani, Venezia, Marsilio, 2010.

[12] Cfr. L. Bianconi, Condizione sociale e intellettuale del musicista di teatro ai tempi di Vivaldi, in Antonio Vivaldi. Teatro musicale cultura e società, vol. II, a cura di L. Bianconi e G. Morelli, Firenze, Olschki 1982, 2 voll., pp. 371-388: 377. Nei Mémoires infatti l’accenno a questo stesso accordo, fatto cadere all’interno del celebre colloquio con Vivaldi, oltre agli emolumenti derivati dalle dediche menziona apertamente quelli della vendita dei libretti nel novero dei proventi che sarebbero rimasti a Lalli: cfr. C. Goldoni, Tutte le opere, vol. I, a cura di G. Ortolani, Milano, Mondadori, 1935-1956, 14 voll., p. 165.

[13] Cfr. A. Vencato, Introduzione, cit., p. 97.

[14] Cfr. B. Brizi, Domenico Lalli librettista di Vivaldi?, in Vivaldi veneziano europeo, a cura di F. Degrada, Firenze, Olschki, 1980, pp. 183-204.

[15] Rime berniesche di Bastian Biancardi napoletano chiamato Domenico Lalli tra gl’Arcadi Ortanio, Venezia, Lovisa, 1732, pp. 59-63.

[16] Ivi, p. 90.

[17] Ivi, pp. 27 e 29.

[18] Ivi, p. 33.

[19] Cfr. ad esempio, a proposito della dedica del Festino a Pietro Verri, B. Anglani, Tra ‘nobile natura’ e ‘riso vile’. Goldoni e Pietro Verri, in «Lavoro critico», 1993-1995, 25-27, pp. 171-201:186; o ancora sulla prefazione alla Donna vendicativa cfr. A. Scannapieco, Giuseppe Bettinelli editore di Goldoni, in «Problemi di critica goldoniana», I, 1994, pp. 63-188: 177n. Sulle dediche goldoniane cfr. inoltre C. Alberti, Dediche ad uomini prudenti. Le relazioni di Goldoni con i destinatari delle sue commedie a stampa, in «Ariel», VII, 1992, 3, pp. 99-130; R. Turchi, Dedicatari toscani del Goldoni, in Carlo Goldoni in Toscana. Atti del convegno di studi (Montecatini Terme, 9-10 ottobre 1992), in «Studi italiani», V, 1993, 1-2, pp. 7-40 e Id., Dedicatarie goldoniane, in Le donne di Goldoni, «Problemi di critica goldoniana», XVI, 2009, pp. 73-90.

[20] A. Vencato, Introduzione, cit., p. 17.

[21] Sull’ambivalenza di questo omaggio cfr. A. Scannapieco, «Io non soglio scrivere per le stampe...», cit., p. 142.

[22] Mintidaspe il vecchio arcipiuchesopraradicolosissima Tragicomedia di Merlino Beccatutto Academico Incolto, e Poeta Grecheggiante giurato in risposta Alla moderna Tragedia di Cattuffio Panchiano Autore di buon gusto, Venezia, Geremia, 1724, p. 7.

[23] Cfr. I. Mamczarz, Les intermèdes comiques italiens au XVIIIe siècle en France et en Italie, Paris, Editions du centre national del la recherche scientifique, 1972.

[24] C. Goldoni, Intermezzi e farsette per musica, a cura di A. Vencato, introduzione di G.G. Stiffoni, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 103-104.

[25] Cfr. G. Ortolani, Nota storica dell’Aristide, in Opere complete di Carlo Goldoni edite dal Municipio di Venezia nel II centenario della nascita, vol. XXVII (1929), Venezia, Municipio, 1907-1952, 40 voll., pp. 31-34; Franco Fido, Le tre «Griselde», cit., p. 170.

[26] Sull’effetto pervasivo del Teatro alla moda, cfr. almeno U. Rolandi, Il teatro alla moda di Benedetto Marcello e le sue propaggini, in La scuola veneziana, secoli XVI-XVIII, Note e documenti, Siena, Accademia musicale chigiana, 1941, pp. 51-57 e G. Ferroni, L’opera in commedia: una immagine del melodramma nella cultura veneziana del Settecento, in Venezia e il melodramma del Settecento, vol. I, a cura di M.T. Muraro, Firenze, Olschki, 1978, pp. 63-78.

[27] B. Marcello, Il teatro alla moda, prefaz. e note di A. D’Angeli, Milano, Bottega di poesia, 1927, p. 31.

[28] P. Metastasio, Didone abbandonata, in Drammi per musica, I. Il periodo italiano, 1724-1730, a cura di A.L. Bellina, Venezia, Marsilio, 2002, pp. 79-80.

[29] Il Trojano schernito in Cartagine nascente, e moribonda. Dramma per musica, Venezia, Mora, 1743, p. 13.

[30] Ad esempio relativamente alla datazione: cfr. A. Vencato, Introduzione, cit., pp. 67-68 e G. Herry, Carlo Goldoni. Biografia ragionata, to. I, 1707-1744, cit., p. 237 e pp. 240-245. Ginette Herry era già intervenuta sulla Fondazion di Venezia in altre occasioni: cfr. Goldoni: le ciel vide, le théâtre et le monde, II. Les jeux de l’amour ou la question du pacte social dans ‘La Generosità politica’, ‘Gustavo primo Re di Svezia’ et ‘La fondazion di Venezia’, in «Byzantinische Forschungen», XII, 1987, pp. 771-796; La Fondation de Venise ou Le cauchemar de Dorilla. Fable thèatrale de Ginette Herry d’après ‘La Fondation de Venise’ ‘Les Trois Bossus rivaux amoureux de Dame Charmante’, deux livrets musicaux de Carlo Goldoni, s.i.e., 2003.

[31] C. Goldoni, Memorie italiane, cit., p. 249.

[32] Ivi, pp. 249-250.

[33] Cfr. A. Scannapieco, Goldoni tra teoria e prassi del teatro comico (appunti proemiali), in Carlo Goldoni in Europa, a cura di I. Crotti, «Rivista di letteratura italiana», XXV, 2007, 1, pp. 13-37.

[34] Spia di questa sovrapposizione sarebbe il frontespizio del XIV tomo Pasquali, su cui cfr. G. Herry, Carlo Goldoni. Biografia ragionata, to. I, 1707-1744, cit., pp. 236-237.

[35] Introduzione alle recite della truppa de comici nel teatro Grimani a S. Samuele per l’autuno di quest’anno 1726 posta in musica dal Sig. Gio: Battista Pescetti, Venezia, Valvasense, 1726, pp. 3 e 4.

[36] Ivi, p. 5.

[37] Ibid.

[38] Cfr. la voce di Roberta Ascarelli su Giovanna Farusi (Zanetta Casanova) nel Dizionario biografico degli italiani (Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, vol. XLV [1995], pp. 190-192: 191), in cui si dice che Gaetano Casanova recitava nel 1724 al S. Samuele con una modesta compagnia di comici e che dopo aver sposato la giovane Zanetta senza il consenso dei genitori partì con lei per Londra nel 1726.

[39] Cfr. Gerardo Guccini che riporta anche il foglio con cui i Vendramin acconsentono a che Navesi possa essere ingaggiato dai Grimani (Dall’innamorato all’autore. Strutture del teatro recitato a Venezia nel XVIII secolo, in «Teatro e storia», II, 1987, 2, pp. 251-293: 277-278).

[40] Introduzione alle recite, cit., p. 5.

[41] Ivi, p. 6.

[42] Ivi, p. 7.

[43] La ritroveremo anche in Osmano re di Tunisi (su cui cfr. A. Scannapieco, Alla ricerca di un Goldoni perduto: ‘Osmano re di Tunisi’, in «Quaderni veneti», 1994, 20, pp. 9-56) e in seguito nelle Convulsioni di Carlo Gozzi.

[44] A. Vencato, Introduzione, cit., p. 70.

[45] Ivi, p. 69.

[46] Cfr. G. Ferroni, L’opera in commedia, cit.

[47] Cfr. M.G. Miggiani, La Romanina e l’Orso in peata. In primi drammi metastasiani a Venezia tra evidenza documentaria e invenzione metateatrale (1725-26), in Il canto di Metastasio, cit., vol. II, pp. 731-744.

[48] Anno in cui viene messa in scena la prima parodia comica a noi nota: Nerone detronato, su cui cfr. anche C. Alberti, La scena veneziana nell’età di Goldoni, Roma, Bulzoni, 1990, pp. 90-94.

[49] L’opera in comedia divertimento comico-critico del sig. N. N. da recitarsi nel famosissimo Teatro alla moda, Amsterdam, Rom-sterck, [1726], p. 10.

[50] Cfr. P. Vescovo, Carlo Goldoni: la meccanica e il vero, in I. Crotti, P. Vescovo, R. Ricorda, Il “Mondo vivo”. Aspetti del romanzo, del teatro e del giornalismo nel Settecento italiano, Padova, Il Poligrafo, 2001, pp. 55-152: 66.

[51] A. Vencato, Introduzione, cit., p. 69.



© drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it

 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013