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Italo Moscati

L’arte della manutenzione della motocicletta “tradì” Pino Pascali, grande artista degli anni Sessanta

Data di pubblicazione su web 02/05/2011
Pino Pascali

A Londra una grande mostra ha reso omaggio a Pino Pascali: un artista, un regista fra cinema e tv, un ricercatore instancabile inserito nell’avanguardia italiana negli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1968 Pascali morì in un incidente stradale: una grave perdita. Da allora, dopo una disattenzione durata a lungo, solo negli anni Duemila si è avviato un recupero, una riflessione sui contributi dati da Pascali – pugliese d’origine – a una Roma culturalmente vivace, con intrecci sempre più stretti fra arti visive, cinema e una televisione che stimolava la creatività non solo in Pascali ma anche in altri personaggi dell’avanguardia, come Mario Schifano. Pubblichiamo qui un breve saggio che Italo Moscati ha scritto per il suo nuovo libro intitolato L’albero delle eresie, di prossima pubblicazione presso l’editore Ediesse di Roma.

 

L’arte della manutenzione della motocicletta non funzionò e Pino Pascali, nato a Polignano a Mare nel 1935, morì a soli 33 anni. Era il 1968, il mito del Sessantotto già allungava le sue radici e troncava le sue.

Ero appena arrivato a Roma e di questa scomparsa si parlava con sorpresa e inquietudine nel quadrilatero della vita. Un quadrilatero archeologico che conteneva l’avanguardia – anzi le avanguardie – una lunga gravidanza durata fino ai tardi anni Settanta, quando le avanguardie vennero ammainate come bandiere nel lutto del terrorismo e dello smarrimento degli artisti che avevano amato una parola, una sola parola: “rivoluzione”.

Eccolo il quadrilatero gravido che partorì gemelli di età diverse, poco prima e durante gli anni della guerra: Piazza del Popolo, luogo di gallerie e di artisti nelle vie adiacenti, da Margutta al Babuino; Via Veneto, che era stata la tana dei poeti e della Hollywood sul Tevere, dove dormiva ormai il ricordo della dolce vita felliniana; Campo de’ Fiori, piazza raccolta attorno al mercato e alla statua di Giordano Bruno che ancora fumava per l’antico rogo clericale e sede di cene notturne del quartetto delle letterature di Moravia, Pasolini, Maraini e Siciliano; infine Trastevere, in cui ogni buco, ogni cantina, erano occupati dai ratti dell’avanguardia teatrale e dei cineclub.

L’arte della manutenzione della motocicletta troncò Pascali e lo consegnò al limbo di coloro che sono cari agli dei perché muoiono giovani. Solo nel 1974 uscirà il libro Lo Zen o l’arte della manutenzione della motocicletta.

Però Pascali conosceva e amava la moto; il caso volle che la personale manutenzione si pervertì in lutto.

Non era ancora stato proiettato Easy Rider di Dennis Hopper – protagonista Peter Fonda – in cui tutti i personaggi cavalcavano insieme le Harley Davidson e l’erba, col fiato sul collo della moda del buddismo Zen. Apostasie in cui si donava anche il grande poeta Allen Gingsberg: gran barba, saio bianco, fermato dalla polizia al Festival di Spoleto del 1966 sotto l’accusa di essere stato il dicitore di poesie pacifiste.

Era il tempo dei trucchi e dei travestimenti. Ma anche di chi sentiva la propria pelle nuda come l’unico vestito da indossare. Nel 1965 erano appena arrivati il Living Theatre, espulso dagli Usa per mancanza di pagamenti fiscali e slogan contro la guerra americana nel Vietnam. Nudi, stupendi, luci magiche, musiche che bucavano dentro.

Rombava il mondo e rombavano le motociclette. Anche dopo la morte di Pascali continuò a guidare il rombo di tuono via scappamento, un altro artista baciato dalla fortuna romana: Eliseo Mattiacci, della provincia pesarese, tutto vestito di pelle (le moto erano forse già “made in Japan”). La giubba attillata sotto i capelli biondi, disordinati, attraenti, era da reliquia: la tuta mimetica da ribelle di Marlon Brando in Il selvaggio (The Wild One).

Veniva, a prima vista, tutto dall’America. Contenitori, come quelli che – ha scritto Roberto Saviano, oggi vengono dalla Cina – carichi di lavatrici, televisori, elettrodomestici, blue jeans e rock; mentre in contenitori a parte, foderati di broccato, arrivavano le opere di Andry Wharol, Roy Litchtenstein e Robert Rauschenberg. Andavano a ruba nell’immaginario italiano, in un paese sconfitto nella seconda guerra mondiale e sdoganato dal fascismo dai marines e dai valorosi partigiani nella Repubblica di Salò, quella di Mussolini e della X Mas.

Pascali veniva dalla Puglia. Ma non era solo. Se lui veniva da Polignano a Mare, vicino Bari, altri pugliesi destinati a diventare famosi, venivano anch’essi dalla profonda provincia del Sud. Con un’altra caratteristica in comune: bocciature o fughe liberatrici.

Sui banchi non sedevano più i balilla o gli avanguardisti del Duce, ma – rintronati dalle bombe ancora in testa, dal pane e cipolla e dai docenti che avevano appena nascosto le camicie nere – i ragazzi. Sedevano quei ragazzi ignoti che si sono smarriti dal 1954 tra le nebbie dell’Italia televisiva che è salita in cattedra, coram populo, fino a Platinette o a Valeria Marini o a soubrette di vario taglio, fra i corpi d’avanguardia delle nuove statue.

Pascali era stato ripetente in un liceo barese e si trasferì a Roma. Carmelo Bene, pugliese di Campi Salentino, 1937, venne selezionato dall’Accademia d’Arte della capitale: entrò in classe e capì che doveva andarsene. Leo De Berardinis, 1939, da Gioi nel Cilento trasferitosi con la famiglia a Foggia, s’iscrisse all’ università ma la flebo che gli dava la sopravvivenza era il teatro del Centro Universitario Romano: se la staccò ed evase.

Tante storie di cocciuta avanguardia. Roma era la città da espugnare. Con i pugliesi, ci provarono i toscani. Arrivarono sciolti o a pacchetti gli splendidi gay della larga corte del conte Luchino Visconti: Franco Zeffirelli, Mauro Bolognini, il gran sarto Umberto Tirelli e il gran maestro della scena e del costume Pierino Tosi, con i loro seguiti. Presero una casa in via Frattina, qualcuno la chiamò la “Casa d’Amore” (e dell’Umore: litigavano spesso e spesso facevano pace).

Ci provarono, proprio intorno al 1968, i brasiliani: Glauber Rocha, il regista del Dio nero e il diavolo biondo o Terra in trance o Antonios das Mortes, Carlos Diegues e Gustavo Dahl. Stupefacenti. Bossa nova. Tristeza, nun te move. Revoluciòn.

Pascali in mezzo alla danza dei “tarantolati” approdati nel quadrilatero ci s’infilò poveramente; nel senso che si scoprì arruolato dai critici tra gli esponenti dell’“arte povera”, che peraltro non fu mai a buon mercato.

C’erano i piemontesi Michelangelo Pistoletto e Mario Merz e tanti altri di provenienza diversa: Mario Ceroli, Giulio Paolini, Cesare Tacchi, Sergio Lombardo e Mattiacci, già ricordato. C’era il greco Jannis Kounellis, detto l’“uomo del carbone”, che andava in giro con sacchi di coke, diventato famoso anche per un inconveniente accaduto nel corso di una sua mostra in una galleria del centro storico: la cagata storica dei cavalli che lui, baffi da domatore da circo, aveva “esposto”, peraltro suscitando molte aspettative.

La definizione “arte povera” fu ispirata a Germano Celant, che con Achille Bonito Oliva (che ancora non si era “esposto” nudo), guidava gli orientamenti della critica e si ispirava al “teatro povero” di Jerzy Grotowski: un geniale regista polacco che faceva spettacoli con corpi nudi e candelabri accesi. Mistica fisica e luminista che contagiò presto Memè Perlini e altri registi dell’avanguardia scenica che contendeva pubblico e novità alle gallerie, comprese le stravaganze.

Pascali non era per nulla stravagante. Procedeva in varie direzioni quasi in disparte e non avrebbe mai mandato a quel paese gli spettatori, come faceva invece Carmelo Bene. Insulti che Alberto Arbasino e altri vogliosi di attualità creativa sembravano gradire molto, come pure il rischio di essere sottoposti a una piccola doccia di pipì, cosa che osò fare Carmelo e fu graditissima: facevano la fila con i ricambi nella borsetta (le donne) o nel borsello (i maschi).

Pascali lavorava in silenzio e molto. Giocava con le immagini secondo un piacere e un gusto psicologico che egli stesso riconduceva alla sua infanzia. Le sue mostre, rapidamente di successo, tornavano alle armi che Pino aveva avuto da bambino. O agli animali preistorici, Jurassic Park, trofei di caccia, bachi “da setola” (e non da seta), grandi rettili. O frammenti anatomici mostrati con limpido pudore: il pancione di una donna gravida; labbra in primissimo piano; mons veneris. Sculture e dipinti eleganti e diretti con frecce all’emozione dello sguardo – anzi degli sguardi – dei singoli visitatori, di mostre che aumentarono di frequenza in Italia e anche, molto, all’estero.

Giocava e faceva sul serio il “Motociclista d’arte”. Anche con il cinema, la tv e il teatro, per cui ideava soluzioni d’immagini che erano pertinenti al mezzo che rivisitava e reinventava senza per questo sprecare la voglia di travolgere. In quegli anni di trasgressione Pascali aveva visioni e misure davvero fuori dagli stereotipi e dalle convenzioni.

Ci fu un regista del cinema di contestazione, un nome abbastanza noto travolto poi dalla fine dei gruppi cosiddetti “extraparlamentari”, che mostrava a tutti nella sua casa una scritta permanente su di una lavagna tenuta nel “salotto buono”. La scritta diceva: «Ricordarsi di fare la rivoluzione». Chissà se l’ha dimenticata.

Pascali lavorava a spot pubblicitari, a Carosello (sulla cera da pavimenti o sui gelati o sulle conserve di pomodoro), a sigle (il settimanale Tv7), alla divertente e ben realizzata Biblioteca di Studio Uno del Quartetto Cetra; a sceneggiati, film, documentari. Fece anche brevi parti d’attore.

Non aveva un carattere, aveva “un carattere”. Quando La tartaruga, la galleria di Plinio Martis, rifiutò di esporre Le armi, Pascali noleggiò un camion e trasportò le sue opere a Torino, incurante di conservare deboli, ipocriti contatti, con un gallerista molto potente.

Ebbe rapporti molto stretti con Fabio Sargentini: un uomo curioso, un esploratore refrattario a subire condizionamenti, che accoglieva nel suo “attico” – collocato peraltro in un sotterraneo – artisti “seri” come lui.

Non amava i conformisti. Nell’anno della contestazione, delle slavine del 1968, conservò quella compostezza che contraddiceva gli slanci astratti, ansiosi, narcisistici di contestatori pronti a compromettere la loro ricerca artistica nell’intensa, persino entusiasmante, ebbrezza dell’attacco alla Biennale d’arte veneziana. Nel settembre di quell’anno Pascali non riuscì a fare la manutenzione alla sua vita e se ne andò. Per caso.

Un ultimo fatto. Molto postumo. Nel 1983 il ministro degli Interni Scalfaro si recò alla Pinacoteca di Bari per vedere una mostra di Pascali. Gli mostrarono le Pozzanghere dell’artista: una delle sue opere, circoli d’acqua. Il ministro reagì con sarcasmo. Non accettò spiegazioni, disse di sentirsi preso in giro: «Non la mando giù».

Pascali non c’era, peccato. Avrebbe potuto ribattere regalando al ministro uno dei suoi animali preistorici: Dinosauro!.  Il jurassic park continua e lotta “contro” di noi.





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