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Fulvio Cervini

Don (Ab)Bondi e il tracollo dei beni culturali italiani

Data di pubblicazione su web 25/11/2010
Don (Ab)Bondi e il tracollo dei beni culturali italiani

Pubblichiamo l’articolo del Prof. Fulvio Cervini (Università di Firenze), apparso sul sito di Micromega.

 

Se davvero Bondi, come afferma, ha a cuore la cultura patria, non può rimanere un minuto di più in un governo che ha cominciato a calpestarla dal giorno dell’insediamento. Una riflessione sulla difesa e il destino del nostro patrimonio artistico e architettonico, sempre meno tutelato a vantaggio di una sua valorizzazione puramente monetaria.

Il gran chiasso suscitato dal crollo della Schola dei gladiatori a Pompei ha fatto scoprire a molti opinionisti, sedicenti intellettuali e politici militanti che in Italia esiste un patrimonio artistico e architettonico di grande valore, e che questo patrimonio è oramai allo sbando. Certo, la sua fragilità era finora stata evidenziata da eventi catastrofici, come il terremoto in Abruzzo; ma non dal degrado ordinario, da carenze strutturali, da una gestione scellerata.

Dire che questo patrimonio l’hanno scoperto tutti solo ora – ivi comprese le opposizioni parlamentari, che mai fino ad allora avevano suscitato clamore su questi temi – non è una figura retorica. Provate a rammentare una sola puntata di talk show televisivo dedicato alla condizione del patrimonio artistico; a parte una bella inchiesta di Riccardo Iacona, non si ricorda un Annozero (prima della puntata del 18 novembre), un Ballarò, un Infedele, un Porta a Porta seriamente dedicato ai beni culturali; né il ministro competente viene in tv per parlare di cultura, se non quando è tirato per la giacca come in questo caso (ci viene, ma di solito parla d’altro). Il massimo sforzo, in questi casi, è quello di chiedere una dichiarazione a Vittorio Sgarbi o Philippe Daverio.

Passato il clamore delle prime ore, e nell’attesa che il Parlamento si pronunci sulla sfiducia al Ministro Bondi, chiesta dalle opposizioni, conviene forse spendere qualche riflessione a freddo sulla difesa e il destino del nostro patrimonio artistico e architettonico, anche alla luce di quel che è successo dopo il cedimento delle coperture cementizie che un datato restauro aveva sovrapposto ai muri antichi dell’edificio pompeiano. Il danno, pur grave, non è una perdita irreparabile per la cultura nazionale. Ma è il sintomo – questo sì, da far tremare le vene ai polsi – della sorte cui sarà sempre più esposto questo patrimonio se non verrà fermato l’andazzo che da alcuni anni a questa parte segna l’(in)operosità del Ministero per i Beni e le Attualità Culturali, ovvero il progressivo smantellamento di una tutela esecrata come asfittica, passatista e mummificata a vantaggio di una valorizzazione che viene proposta come sinonimo stesso di innovazione, modernità e produzione di ricchezza. Pur limitato nel tempo e nello spazio, quanto accaduto può essere davvero il punto di non ritorno di una linea politica sciagurata che bada solo a esporre i beni culturali in vetrina, senza preoccuparsi dello stato di salute del suo contenuto. Ma se in vetrina c’è il senso storico della nostra vita – perché di questo si tratta – ed è il mondo intero a guardarci, forse sarebbe ora di preoccuparsi, almeno un poco.

Particolarmente orientativa al riguardo è stata la patetica difesa parlamentare del ministro Bondi, che di fatto ha imputato il crollo della Schola alle scarse attitudini manageriali dei soprintendenti, laddove era stato proprio lui a commissariare Pompei per valorizzare adeguatamente il sito (e laddove non si ricorda, nella storia dell’umanità, un solo edificio tenuto in piedi da un manager anziché da un architetto). Lo spregio verso ogni forma di responsabilità politica cela in realtà una profonda ignoranza della missione specifica di un ministero per la cultura, che è quella di conservare e mettere in valore il patrimonio culturale, nel senso più ampio del termine, perché solo attraverso la conoscenza si definisce la coscienza civile di una nazione.

Non per caso quel discorso ha provocato la ferma reazione dei soprintendenti archeologi, che il ministro ha bollato come “gravissima”, dimostrando per l’ennesima volta di non aver capito che senza una calibrata e consapevole azione di tutela non c’è valorizzazione che tenga, e il confine tra le due è talmente labile da risultare inconsistente. Un buon restauro, per esempio, al tempo stesso tutela e valorizza il bene ponendosi come obiettivo finale la sua conoscenza. Quel di cui avremmo davvero bisogno è di una moratoria della valorizzazione (almeno come viene correntemente intesa), perché di fatto sta distruggendo il nostro patrimonio culturale.

I diciassette soprintendenti archeologi firmatari di una lettera tanto lucida quanto impregnata di civile passione, dopo aver lamentato una riduzione delle risorse inadeguata anche a garantire una mera routine manutentiva (di Pompei come di tutti gli altri siti monumentali d’Italia, beninteso), e il ricorso al commissariamento straordinario (il più delle volte con soggetti estranei alla tutela, venuti dai ruoli delle prefetture o della Protezione Civile) come ultima carta di uno Stato che non sa più amministrare direttamente il suo patrimonio, chiedono che “la cultura dell’emergenza ceda il passo a quella della manutenzione, a cura delle strutture e degli staff tecnico-scientifici che quei monumenti, quei siti, quei musei conoscono e tutelano”. Perché “la valorizzazione come concetto mediatico non può sostituirsi al paziente e faticoso lavoro di monitoraggio, consolidamento e restauro, che per definizione è poco visibile e quindi poco mediatico” (lettera del 9 novembre pubblicata il 16, per esempio su www.patrimoniosos.it). Anziché ringraziare il cielo di avere ancora soprintendenti così, dopo aver fatto di tutto per umiliare il suo già sceltissimo personale tecnico, e ora sempre più stanco e demotivato (e ringraziare loro di aver ancora voglia di battersi per la storia e la bellezza), Bondi insiste che se le cose vanno male è tutta colpa loro. Perché sono archeologi e non manager.

Vien da commentare, senza uscire dall’archeologia classica, che non è vero che in Italia non si faccia più tutela. Una certa ilarità ha suscitato nei giorni scorsi la notizia che due statue del Museo delle Terme, in deposito temporaneo a Palazzo Chigi, erano state restaurate (alla modica cifra di settantamila euro) per volontà dello stesso Presidente del Consiglio, che a quanto pare non tollera la vista di corpi lacunosi e menomati, fossero anche marmi del secondo secolo dopo Cristo. Sicché il restauro è diventato un ripristino, con rifacimento totale della mano di Venere e del pene di Marte; ed è diventato pure – farsa nella tragedia – un copione per un irresistibile sketch di Luciana Littizzetto (domenica 21 novembre a Che tempo che fa).

La vicenda fa scompisciare, si è detto, ma fa soprattutto rabbia. Perché al solo scopo di compiacere la pancia degli ignoranti butta in vacca secoli di riflessioni dell’intelletto dei savi, e stronca in un sol colpo il primato mondiale italiano nel campo del restauro filologico. Quel che sarebbe inaccettabile nel restauro di qualsiasi altra statua – e non necessariamente così antica – ossia la fabbricazione di un falso, si è accettato senza scrupoli per assecondare i capricci del primo ministro più incolto degli ultimi centocinquant’anni (che vergogna nazionale, se sarà lui a tenere a battesimo l’anniversario dell’Unità): che oltretutto, non essendo il proprietario dell’opera, neppure aveva titolo per chiedere al restauratore di aggiungere o togliere alcunché. Tra l’altro l’integrazione è stata abilmente dissimulata, venendo meno a uno dei principi fondamentali di una corretta metodologia del restauro, e cioè quello della riconoscibilità dell’intervento.

A tanto, dunque, si è ridotta la tutela in Italia. Ai restauratori ora lo Stato chiede giustamente una formazione di eccellenza con laurea quinquennale. Servirà loro per assecondare manie di grandezza e smanie da arredatore di un parvenu della Brianza, e magari della sua corte dei miracoli. Questi, almeno, sono i restauri che dimostra di voler davvero fare il “Governo del fare”.

Le nozioni di bene e patrimonio culturale alludono alla ricchezza condivisa che nutre sensi, menti, anime e cuori ben prima dei portafogli, ed è questa ricchezza che la politica dovrebbe preservare e coltivare. Per questo trovo che l’espressione “bene culturale” sia pregna e nobile, tanto più che la sua storia è assai gloriosa. La prima volta che la si adopera in una convenzione internazionale, nel 1954, è in rapporto ai beni da proteggere in caso di conflitto armato, e già questa circostanza dovrebbe farci riflettere, come avrebbe detto Marc Bloch, dell’importanza della storia per la vita. Da noi già nel 1938 Giuseppe Bottai aveva scritto che quando una nazione entra in guerra, deve farlo anche con tutte le sue energie morali, e queste energie sono date anche dal suo patrimonio culturale. Un popolo che non sa difenderlo non può pensare di vincere una guerra, e in ogni caso rischia di non avere risorse reali per affrontare il dopoguerra. Un ministro fascista, ma di rimpianta grandezza. Che ha legato il suo nome a leggi di tutela (1089 e 1497 del 1939) invidiate da mezzo mondo, e oggi bestemmiate da una classe politico-imprenditoriale tanto arrogante quanto ignorante, e fondamentalmente irresponsabile.

D’altra parte il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare, e il don (Ab)Bondi dei nostri tristi giorni di questa classe è paradigma esemplare. Il paragone con Bottai è improponibile, ma rende l’idea. Neanche dopo essere stato umiliato dal suo collega Tremonti (“con la cultura non si mangia”, altro bel paradigma dello Zeitgeist italiota di oggi), ha avuto l’orgoglio di un soprassalto di dignità. Se davvero Bondi ha a cuore la cultura patria, non può rimanere un minuto di più in un governo che ha cominciato a calpestarla dal giorno dell’insediamento. E che, soprattutto, quando parla di cultura non sa di cosa parla.

Per capire Pompei e tutto il resto un eccellente punto di partenza è infatti Due anni di governo, una brochure disponibile in due versioni, una sintetica e una più ampia, sul sito web del Popolo della Libertà, e presumibilmente simile a quella che il premier aveva in animo di spedire per posta a tutti gli italiani, in versione cartacea, per magnificare gli innumerevoli successi del “governo del fare”. Bene: nella versione lunga (ottanta pagine), la cultura ne occupa una soltanto, nella sezione Le grandi riforme e sotto il titolo Italia, culla della cultura, in cui il risicato spazio è diviso tra arte, lirica, cinema, unità d’Italia e iniziative didattiche (altrove si magnifica la risoluzione della crisi dell’Aquila, ma non si fa ovviamente parola delle macerie che ancora giacciono nel suo centro storico). Probabilmente ci siamo perduti qualche epocale riforma nel campo dei beni culturali, ma non è questo il punto. Il punto è quel che si dichiara a fondamento dell’azione di governo.

“La cultura non è un semplice ornamento o una spesa, ma è l’investimento più importante che possiamo fare per il nostro futuro. Questo concetto è tanto più vero per un Paese come l’Italia, in cui la cultura non è uno fra i beni di cui disponiamo, ma la forma stessa della nostra identità nazionale, il nostro capitale più importante. In Italia si trovano il 72% dei beni artistici europei, il 50% dei beni artistici del mondo. Ci sono più di 100.000 chiese e monumenti, 40.000 case storiche, più di 1.000 teatri e 2.500 siti archeologici. Questo patrimonio deve essere valorizzato, per formare le giovani generazioni e per attrarre turisti da ogni parte del mondo”.

Certo, di seguito non si dice che si è fatto o si vuol fare per valorizzare l’accessibilità a questo patrimonio eccezionale, salvo migliorare l’accessibilità ai musei, ma trattasi di quisquilie. Monsieur de La Palice si sarebbe deliziato nel rilevare che tutto questo ben di Dio ovviamente preesisteva a Berlusconi, e quindi non può a rigor di logica rientrare in un novero di “cose fatte”. Ma neanche su questo merita insistere. Quel che angoscia è semmai che “l’investimento più importante che possiamo fare per il nostro futuro” stia a pagina 66 e sia argomentato da uscite non dico banali, ma addirittura imbarazzanti.

Come facciamo a sapere che l’Italia possiede il settantadue per cento dei beni artistici europei? Chi li ha contati (in Italia come nel resto del mondo)? E, soprattutto, come li ha contati? A testa (il Duomo di Milano vale come l’atto di un notaio di Pescasseroli del settecento)? A metri cubi? A metri quadri? A litri? A minuti? Chi pretende di quantificare in termini statistici il patrimonio culturale, così come chi pretende di monetizzarlo, è prima di ogni altra cosa un incompetente. E preoccupa che numeri del genere, sempre variati (ora il quaranta, ora il cinquanta, ora il sessanta per cento, e via computando), siano una specie di basso continuo del chiacchiericcio intorno ai beni culturali, perché denotano una dimestichezza assai scarsa con il patrimonio e i problemi del suo censimento e della sua salvaguardia. Due anni di governo è un prodotto di partito e non della Presidenza del Consiglio: è dunque un documento di propaganda che mira a riscuotere e corroborare consenso elettorale. Ma se la propaganda per definizione amplifica anziché ridimensionare, il Governo del fare ha fatto poco più del nulla. E la culla della cultura è davvero nelle mani di una banda di orchi.

I beni culturali non sono soltanto oggetti (tanto che si parla anche di beni immateriali, dalla musica ai racconti orali), né soltanto capolavori indiscussi, ma ogni traccia significativa che parli di noi attraverso il nostro passato. Il Bel Paese tanto vagheggiato da Berlusconi, Bondi & C. (ma in realtà sempre più brutto, anche grazie a loro) è in verità una stratigrafia di culture e identità sedimentatesi storicamente, che noi abbiamo il dovere morale di conoscere, conservare e trasmettere ai posteri per costruire un futuro migliore proprio facendo leva sulla forza, la complessità e la ricchezza di questa stratigrafia. I beni culturali sono già un valore, e siamo noi a venire valorizzati dal contatto con essi. Ma servono prima di tutto a farci crescere come persone e come nazione, e solo in seconda battuta a farci crescere il conto corrente. Per questo bisogna stare ben attenti quando si parla di valorizzazione. Di certo non è la produzione di una ricchezza monetizzabile, come la intende la stessa Direzione Generale per la Valorizzazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, che vanta come macroscopico successo del suo stare al mondo il solo aumento del numero dei visitatori dei Musei Statali.

Chiediamoci piuttosto cosa rimane nella testa di questi visitatori, e quanto crescano la loro cultura e la loro coscienza civile attraverso la visita di un museo, di una chiesa, di un parco archeologico. Si crede che musei e monumenti debbano essere gestiti con criteri manageriali per metterli a reddito, dimenticando che il primo e più fruttuoso ritorno, di sostanza e non di immagine, sta nella testa e nel cuore di chi impara a conoscerli e ad amarli. Che lo stesso Ministero italiano preposto alla cultura non faccia altro che insistere soltanto su questo tipo di valorizzazione conferma la sostanziale ignoranza dei suoi vertici intorno alla natura e al significato dei beni culturali, nonché un esiziale spregio per le normative vigenti (che vedono la messa in valore in stretto rapporto con la tutela). Rimuovendo dal suo orizzonte la tutela, ha rimosso in verità la conoscenza, per sostituirvi un precario e velleitario profitto. Non per caso avviene in parallelo una mortificazione delle professionalità intellettuali e tecniche – dagli storici ai restauratori – che dovrebbero costituire la spina dorsale di questa gigantesca attività di conoscenza (e rappresentare, con ben altra dignità e sostanza delle barzellette del premier, l’eccellenza italiana agli occhi del pianeta) e invece vengono messe sempre più all’angolo da campagne di stampa denigratorie, da un insufficiente reclutamento di nuove leve, e dalla preponderanza di figure, spesso e volentieri plenipotenziarie, che poco o nulla sanno di beni culturali (a cominciare da Mario Resca). Ecco quel che ribadisce l’accoglienza alla lettera dei soprintendenti archeologi.

Molto indicativa di questa tendenza era per esempio la presenza/assenza dei tecnici a Florens 2010, una kermesse sui beni culturali (ma soprattutto sul rapporto tra cultura, economia e impresa) svoltasi a Firenze, con grande solennità e immensa promozione, dal 12 al 20 novembre, e promossa da Confindustria, CNA, Intesa San Paolo e Cassa di Risparmio di Firenze (e già la testa dice molto sul resto del corpo). Cuore di una rassegna che allineava in serrata successione convegni, seminari, tavole rotonde, lectiones magistrales ed eventi d’ogni sorta, era un forum internazionale di cui la stampa non specializzata si è interessata soprattutto per un vivace botta e risposta tra Bondi e il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, ma che andrebbe segnalato per una significativa marginalizzazione dell’Università, anch’essa coinvolta in questo processo di svuotamento della tutela e della conoscenza che impoverisce in primis i luoghi deputati della ricerca e della riflessione critica. Sembra un ossimoro, ma non è così.

Non che l’Università a Florens non ci fosse. Anzi, era presente in forze su parecchi tavoli, malgrado non fosse stata coinvolta fin dall’inizio del processo organizzativo. Ma queste forze vedevano una netta prevalenza di economisti e scienziati, mentre gli “umanisti”, come storici, storici dell’arte, antropologi e archeologi, erano relegati in una posizione miseramente subalterna. E nel forum, cui si accedeva ad invito, l’Ateneo fiorentino stava letteralmente nell’angolo. Tanto che gli stessi storici dell’arte che vi insegnano non sono stati invitati neppure come semplici uditori, mentre hanno avuto (giustamente) spazio direttori di museo, funzionari tecnici del Mibac (pochi), restauratori e persino antiquari. In compenso c’era, in bell’evidenza, un pregiudicato come l’immancabile Sgarbi. Ma il contributo dell’Università dovrebbe essere fondamentale per restituire alla conoscenza (e alla tutela) del patrimonio culturale la centralità che dovrebbe spettarle. Immaginatevi un convegno sulla giustizia senza magistrati, una festa delle forze armate senza soldati, o un calcio in costume (siamo a Firenze) senza calcianti. Perché proprio questo è successo.

Dobbiamo pensare che i cervelli di Florens abbiano voluto escludere dai momenti forti dei dibattiti proprio buona parte di coloro che i beni culturali li toccano, li studiano e li insegnano tutti i giorni? E che, soprattutto, ancora pongono in primo piano il valore storico di quei beni, e per questo sono ritenuti d’intralcio alla marcia trionfale dell’aziendalismo subculturale? Spero vivamente di essere smentito dai fatti, perché è da oggi che bisognerà misurare la ricaduta di Florens. Ma intanto - e questo è un fatto - l’Università sta formando fior di giovani preparatissimi che dovrebbero diventare i tutori del patrimonio di domani. Peccato che il sistema valorizzativo stia proponendo a menti brillanti con dottorati e master di fare i custodi o poco più. Ovvero i camerieri al servizio dei turisti, attirati “da ogni parte del mondo”: visto che soltanto a costoro sembra pensare una politica ministeriale e governativa che non vuole più investire nella conoscenza. Ma lascia che il suo patrimonio sia investito da tutto. E cerca di investire chi, ancora, pensa.






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