Il Teatro Stabile di Bolzano compie sessant’anni. Una breve storia
La fondazione del Teatro Stabile di Bolzano[1] fu il prodotto di due progetti concepiti nel periodo della ricostruzione postbellica: da un lato colmare un vuoto culturale della città capoluogo, animata dalle recite delle filodrammatiche e da sporadiche apparizioni di compagnie di giro; dall'altro lato tutelare il gruppo etnico italiano nella provincia di Bolzano, una popolazione ancora fortemente eterogenea, scarsamente radicata, continuamente incrementata da movimenti migratori avviati dal regime fascista per italianizzare il territorio prima appartenente all'Austria. L'iniziativa non partì da richieste popolari, fu un'operazione condotta dal sindaco Lino Ziller che inviò domanda alla Direzione Generale del Teatro di Roma, per ottenere sostegno finanziario e riconoscimento ufficiale per la fondazione di un teatro stabile. Il Governo assecondò l'istanza, inserita all'interno di un piano per la tutela delle zone di confine.
Il progetto si concretizzò nell'autunno 1950, quando il Carrozzone di Fantasio Piccoli giunse in città per una serie di apprezzati spettacoli. Il giovane regista milanese accolse l'offerta di trasformare la propria compagnia itinerante in Teatro Stabile di Bolzano, e di assumere la direzione dell'Ente. L'atto di fondazione, firmato il 20 novembre 1950, sancì la nascita del secondo teatro stabile italiano a gestione pubblica, preceduto solo dal Piccolo Teatro di Milano avviato da Paolo Grassi e Giorgio Strehler nel maggio 1947. Il Carrozzone trovò a Bolzano un'adeguata sede per proseguire la ricerca iniziata nel 1947 sul cosiddetto teatro di poesia. Le regie antinaturalistiche di Piccoli si calavano in una cornice scenografica disadorna ed essenziale, si fondavano sulla stilizzazione gestuale dell'attore, al quale chiedeva una recitazione curata fino al puntiglio, per meglio esprimere la forza poetica del testo.
Nell'opuscolo Principi informatori del Teatro Stabile di Bolzano, pubblicato nel 1955, il regista riportò i criteri adottati per la scelta delle commedie da trasferire sulla scena:
1) Sono esclusi tutti i lavori che hanno un valore esclusivamente commerciale.
2) Si ricerca un repertorio estremamente vario, come è necessario ad un teatro che agisce nella maggior parte dell'anno in una zona definita e che pertanto ha l'obbligo di offrire al suo pubblico vari aspetti della produzione teatrale […].
4) Si scelgono naturalmente in maggior copia opere sia classiche che moderne del Teatro italiano. Infatti, oltre ad una funzione educatrice, il Teatro Stabile di Bolzano assolve anche una funzione di affermazione della cultura italiana.
L'adozione dello schema antologico, condiviso da tutti gli stabili nazionali di prima generazione, rispondeva all'obiettivo di aggiornamento culturale e all'attuazione di una politica di educazione al linguaggio dello spettacolo. In linea con le intenzioni programmatiche, Piccoli allestì nel corso delle sue sedici stagioni un repertorio assai eterogeneo. Tra i classici si annoverano La dodicesima notte di William Shakespeare (spettacolo inaugurale, 19 dicembre 1950), Miles gloriosus di Plauto, Medea di Euripide, La donna di mare di Henrik Ibsen (1954-55), La signora delle Camelie di Alexander Dumas figlio (1955-56), Il talismano (1950-51, fig.1), Gl'innamorati (1958-59) e Il ventaglio (1964-65) di Carlo Goldoni, Il berretto a sonagli di Luigi Pirandello. Tra i numerosi esempi di drammaturgia italiana spiccano Noi moriamo sotto la pioggia di Enzo Biagi, L'ora della fantasia di Anna Saccani (1951-52), Lo sciopero delle bombe (1955-56) e Binario cieco (1963-64) di Carlo Terron, Gli ipocriti di Silvio Giovaninetti (1960-61), Le mani sporche di Jean Paul Sartre (1962-63).
Spettacolo chiave per cogliere il metodo di lavoro di Piccoli è l'allestimento del goethiano Faust I nella traduzione di Vincenzo Errante (fig.2). Per la prima volta fu presentato in versione integrale. Le prove impegnarono gli attori per quattro mesi e mezzo, e gli spettatori rimasero incollati alla poltrona per cinque ore. Sul palcoscenico gli attori – Mario Mariani, Faust; Ugo Bologna, Mefistofele; Germana Monteverdi, Margherita –, privi di supporto scenografico, recitarono con cadenze e toni più lirici che prosaici, quasi volessero declamare una poesia piuttosto che un testo di prosa.
Piccoli si rivelò autentico talent scout. Quando arrivò a Bolzano con il Carrozzone annoverava nella compagnia i nomi di Valentina Fortunato, Romolo Valli, Aldo Ferri Trionfo e Adriana Asti. Nelle stagioni successive formò Franca Rame, Giulio Brogi e Maria Melato.
Il direttore e regista incontrò non poche difficoltà organizzative e gestionali, dovute in primo luogo alla mancanza di una sede fissa. L'unico vero edificio deputato alle arti sceniche, il Teatro Verdi, era stato bombardato nel 1943. Privi di un'adeguata sistemazione gli attori recitarono prevalentemente sui palcoscenici delle sale cinematografiche. Limitato anche dai contributi finanziari nel 1965 rassegnò le dimissioni. Sulla decisione pesarono anche motivi di carattere artistico, che dimostrarono l'usura del teatro di poesia in rapporto alle trasformazioni in atto nel contesto culturale e nel pubblico di Bolzano. Già nel 1960 aveva avvertito che
La mia fedeltà ad un repertorio di poesia, e di conseguenza l'affermazione spesso categorica della strada intrapresa, la mia insofferenza nei confronti di polemiche che mi apparivano sterili e inconsistenti non rendevano certo semplice la vita al mio Teatro[2].
Per rilanciare l'Ente aveva scritturato attori di grido, come Memo Benassi per Re Lear nel 1956, ma la sera della prova generale fu colpito da trombosi cerebrale (morì nel febbraio 1957), e fu sostituito da Annibale Ninchi. Nella stagione 1965-66 si avvalse di Nino Besozzi, al quale affidò il ruolo del protagonista in Mercadet l'affarista di Balzac e ne La casa del vedovo di Shaw.
La crisi vissuta dal teatro italiano alla fine degli anni Sessanta si rifletteva anche nella vita dello Stabile bolzanino. La stagione 1966-67 venne affidata alle competenze di Renzo Ricci. L'attore, affiancato da Eva Magni e da pochi superstiti, propose tra l'altro Viaggio di un lungo giorno verso la notte di Eugene O'Neill e il pirandelliano Enrico IV (fig.3). Se il repertorio di Ricci fu criticato perché ritenuto inadatto ad una compagnia di giro, quello di Renzo Giovampietro, in carica per la stagione 1967-68, non trovò consensi per la complessità dei testi classici, valutati non accessibili per una platea popolare. L'attore si cimentò con Processo per magia di Apuleio, Menaechmi plautini e Il governo di Verre di Cicerone (fig.4).
Dopo una stagione (1968-69) che poteva essere l'ultima, l'operazione del rilancio fu affidata a Maurizio Scaparro, già direttore dello Stabile di Bologna dal 1963 al 1966, poi regista alla guida della compagnia Teatro Indipendenti. “Libertà e rischio” furono i suoi principi ispiratori[3]. Scaparro concepiva il teatro come servizio pubblico, al quale competeva una precisa funzione pubblica e culturale, in grado di integrarsi con la comunità multietnica di questo difficile “territorio di frontiera”. Gli obiettivi miravano ad un allargamento della base del pubblico, inteso non solo come fruitore dello spettacolo ma anche quale forza attiva e coinvolta a condividere il ruolo del teatro come tribunale civile della società moderna. Le produzioni si diversificarono per genere, tema e ispirazione. Inoltre, a differenza dei suoi predecessori, il regista poteva contare sull'utilizzo di un piccolo teatro ricavato da una sala cinematografica e assunto come sede momentanea del Teatro Stabile in attesa di una sistemazione definitiva che arriverà solo trent'anni dopo. Nella prima stagione, intitolata “Dalla risata al ghigno”, figurarono Chicchignola di Ettore Petrolini con Mario Scaccia (fig.5), protagonista anche di Maria rossa di Michel de Ghelderode. Il cartellone della stagione successiva precisò meglio il percorso artistico. Scaparro, da un lato, approfondì il filone della nuova drammaturgia con le regie di Ultima analisi di Saul Bellow, in prima assoluta per il pubblico italiano, e della novità di Maurizio Costanzo Signora, ho il piacere di averla conosciuta, dall'altro lato, si occupò di teatro politico che raggiunse il suo apice con Giorni di lotta con Di Vittorio di Nicola Saporano (1971-72) e Stefano Pelloni detto il Passatore di Massimo Dursi (1973-74). Nel repertorio della compagnia bolzanina non mancarono i classici, dei quali il regista romano offrì interessanti e innovative letture sceniche. L'esempio più significativo è Amleto (1970-71, fig.6). Privo di supporti scenografici sontuosi, suppliti dalle pareti gelide di un ferro corroso dal tempo e ideate da Roberto Francia, il testo rivelò la sua assoluta modernità e sconcertante attualità, tanto che la critica definì l'allestimento “un Amleto giovane, per giovani”[4]. Scaparro, influenzato dal saggio di Jan Kott (Shakespeare nostro contemporaneo) e suggestionato dagli echi del Sessantotto, interpretò il personaggio del titolo come simbolo contestatario delle nuove generazioni. Affidò il ruolo ad un giovane emergente, Pino Micol, che declamò “il più celebre dei suoi monologhi seduto sull'orlo della ribalta, le gambe penzoloni, come rivolgendosi agli spettatori, nel tono pacato di chi esponga con distacco una situazione, ma non senza sussulti e fremiti improvvisi”[5]. Tra gli altri classici del repertorio meritano citazione Il padre di August Strindberg (1970-71), La Lena di Ludovico Ariosto (1971-72) con Laura Adani protagonista, Peccato che sia una sgualdrina di John Ford con Micol e Patrizia Milani, giovane attrice che scriverà pagine fondamentali per la storia del Teatro Stabile.
Mettendo a frutto le proprie doti manageriali e organizzative, Scaparro conseguì l'obiettivo dell'allargamento quantitativo del pubblico e restituì alla compagnia credibilità e visibilità nel panorama nazionale. Tuttavia, nonostante i successi, la situazione giuridico-amministrativa rimaneva incerta e vacillante, condizionata anche dalle sempre più frequenti ingerenze politiche, che diventavano inconciliabili con i progetti del direttore. Perciò nel 1975 Scaparro decise di dimettersi.
Fu sostituito da Alessandro Fersen, regista autore e docente di origine polacca dedito al teatro di ricerca di matrice laboratoriale, che aveva avviato nello Studio di Arti Sceniche da lui stesso fondato a Roma nel 1957. Obiettivo primario del nuovo direttore artistico fu raggiungere equilibrio fra percorsi sperimentali, attività didattiche e scelte del repertorio in una prospettiva di fruizione allargata. Si aprì un ciclo di stagioni innovative, coronate da spettacoli di grande suggestione, a partire dall'inaugurale Leviathan al successivo Fuenteovejuna di Lope de Vega con le scenografie di Emanuele Luzzati (fig.7) e La fantesca di Giovan Battista Della Porta (1976-77, fig.8), applaudita anche in Austria. Il regista sottopose il testo ad un'attenta revisione drammaturgia, sfrondò molti dialoghi, eliminò personaggi superflui, innestò battute e moduli verbali presi da altri autori rinascimentali. L'operazione filologica mise in primo piano il gioco delle oscenità e delle allusioni a doppio senso in una dimensione propria del linguaggio della Commedia dell'Arte. Analogo minuzioso lavoro d'intarsio di materiali testuali ricavati da Musset, Brentano, Heine e Tieck caratterizzarono Leonce e Lena di Georg Büchner (1977-78), affidato ad Antonio Salines e Carola Stagnaro. Attingere dal serbatoio tedesco significava assolvere la funzione culturale propria di un “teatro di frontiera”, che Fersen assecondò con un certo impegno nella programmazione, pur vivendo una sorta di contrasto con le sue idee di “teatro totale”. Commissionò, inoltre, ad Antonio Taglioni la regia di Elektra di Hugo von Hofmannsthal con Piera Degli Esposti protagonista (1978-79, fig.9). Con la messinscena de L'adulatore di Carlo Goldoni (regia di Augusto Zucchi) terminò la controversa esperienza di Alessandro Fersen, al quale la presidenza dello Stabile aveva revocato l'incarico di direttore e mantenuto il ruolo di regista fino al 1978. Intanto la crisi amministrativa si complicava ulteriormente. La Südtiroler Volkspartei (SVP), il partito di raccolta della popolazione di lingua tedesca, e alcuni partiti italiani, si opposero alla partecipazione della Provincia Autonoma di Bolzano alla fondazione di un consorzio per la gestione dello Stabile. Una delibera comunale sancì la cessazione delle attività entro giugno del 1980. In questo clima di roventi polemiche, con lo spettro della chiusura, si volse la stagione 1979-80. Due furono le produzioni realizzate: Il principe di Homburg di Heinrich von Kleist, per la regia di Antonio Taglioni e l'interpretazione di Emilio Bonucci, Ivo Garrani e Paola Mannoni, e il goldoniano Teatro comico diretto da Zucchi.
Mentre pubblico e circoli culturali si attivavano per raccogliere firme per la sopravvivenza del teatro, lo Stabile conosceva la gestione commissariale cui compete la liquidazione dell'ente, ma il commissario incaricato, Carlo Corazzola, divenne propulsore del rilancio. Come prima mossa nominò direttore artistico il giovane Marco Bernardi, originario di Trento, cresciuto artisticamente come assistente alla regia di Scaparro durante il periodo di servizio presso lo Stabile. Bernardi, pur contando su esigue risorse finanziarie, avviò il faticoso riordino organizzativo e manageriale, mediante una programmazione culturale di alto livello, attenta alla valorizzazione delle forze creative attive nel territorio e al messaggio pedagogico del linguaggio teatrale.
Le direttrici guida emersero nella prima stagione (1980-81). Dedicato al tema dell'amore, il cartellone comprese Romeo e Giulietta, per la regia dello stesso Bernardi, Aldo Reggiani e Maria Teresa Martino nelle parti del titolo (fig.10), e due esempi di drammaturgia tedesca, Girotondo di Arthur Schnitzler (regia di Bogdan Jerkovic) e Lenz da Georg Büchner. Le successive produzioni seguirono lo schema della compresenza di classico e contemporaneo. Con Coltelli di John Cassavetes (1981-82) in prima europea, il regista avviò l'incontro con il linguaggio cinematografico, che proseguì con l'allestimento di altre novità assolute, Provaci ancora, Sam di Woody Allen (1982-83) e Qualcuno volò sul nido del cuculo di Dale Wassermann. A questi testi contemporanei si affiancò la trilogia shakesperiana, completata da Pene d'amor perdute (1982-83) e Sogno di una notte di mezza estate (1983-84). La compagnia si era stabilizzata ed era formata da un gruppo di attori di sicuro affidamento, tra i quali Carola Stagnaro, Gianni Galavotti, Antonio Salines, Tino Schirinzi. Il ciclo successivo si incentrò sul tema dell'attore. In linea con la funzione propria di un “teatro di frontiera”, Bernardi scelse Minetti. Ritratto di un artista da vecchio dell'austriaco Thomas Bernhard (1983-84), autore quasi sconosciuto in Italia. Il monologo diventò una superba prova di Galavotti (fig.11), mentre ne Il teatrante (1985-86) si distinse Tino Schirinzi, che nella stagione successiva firmò la sua prima regia con La favola del figlio cambiato di Pirandello.
Sul cadere degli anni Ottanta Bernardi affrontò momenti storici cruciali, come la rivoluzione francese del 1789 e gli Anni di piombo. La stagione 1987-88 si aprì con i goldoniani Due gemelli veneziani affidati a Galavotti e Giustino Durano, quella successiva con Il barbiere di Siviglia di Beaumarchais, che si caratterizzò per le scene minimaliste e di un celeste a sfumature iperrealistiche ideate dal debuttante Gisbert Jaeckel, scenografo tedesco rimasto fino ad oggi fedele collaboratore, come Roberto Banci, l'ideatore dei costumi. Inoltre, tra gli interpreti, si legge il nome di Patrizia Milani (Rosina), che legherà la sua carriera alla compagnia bolzanina. L'esplorazione del secolo dei Lumi si completò con Ca de' Bezzi di Roberto Cavosi, giovane drammaturgo meranese che muoveva i primi passi prossimo a guadagnarsi una posizione di rilievo nel panorama nazionale, e con Le smanie della rivoluzione di Siro Ferrone, in cui Gianrico Tedeschi interpretò Goldoni negli ultimi momenti della sua vita a Parigi. Con Anni di piombo di Margareth von Trotta nell'adattamento di Hannalene Limpach, Bernardi ritornò al confronto con il linguaggio cinematografico per allestire un testo inedito per l'Italia dedicato al terrorismo nella Germania degli anni Settanta.
A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta maturarono i presupposti per l'elaborazione di nuovi progetti culturali e per l'apertura a traiettorie drammaturgiche non ancora esplorate. Incisero nelle scelte le caratteristiche degli attori principali. La presenza di Gianrico Tedeschi, oltre ad essere un ulteriore contributo al consolidamento artistico della compagnia, spostò il regista verso il teatro borghese. Le rappresentazioni de La rigenerazione di Italo Svevo (1989-90) e Il maggiore Barbara di Georg Bernard Shaw (1992-93) dimostrarono anche la crescita artistica di Patrizia Milani, che si rivelò in Libertà a Brema di Rainer Werner Fassbinder (1991-92) e successivamente in Hedda Gabler di Henrik Ibsen (1994-95).
In occasione del bicentenario goldoniano il regista allestì La locandiera e affidò all'attrice la parte di Mirandolina (fig.12). La prova le permise di aggiudicarsi tre importanti premi (Veretium, Fondi-La Pastora, Premio della Critica Teatrale Italiana), e lo spettacolo conobbe quattro riprese. Il cavaliere di Ripafratta spettò a Carlo Simoni, al suo debutto con lo Stabile di Bolzano, per poi avviare un percorso di collaborazione tutt'ora in corso.
Esaurito il ciclo settecentesco, furono realizzati due progetti articolati, dedicati al tragico e al comico, attraverso i quali convergere le linee guida di un ente a funzione pubblica in una terra di frontiera. Indicativo in merito fu il “Progetto Medea”, promosso in collaborazione con altre istituzioni e soggetti culturali della regione che produssero spettacoli musicali, di danza, prosa, mostre e conferenze. Lo Stabile realizzò due progetti: Medea di Euripide che Bernardi rilesse in chiave moderna, trasformando l'antica Corinto in simbolo delle migrazioni ed emarginazioni d'oggi. Giasone (Carlo Simoni) e Medea (Patrizia Milani) vestono abiti neri contemporanei. Gli stessi attori, ancora diretti dallo stesso regista, si confrontaro Piazza della Vittoria, novità di Roberto Cavosi, che rielaborò l'archetipo greco ambientando la vicenda nel 1928, quando Bolzano diventò simbolo della colonizzazione avviata dal regime fascista.
Lo spettacolo più importante concepito per il progetto rivolto all'analisi del comico in senso filologico e storico fu Sarto per signora di George Feydeau (1997-98). Con Coppia aperta, quasi spalancata di Dario Fo e Franca Rame e L'Arialda di Giovanni Testori, si aprì l'esplorazione del genere comico e tragico nell'ambito del teatro italiano contemporaneo, mettendo a confronto due autori lombardi, attenti osservatori della realtà pur con esiti diversi – la visione politica del primo, il misticismo visionario del secondo. Principali interpreti furono ancora Milani e Simoni.
La stagione 1999-2000 si aprì con una novità, destinata a segnare la storia. Dopo anni vissuti senza sede fissa, recitando in sale cinematografiche e in teatri improvvisati, Lo Stabile disponeva di un vero spazio deputato all'esercizio delle arti sceniche. Il 9.9.1999 si inaugurò il Teatro Comunale progettato da Marco Zanuso. L'utilizzo di due sale – quella grande capiente di 800 posti equamente distribuiti tra platea e balconata, e il Teatro Studio in grado di contenere 240 spettatori –, comportò un cambiamento nella direzione gestionale e nella programmazione.
I riflessi di questa nuova dimensione si colsero nella varietà delle produzioni. La stagione si aprì con la messinscena di un classico, Le allegre comari di Windsor di Shakespeare, che Bernardi ambientò nell'Italia degli anni Cinquanta e affidò la parte del malinconico Falstaff ad Antonio Salines. L'altra direttrice fu la consolidata promozione di artisti emergenti e di novità drammaturgiche, come dimostrò Lezioni di volo di Pierpaolo Palladino ispirato al Risveglio di primavera di Franz Wedekind, interpretato da giovani attori e allestito da Corrado D'Elia. Per festeggiare i cinquant'anni di attività fu scelto il cechoviano Giardino dei ciliegi con Milani, Simoni e Gianfranco Mauri, cui seguì 2 fratelli, novità dell'enfant prodige Fausto Paravidino, che Bernardi valorizzò inserendolo nelle programmazioni successive (Gabriele, 2002-03; Natura morta in un fosso, 2002-03; La malattia della famiglia M , 2009-10).
Vicino alla messinscena di scrittori classici e autori contemporanei, continuò la promozione della “drammaturgia del territorio”. Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis di Pino Lo Perfido, fu l'ultimo testo vincitore del concorso Bolzano Teatro (2001-02), bandito nel 1993 e riservato a opere dedicate alla storia locale o ad argomenti legati al tema del “confine”. Seguirono, tra gli altri, Da qui a là ci vuole 30 giorni…di e con Andrea Castelli e Antonio Caldonazzi, che tratta l'emigrazione trentina verso l'America Latina, il monologo Sinigo. L'acqua ci correva dietro, racconto della nascita dello stabilimento Montecatini alle porte di Merano in età fascista, Acciaierie, attenta ricostruzione della storia della zona industriale di Bolzano seguendo le vicende dell'omonima fabbrica a partire dagli anni del regime. Questi spettacoli furono inseriti negli “Altri Percorsi”, un cartellone indirizzato alla nuova drammaturgia e ai linguaggi della ricerca contemporanea. Questo progetto, tuttora attivo, fa parte delle proposte finalizzate alla formazione di una platea composta anche da giovani spettatori, per i quali lo Stabile sostiene da diversi anni una serie di importanti iniziative, quali il corso di teatro “Giovani in scena” e “La bottega del teatro”, formazione professionale per i tecnici del palcoscenico. Ed è ormai radicata la rassegna “Teatro nella Scuola”, che propone spettacoli tarati sui diversi livelli scolastici degli alunni dei centri urbani dell'Alto Adige.
Per quanto riguarda gli spettacoli curati da Bernardi nel nuovo Teatro Comunale, il criterio di scelta dei testi si mantenne in linea con il “teatro di parola” nelle sue varie diramazioni drammaturgiche. Il regista continuò l'approfondimento di linguaggi e di autori già affrontati. Così nella stagione 2001-02 ritornò al cinema con l'edizione teatrale di Una giornata particolare di Ettore Scola, in quella successiva ripropose Thomas Bernhard de La brigata dei cacciatori con Paolo Bonacelli per la prima volta con la compagnia bolzanina, nel 2003-04 pescò dal repertorio di Feydeau La pulce nell'orecchio, ancora con Bonacelli affiancato da Milani e Simoni. La passione per Goldoni ritornò nel 2004-05 con La vedova scaltra e con Il teatro comico (2007-08). Il recupero di Skakespeare produsse Enrico IV (2005-06), mentre la drammaturgia scandinava coincise con Danza di morte di August Strindberg (2006-07) e quella russa con Il gabbiano di Cechov (2008-09) con Maurizio Donadoni, che si rivelò abile drammaturgo con la commedia Precarie età (2009-10) per la regia di Cristina Pezzoli e l'interpretazione di Maria Paiato e Patrizia Milani. Il nome di Shaw ritornò con La professione della signora Warren della precedente stagione.
Infine le produzioni decise per festeggiare i sessant'anni di vita del Teatro Stabile ricalcano lo schema collaudato, che prevede un classico, Il malato immaginario di Molière (regia di Bernardi, con Bonacelli, Milani e Simoni, fig.13) e due novità, Avevo un bel pallone rosso di Angela Demattè (Premio Riccione per il Teatro 2009, regia di Carmelo Rifici) e Sogno d'amore di Giampiero Rappa.
[1] Tra i contributi dedicati alla storia del Teatro Stabile di Bolzano si segnalano: M. Bertoldi, Le idee, gli allestimenti e le persone di quarant'anni di lavoro teatrale, in Teatro Stabile di Bolzano. 1950-1990, “Quaderni di Hystrio”, supplemento al n. 4, ottobre-dicembre 1990, pp. 9-20; R. Petrolli, Storia di un teatro. Lo Stabile di Bolzano 1950-1993, Bolzano, Centro di Cultura dellAlto Adige, 1993; i saggi di U. Ronfani, P. E. Poesio, M. Bertoldi, U. Gandini (u.g.), G. Faustini, raccolti nel volume Teatro Stabile di Bolzano. 1950-2000. Cinquant'anni di cultura e di spettacoli, Cinisello Balsamo (Mi), Silvana Editoriale, 2000; C. Merli, Il Teatro Stabile di Bolzano, in Il teatro ad iniziativa pubblica, Milano, Led, 2007, pp. 327-377.
[2] F. Piccoli, Vita di un teatro I, in “Il Cristallo – Rivista di varia umanità”, n. 2, novembre 1960, p. 31.
[3] Vedi M. Scaparro, Libertà e rischio: una garanzia per il teatro a gestione pubblica, in “Il Cristallo – Rivista di varia umanità”, n. 1, aprile 1970, p. 18
[4] Vedi M. C. Cavecchi, Il viaggio shakespeariano di Scaparro tra teatro e politica, in AA. VV., Maurizio Scaparro e il suo tempo, a cura di F. Mazzocchi, Roma, Bulzoni, 2000, p. 85.
[5] A. Savioli, “l'Unità”, 18 marzo 1973.
Fig.1 - "Il talismano" di Carlo Goldoni, regia di Fantasio Piccoli (1950-51)
Fig.10 - "Romeo e Giulietta" di William Shakespeare, regia di Marco Bernardi (1980-81) - nella foto Aldo Reggiani e Maria Teresa Martino
Fig.11 - "Minetti. Ritratto di un artista da vecchio" di Thomas Bernhard, regia di Marco Bernardi (1983-84) - nella foto Gabriella Lai e Gianni Galavotti
Fig.12 - "La locandiera" di Carlo Goldoni, regia di Marco Bernardi (1993-94) - nella foto Patrizia Milani e Carlo Simoni
Fig.13 - "Il malato immaginario" di Molière, regia di Marco Bernardi (2010-2011) - nella foto Paolo Bonacelli
Fig.2 - "Faust I" di Johann Wolfgang Goethe, regia di Fantasio Piccoli (1953-54) - nella foto Ugo Bologna e Mario Mariani
Fig.3 - "Enrico IV" di Luigi Pirandello, regia di Renzo Ricci (1966-67) - nella foto Renzo Ricci
Fig.4 - "Il governo di Verre" di Cicerone, regia di Renzo Giovampietro (1966-67) - nella foto Renzo Giovampietro
Fig.5 - "Chicchignola" di Ettore Petrolini, regia di Maurizio Scaparro (1969-70) - nella foto Mario Scaccia
Fig.6 - "Amleto" di william Shakespare, regia di Maurizio Scaparro (1972-73) - nella foto Pino Micol
Fig.7 - "Fuenteovejuna" di Lope de Vega, regia di Alessandro Fersen (1975-76)
Fig.8 - "La fantesca" di Giovan Battista Della Porta, regia di Alessandro Fersen (1976-77) - nella foto Giancarlo Zanetti e Carola Stagnaro
Fig.9 - "Elektra" di Hugo von Hofmannsthal, regia di Antonio Taglioni (1978-79) - nella foto Piera Degli Esposti