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Leonardo Spinelli

Il principe in fuga e la principessa straniera. Vita e teatro alla corte di Ferdinando de’ Medici e Violante di Baviera (1675-1731)

Data di pubblicazione su web 29/09/2010
Sebastiano Ricci, "Ercole al bivio" (Firenze, Palazzo Marucelli Fenzi, Salone d'Ercole, particolare)

Pubblichiamo un estratto (pp. 136-149) dal volume di Leonardo Spinelli, Il principe in fuga e la principessa straniera. Vita e teatro alla corte di Ferdinando de’ Medici e Violante di Baviera (1675-1731), Firenze, Le Lettere, 2010. 

Le accademie femminili di Violante

Nel 1696, per la prima ed ultima volta nella loro storia coniugale, i due principi trascorsero il carnevale in città diverse. Da Pisa, dove aveva festeggiato il compleanno della moglie partecipando con lei al Gioco del Ponte, Ferdinando, attratto ancora una volta dalle occasioni lagunari, il 26 gennaio prese «in incognito» la strada di Venezia.[1]

A fronte della ricchezza di testimonianze del viaggio del 1688, in questa occasione colpisce la reticenza delle cronache, avare di dettagli nonostante i quasi cinquanta giorni trascorsi dal principe in laguna:[2] persino il residente toscano Matteo del Teglia, generalmente prodigo di notizie sulla vita teatrale veneta, sembrò disinteressarsi della presenza del Medici agli spettacoli dei cinque stabili aperti in quella stagione.[3] Quel silenzio era però perfettamente in linea con le intenzioni dell’illustre viaggiatore che, appena giunto in città, aveva comunicato al senato della Repubblica di non volersi avvalere di alcun comitato di nobili locali, come invece era avvenuto nel 1688, con il fine di godere una «piena libertà» d’azione.[4] Notizie più particolareggiate provengono invece dalle lettere con cui Luca Casimiro degli Albizi e Giovan Vincenzo Torrigiani tennero informato il cardinale Francesco Maria delle novità di quel carnevale. I due nobiluomini ragguagliavano il porporato sulle virtuose in azione sui palcoscenici cittadini e soprattutto sui nuovi allestimenti, in particolare di quello del Sant’Angelo «che non richiede macchine né comparse».[5] Quella del teatro di proprietà delle nobili famiglie Marcello e Capello fu però l’unica rappresentazione degna di nota tanto che anche Ferdinando si lamentò di non trovare «Venezia come l’altra volta, essendo diminuito il fasto delle maschere, l’opere cattive et il giuoco scarsissimo»:[6] nonostante ciò, al momento della partenza, ai nobili giunti a salutarlo manifestò l’intenzione di tornare nuovamente l’anno successivo. La promessa era tuttavia destinata a restare incompiuta perché, come abbiamo già detto, la sifilide, contratta durante quel soggiorno dal rapporto con una nobildonna bolognese, alterò irrimediabilmente i suoi piani e i suoi progetti futuri.

Nei giorni di distacco dal marito Violante non rinunciò alla consueta villeggiatura livornese e proprio in quest’occasione emergono le prime tracce sulla spettacolarità accademica da lei patrocinata. L’assenza di Ferdinando l’aveva rilanciata al centro delle attenzioni civili di un’intera città che parve quasi volersi stringere attorno alla sua principessa rendendola la vera protagonista del ricco patrimonio dei divertimenti tradizionali: dal gioco del calcio al palio dei cavalli, dalle gite marine ai «superbissimi rinfreschi» nei palazzi locali.[7] Se al teatro di San Sebastiano andarono regolarmente in scena le due opere in musica promosse dagli accademici Avvalorati, l’evento straordinario del carnevale fu però la rappresentazione all’interno del capiente magazzino sottostante casa del cavaliere dell’Ordine di Santo Stefano, Giovanni Federigo Tidi, di una commedia in musica allestita dalle principali dame livornesi. Si trattava de Il figlio delle Selve di Carlo Sigismondo Capece, già allestito a Firenze dalla conversazione del Centauro durante i festeggiamenti nuziali del 1689.[8] La scelta del melodramma aveva un forte valore di autoreferenzialità cittadina perché la partitura delle arie portava la firma del canonico e provicario di Livorno Cosimo Bani, conosciuto in città anche come accademico Infecondo.[9] L’humus comune su cui si impiantava l’evento era contrassegnato anche dalla forte devozione cattolica dei suoi protagonisti: all’intensa attività di catechesi, promossa in quegli anni dal Bani, cooperaravano in prima persona anche tutte le dame promotrici dello spettacolo che per la prestigiosa occasione si riunirono in un’associazione denominata del Cimento.

Non è conosciuto l’atto costitutivo del sodalizio, ma il fortunato reperimento di un disegno inserito nel libretto dell’opera allestita in quel 1696 mostra una crisalide (appena fuoriuscita dal bozzolo disposto su rami di gelso) all’interno di una cornice arricchita da girali e figure antropomorfe, che poggia su una veduta dal mare di Livorno. La fedeltà dell’accademia alla casa sovrana è quindi confermata dallo stendardo con la parola Fides, lo stesso motto che sventola sullo stemma della città, e dalla croce cristiana apposta sulla torre del Marzocco visibile sullo sfondo. Nella parte alta si dipana il motto dell’impresa: «In gran periglio industrioso scampo».[10] L’emblema era spiegato in una lettera a Violante del 27 aprile 1695 in cui le socie del Cimento paragonavano la vita dell’accademia a quella della crisalide che «inviluppatasi tra le fila di volontario carcere [il bozzolo], sarebbe incautamente restata estinta nel proprio lavorio, se una benefica assistenza [quella della principessa] non avesse cooperato al suo Scampo per sortir felicemente dalla serica Tomba, e tutta giubilo svolazzare ne i sentieri dell’Aria».[11]

Il carattere esclusivo della rappresentazione del 1696, a cui l’illustre protettrice partecipò da un palchetto provvisorio eretto nel mezzo della sala, è confermato dall’accesso riservato ad un nobile e ristretto uditorio, in tutto un centinaio di persone: «onde pochi altri che i forestieri vi furono ammessi, et anco questi non tutti, poiché la Serenissima che fece lei la lista, non vi volse un certo marchese Pallavicino parmigiano, né il cavalier Gamberini lucchese, dicendo, non sapere che questi vi siano, non essendo stati a riverirla».[12] La composizione esclusivamente femminile del cast si ispirava alle commedie private che già dal 1689 venivano recitate all’interno delle stanze di Pratolino, di Pitti e dell’Imperiale e di cui parleremo più dettagliatamente nel prossimo paragrafo.[13] Con la sola eccezione di Benedetta Ferini, virtuosa protetta dalla nobildonna Margherita Sacchetti Upezzinghi, interpreti dei personaggi sia maschili che femminili dell’opera furono infatti le stesse accademiche: Laura Tidi (Elmira), Elisabetta Tidi Sproni (Teramene), Livia Frugoni Quaratesi (Arsinda), Elisabetta Baffieric Farinola (Ferindo), Antonia Grunemberg de Silva (Lindoro). La lista completa delle attrici permette quindi di affermare con sicurezza la loro appartenenza alle medesime famiglie i cui esponenti maschili gestivano gli spettacoli operistici nel teatro di San Sebastiano per conto di Ferdinando de’ Medici.[14]

Secondo una testimonianza del marchese Filippo Corsini, la rappresentazione, andata in scena gli ultimi giorni di febbraio, «riuscì benissimo» e non furono organizzate repliche solo perché alcune delle protagoniste si trovavano in uno stato di gravidanza avanzata. La lettera del nobiluomo fiorentino è inoltre ricca di indicazioni sulla accuratezza dei costumi di scena e sulle ottime competenze attoriche e vocali delle dame livornesi:

 

La consola [Antonia Grunemberg de Silva] vi ha poca parte e canta a aria ma benino, e da uomo fa miglior comparsa di tutte. Alla Quaratese si dà il primo luogo nell’azione, che invero è meravigliosa e pare scolare di Siface, anch’essa è vestita benissimo da uomo all’eroica, e ne ha affatto la vita e il portamento. La fanciulla dell’Upezzinga, che fa da vecchia, ha una voce assai buona e fa bene. La Sprona ha la miglior voce di tutte e il miglior viso, ma, per esser gravida di sei mesi, non comparisce quanto dovrebbe. La Farinola, anch’ella d’otto mesi, fa quello che può e canta con franchezza. La fanciulla Tidi in musica è la maestra, ma la voce e la faccia non l’aiutano, fa però molto bene la parte sua. Onde riesce una bella festa, et è ricresciuta a tutti l’aspettazione, e se non fussi per l’incommodo di quelle signore, che veramente si vede che patiscono, crederei che la Serenissima gliela facessi rifare un’altra volta.[15]

 

Sebbene quella del 1696 sia l’unica traccia di messinscene femminili a Livorno, quella sola rappresentazione fu più che sufficiente a sancire la coesione tra le accademiche e la loro protettrice: altri documenti archivistici posteriori al 1696 accertano infatti i ricorrenti interventi delle dame nei balletti finanziati da Violante ogni carnevale presso il palazzo mediceo della città.[16] Durante gli altri periodi dell’anno le sodali, in mancanza di un luogo prestabilito, presero quindi l’abitudine di ospitare a turno le loro adunanze all’interno delle proprie case[17] e ben presto il loro valore venne riconosciuto anche dalle associazioni maschili che spesso invitarono le concittadine alle loro attività: nel luglio 1701, con le corti di Ferdinando e Violante a Firenze pronte a trasferirsi dalla villa dell’Imperiale a quella di Pratolino, la riunione degli accademici Affidati[18] vide tra i promotori i cavalieri Beniamino Sproni, Giovanni Federigo Tidi, Clemente Cosci e tra gli spettatori le aristocratiche signore del Cimento chiamate a raccolta, tramite un sistema di staffieri e biglietti a stampa, da quella che può essere considerata la loro principale referente, la nobildonna pisana Margherita Upezzinghi Tidi.[19] I dati in possesso permettono quindi di individuare con esattezza il doppio registro ricoperto a Livorno dall’associazionismo accademico: sia come vincolo sociale tra cittadini, sia come prezioso strumento culturale di relazione nei rapporti con la casa sovrana. Che poi l’attività caratterizzante dei sodalizi, specialmente durante il carnevale, fosse di natura teatrale era un fatto strettamente connaturato ai gusti dei protettori. Proprio per questi motivi la dinamica civiltà livornese mette in mostra una solida e laboriosa società dello spettacolo. 

Anche Siena riproduce quella suddivisione tra società maschile e femminile che corrisponde a due diverse modalità di soddisfare a un medesimo bisogno relazionale. Nel 1654 in casa del nobile Giulio Gori Pannilini nacque l’accademia delle Assicurate. Posto sotto la protezione della granduchessa Vittoria della Rovere, dalla cui arma gentilizia prese il corpo dell’impresa col motto «Qui ne difende, e qui ne illustra l’ombra», il sodalizio era composto originariamente da sedici donne, ciascuna dotata di un soprannome simbolico; l’organigramma rispettava la struttura delle più diffuse associazioni maschili: le Assicurate eleggevano infatti ciclicamente una principessa, due consigliere e una segretaria.[20] Come a Livorno anche a Siena le accademiche appartenevano alle principali famiglie cittadine, essendo per lo più mogli o sorelle dei soci Intronati e Rozzi: tra le iscritte possiamo infatti annoverare la continuativa presenza delle dame di casa Biringucci, Mignanelli, Tolomei, Marzi, Marescotti.

Definite dall’erudito locale Girolamo Gigli come «le gentildonne più spiritose, e amanti delle Lettere» della città, le Assicurate furono apprezzate soprattutto per i ‘giochi di spirito’che, esemplati sulla pratica ludico-veglistica del Cinque e Seicento,[21] «consistevano in dialogizzare all’improvviso intorno a qualche soggetto amoroso morale coi gentiluomini più pronti e più eruditi dandosi luogo alla facezia più rispettosa e alla satira più gentile».[22] La tematica sentimentale apparteneva di diritto alla tradizione delle brigate festaiole senesi: già Scipione Bargagli nel suo Delle Lodi delle Accademie del 1569 aveva additato, infatti, la presenza di colte signore ispiratrici come essenziale per la fortuna delle accademie.[23] Ma rispetto al Cinquecento le dame non erano più soltanto spettatrici e destinatarie privilegiate bensì parte attiva dell’intrattenimento divenuto ormai pubblico: tra i ‘giochi’, praticati regolarmente dalle Assicurate le ultime sere di ogni carnevale, uno dei più celebri fu il Seminario per l’educazione degli Umani affetti dissoluti, realizzato in data incerta con il contributo degli Intronati.[24]

L’elogio delle virtù muliebri era un tratto distintivo anche delle feste carnevalesche degli scolari del Pubblico Studio quando gruppi di studenti si confrontavano tra loro in quelle che erano definite ‘disfide amorose’.[25] La contesa iniziava quando, previa pubblicazione a stampa, una squadra indirizzava alla rivale prescelta una massima sulla quale si accendeva il confronto a colpi di improvvisazioni e di citazioni erudite, specialmente versi poetici del Petrarca e dell’Ariosto.[26] La presentazione di un quesito pratico era quindi spesso un pretesto per misurarsi sul piano etico, speculativo e filosofico: fino al primo ventennio del Settecento gli argomenti di duello più ricorrenti furono infatti sulle regole del corteggiamento, sulla conservazione dell’affetto della donna amata, sull’atteggiamento da tenere quando non si contraccambiati negli affetti, sul tema della fedeltà, sull’utilità della conversazione femminile.[27] Nel fondo Finetti dell’Archivio di Stato di Siena esiste una dedica alle dame Assicurate composta da un sodalizio anonimo:[28] nella Supplica della Repubblica Amante alle bellissime e virtuose accademiche Assicurate, edito a Siena nel 1683, le sodali, contrapposte ai vizi umani dell’avarizia, dell’invidia, dell’ozio, della gelosia e delle mode pellegrine, erano lodate come modello di virtù e indicate come esempio di coraggio, di concordia e di onore.

La tanto decantata condotta morale fu messa a dura prova dalle tentazioni della vanità e della vita mondana un decennio più tardi quando, con la morte nel 1694 della protettrice Vittoria della Rovere, le Assicurate vissero un periodo di smarrimento che le portò anche trascurare la loro originaria vocazione letteraria: questo almeno era quanto sosteneva alla fine del XVII secolo Girolamo Gigli che nel suo Diario Sanese le rimproverava di accompagnarsi a uomini «che girano col guanto anziché a quelli che si applicano nello studio e capaci di spiegargli i maestri della poesia»; l’erudito senese confidava quindi nell’intervento della principessa Wittelsbach per dar nuovo decoro al sodalizio femminile.[29]

Proprio la tanto auspicata protezione coincise con un ritorno dell’accademia all’antico smalto. Nel 1704 Violante, che aveva scritto a Gaetana Griffoli Piccolomini per avere una copia a stampa del ‘gioco di spirito’ di quel carnevale, non mancò di lodare l’attività e l’iniziativa culturale delle sodali, apprezzandone con estremo gusto i risultati:

 

Ben dimostra lo spirito di Vostra Signoria e di codeste dame Accademiche Assicurate il giuoco, che fu fatto da esse in casa di lei, la quale ha voluto compiacere la mia curiosità con inviarmene un distinto ben concepito ragguaglio; ond’io dichiarandomele riconoscente di questa attenzione, che m’è stata molto gradita, godo di sentir divertirsi codeste dame in esercizi ingegnosi, e lodevoli; e dichiarando a Vostra Signoria non ordinaria la mia benevolenza resto pregandola dal Signore le più vere prosperità.[30]

 

In quell’anno le Assicurate avevano infatti nominato loro socie le mogli del principe di Farnese Agostino Chigi e del duca Altieri Albertoni di Monterano che, insieme ai rispettivi consorti, presero parte al trattenimento condotto dal nobile Pandolfo Spannocchi nel palazzo della famiglia Piccolomini, il cui salone principale fu sin dalle origini il luogo prescelto per l’attività ricreativa.[31] La visita a Siena degli illustri ospiti rivela inoltre come la logica dell’impresa teatrale non fosse estranea alle accademiche che per omaggiare la moglie del Chigi, Maria Virginia Borghese, fecero rappresentare, probabilmente all’interno del teatro degli Intronati, l’opera in musica Amare e Fingere.[32] 

L’impronta della protezione di Violante si intravede anche dalla rinnovata vigoria con cui le dame si fecero portatrici del valore della clemenza, tanto caro alla devota principessa Wittelsbach. Proprio il soggetto del trionfo della compassione e della carità cristiana fu al centro dell’opera in musica Non ha cuore chi non sente pietà, rappresentata nel teatro pubblico nel carnevale del 1708 e dedicata alle «Nobilissime e Virtuosissime Accademiche Assicurate».[33] Il tributo era tanto più prezioso perché proveniva dalla massima istituzione culturale della città ovvero i Consiglieri dello Studio, l’organo deputato alla gestione dell’antica università senese.[34]

Anche dietro a un rinnovato impegno civico volto a promuovere  la parità di diritti tra generi sessuali si avverte il riflesso di Violante che quel tema aveva già mostrato di avere a cuore nel suo Autoritratto del 1693. Il frutto delle speculazioni sull’argomento fu il fiorire di una produzione letteraria, perlopiù inedita, che tra i lavori più apprezzati del tempo annoverava l’Apologia in favore degli studi delle donne di Aretafila Savini:[35] pronunciata pubblicamente a Padova dall’accademica senese nel dicembre 1723, e pubblicata a stampa nel 1729, l’opera anticipava alcuni ideali illuministici rivendicando il diritto all’istruzione, «così delle Scienze come delle Belle Arti», per tutte le donne di qualunque condizione.[36] 

Nell’ambito della pratica accademica patrocinata dai granprincipi Medici emergono quindi due linee distinte: ad una componente maschile, organizzata da Ferdinando in relazione alle capacità di destreggiarsi nei meccanismi del libero mercato, corrispondeva una ‘società delle dame’ stabilita sulla base di consolidate virtù cortigiane: in primis quelle della fedeltà, dell’etichetta e dell’erudizione. Se gli Avvalorati di Livorno, così come gli Intronati di Siena, gli Infuocati di Firenze e tutti quei sodalizi disseminati nella provincia, dovevano prestare attenzione a non «scapitare» di troppi denari nella gestione dei rispettivi teatri, il modus operandi delle accademie femminili non prevedeva nessun rapporto con la dinamica economica ma si fondava sulla citazione di tutti quegli attributi che qualificavano il linguaggio in atto alla corte della protettrice e che abbiamo avuto modo di analizzare dettagliatamente nella prima parte di questo capitolo. Proprio due di queste prerogative, e cioè il riferimento alla clemenza e alla lotta contro la discriminazione maschile verso il gentil sesso, furono al centro di un componimento lirico offerto a Violante nel 1697 dalla gentildonna Faustina degli Azzi, attiva nell’accademia dei Forzati di Arezzo con il soprannome de la Confusa.[37] La poesia faceva parte di una pubblicazione più ampia dedicata proprio alla principessa Wittelsbach in cui la scrittrice cantava le qualità e le virtù dei sovrani fiorentini, dell’imperatore Leopoldo I d’Asburgo, del pontefice e dei più importanti intellettuali toscani tra cui il medico Francesco Redi: il prestigioso omaggio era dunque il segno della stima e dell’affetto goduto da Violante anche presso la società ‘rosa’ del casentino.[38]

 

 

Le commedie e i ‘divertimenti da camera’

Se il grande teatro operistico della villa di Pratolino simboleggiava l’apice del dispendioso mecenatismo del principe Ferdinando, è innegabile che esso si alimentava delle idee, competenze e professionalità di un più articolato sistema spettacolare di corte che con toni più dimessi, ma con cadenza pressoché continua, rifluiva nel vivere quotidiano dei palazzi e delle ville della dinastia. Abbiamo già parlato delle frequenti accademie musicali promosse da Ferdinando nella Stanza dei Cembali di Pitti mentre altrove si è appreso l’uso del principe di valersi durante la villeggiatura di Poggio a Caiano di un’affiatata squadra di comici dell’Arte capeggiata per un certo periodo dal rinomato attore Giuseppe Sondra. Sappiamo inoltre che costoro, assieme al loro protettore, nella stagione estiva si spostavano alla residenza dell’Imperiale dove allestivano altri cicli di recite. Resta adesso da focalizzarci sul contributo di Violante a questo elaborato e dinamico apparato del divertimento di cui restano poche ed episodiche testimonianze a causa della sua fruizione elitaria.

Se, come abbiamo già visto, i quartieri della principessa furono il luogo privilegiato degli intrattenimenti di società offerti ai nobiluomini di corte e ai personaggi illustri della diplomazia europea, sin dal suo arrivo a Firenze le stanze abitate da Violante funzionarono anche da teatro domestico in cui si consumava il rito di una più intima e sobria spettacolarità privata che, a differenza di quella del marito, si fondava esclusivamente sulla partecipazione di dilettanti: attori erano infatti  le dame e i paggi di corte mentre a curare la messinscena e la coreografia delle rappresentazioni fu la stessa Violante che, almeno fino al 1701, comparve anche nel cast degli interpreti.

La pratica per i regnanti di esibirsi sulle scene dei palazzi privati proveniva dalle terre di Francia e di Spagna dove era un’usanza ormai collaudata sin dagli inizi del XVII secolo.[39] Già Jean Héroard, medico personale dei figli di Maria de’ Medici e di Enrico IV, aveva annotato sul suo Journal le frequenti commedie e tragicommedie interpretate dal Delfino Luigi insieme ai fratelli.[40] Al fascino del teatro non sfuggivano nemmeno le vedove: nel 1700 a Marly, durante i festeggiamenti in occasione della visita di re Sole, «nelle stanze della vedova principessa di Condé [Maria Anna di Borbone] vi si recitò una commedia dalla propria principessa suddetta, dal duca du Maine, dal conte di Tolosa e da altri cavalieri e dame, alla presenza della duchessa di Borgogna, e d’altri principi del sangue».[41] Attorno alla metà del XVII secolo la recitazione era ormai un passatempo consolidato anche negli ambienti ecclesiastici: da una memoria del cronista emiliano Giraldi sappiamo come nel 1689 un giovane chierico dell’ordine dei padri somaschi nominato Prospero Lambertini, in seguito destinato ricoprire il titolo di principe della chiesa romana con il nome di papa Bendetto XIV, sostenesse la parte del protagonista, Balanzone, in una commedia promossa dall’accademia del Porto di Bologna e intitolata La pazzia del dottore. Al suo fianco agivano il fratello Giovanni, nei panni di pantalone, e il conte Zambeccari come truffaldino.[42]

La confidenza dei sovrani con l’arte rappresentativa sconfinava anche nelle più raffinate esibizioni di danza che già allo scoccare del Seicento avevano raggiunto il vertice più alto in Francia nel Ballet de cour, di cui l’episodio principale era stato nel 1615 il Ballet de Madame danzato dalla principessa Elisabeth di Borbone prima della sua partenza per la Spagna in seguito al matrimonio con Filippo IV d’Asburgo.[43] Il fastoso evento aveva immediatamente suscitato il desiderio di emulazione da parte dei sovrani europei: tra i primi a raccogliere l’iniziativa della corte francese furono i principi fiorentini che nel 1617, secondo quanto racconta il cronista Gioseffo Casato,[44] si esibirono in alcuni balli della veglia Liberatione di Tirreno e Arnea, spettacolo organizzato al teatro degli Uffizi per festeggiare le nozze di Caterina de’ Medici con il duca Ferdinando Gonzaga.[45] Anche alla corte medicea la presenza di principi in scena, seppure limitata a poche occasioni documentate, era infatti un costume conosciuto. Noto è l’esercizio teatrale dei piccoli Leopoldo, Mattias e Giovan Carlo, applicati nello studio delle discipline spettacolari durante la loro formazione all’interno della confraternita fiorentina dell’Arcangelo Raffaello.[46] Quella passione resterà indelebile anche nell’età adulta dei tre principi che spesso in occasioni dinastiche, soprattutto arrivi di spose o feste di congedo, non disdegneranno di cimentarsi come performers sui palcoscenici privati di Pitti. L’ultimo dei fratelli, Leopoldo, si applicò anche come drammaturgo dilettante: nel 1646 si ha infatti notizia di una sua commedia recitata «dalla signora Granduchessa [Vittoria della Rovere] e dalla signora Principessa Anna».[47] L’attività spettacolare era dunque allargata anche alle donne di famiglia a testimonianza di quanto il teatro fosse elemento costante di unione e ricreazione dei regnanti fiorentini. Per Anna e Vittoria il divertissement di calcare le scene risaliva almeno al carnevale del 1635 quando entrambe recitarono nella villa di Castello nella pastorale Il semplice Aminta di Alessandro Adimari.[48] Dopo la morte dei fratelli Giovan Carlo, Mattias e Leopoldo, Vittoria della Rovere continuerà ad animare la vita di palazzo ospitando all’interno dei suoi appartamenti spettacoli privati recitati perlopiù dalle sue dame e commissionati ai più valenti poeti di corte. Nel 1681, divenuta ormai granduchessa madre, si assumerà le spese per la rappresentazione di un’«operetta» alla villa dell’Imperiale;[49] nel 1685 il palcoscenico provvisorio di una commedia inscenata dalle sue dame è montato all’interno di Palazzo Pitti;[50] nel 1686 commissiona a Giovanni Andrea Moniglia un breve testo per musica interpretato questa volta da due cantanti professioniste:[51] si tratta probabilmente di uno degli ultimi eventi teatrali domestici promossi da Vittoria della Rovere che tre anni più tardi passerà il ‘testimone’ della spettacolarità femminile di corte all’ultima arrivata di casa Medici, Violante Beatrice di Baviera.

Per Violante i segni della predisposizione teatrale erano comparsi già nel 1689 quando durante il suo primo, e sfortunato, soggiorno di Pratolino compose una commedia che recitò insieme alle gentildonne a suo servizio, «quale è riuscita a meraviglia e si è fatta due volte con invito di dame e sempre è andata a perfezione».[52] Se nel 1690 la morte della sorella, la Delfina di Francia Maria Anna Cristina di Baviera, impedì la realizzazione di un nuovo allestimento, l’impegno drammaturgico della principessa riaffiora nel 1691: il pretesto fu l’annunciata visita fiorentina del fratello, Massimiliano Emanuele Wittelsbach. Dal carteggio di Francesco Maria de’ Medici emergono i particolari dell’avvenimento. Ad aggiornare il cardinale, impegnato a Roma in alcuni affari ecclesiastici, era direttamente la madre Vittoria della Rovere che specificava come la nuova messinscena prevedesse l’impiego delle dame di corte ma anche di alcune nobildonne «maritate» di fuori Firenze: «la marchesa Ottavia Guadagni, Maddalena Tempi Gianfigliazzi e Francesca Bacetti».[53] Sempre la granduchessa annunciava al figlio porporato la partecipazione allo spettacolo della sua «Picciola», ovvero la musica Picciuoli instradata all’arte musicale nel 1684 dalla stessa Vittoria: il coinvolgimento dell’artista, cui era affidata «la licenzia in musica», induce a pensare che la commedia prevedesse almeno una parte o un intermezzo cantato.[54]

Il continuo procrastinarsi dell’arrivo dell’Elettore permise a Violante e alle sue attrici di curare a perfezione tutti i particolari dell’allestimento le cui prove si susseguivano giornalmente nelle stanze di Pitti nel novembre del 1691.[55] La rappresentazione portava una sostanziale novità all’ambiente fiorentino cortese perché la formazione tutta femminile fece sì che alcune dame furono chiamate a recitare en travesti, costume «non troppo visto» a Firenze secondo le parole del nobiluomo Averardo Salviati, uno dei pochi privilegiati a poter assistere all’intero ciclo dei preparativi.[56] Alla fine di novembre la commedia, di cui non si conoscono altri particolari, fu recitata nonostante Massimiliano Emanuele all’ultimo momento avesse deciso di non passare da Firenze con grande disappunto della sorella.

La notizia del gradimento di Cosimo III per l’impegno teatrale della nuora bavarese giunge in occasione di un nuovo spettacolo inscenato nella primavera del 1695 e replicato un’ultima volta per volontà del granduca che ne fece esplicita richiesta appena tornato a Pitti dal pellegrinaggio di Loreto. Le poche righe trascritte da Piero Capponi nel suo diario di camera sono sufficienti però ad informarci del carattere rigorosamente riservato dell’evento a cui parteciparono solo gli uomini e le dame di corte oltre a «due o tre altri cavalieri attempati per grazia speciale di Sua Altezza Serenissima» [57]

 Cosimo e lo stesso selezionato uditorio presenziarono anche alla successiva commedia del novembre 1696, promossa all’interno delle stanze di Pitti dopo il ritorno dei principi dalla villeggiatura di Poggio a Caiano. L’occasione per la «prima» furono le nozze organizzate a palazzo di Ginevra Bagnesi, figlia dello scalco della principessa. Ancora una volta si trattava di una rappresentazione tutta al femminile scritta e interpretata dalla stessa Violante. La sicurezza acquisita nel corso degli allestimenti precedenti permise però all’autrice l’adozione di nuove forme sceniche. Dal diario del maestro di camera Piero Capponi sappiamo infatti come la recita fosse «adornata da prologo e finale in musica» e arricchita da «un balletto di ninfe e tre amorini, che tutto ebbe grande applauso».[58] Proprio la passione per la danza, di cui Violante non aveva fatto mistero nel suo Autoritratto del 1693, la porterà anche negli anni successivi ad improvvisarsi coreografa di balli «figurati» inscenati insieme alle sue dame.[59] Pure la rappresentazione del 1696, come tutte le precedenti, fu replicata più volte: lo testimonia l’invito su un foglio volante fatto recapitare dalla Wittelsbach allo zio cardinale, assiduo frequentatore di quasi tutti gli spettacoli della nipote: «Non con intenzione di apportare a Vostra Altezza alcuno incomodo, ma per adempir al obbligo che mi corre inverso alla sua bontà sono per avisarla che domani si rifà la mia comedia».[60] L’orgoglio della mittente, che la laconicità del messaggio non riesce a velare, per l’ennesima ripetizione della sua ultima fatica appare giustificato anche alla luce delle congratulazioni che giunsero a Firenze nei giorni seguenti: se da Spoleto il nobile Carlo Francesco Spada riferiva a Francesco Maria de’ Medici come «della bellissima operina, che si è composta e recitata dalla Serenissima Signora Principessa e sue dame di corte, io ne ho udito l’applauso per ogni parte»,[61] gli echi del successo valicarono anche oltralpe: dalla residenza elettorale di Düsseldorf anche Anna Maria Luisa in una lettera allo zio fece notare il suo compiacimento: «sento veramente da tutti che la commedia della signora Principessa sia riescita così bene. Ella farà vergogna a’ vecchi compositori toscani».[62]

Nel 1697 non esistono tracce documentarie di messinscene. Una lettera della principessa del dicembre mette però in luce l’officina della futura rappresentazione: nel piovoso soggiorno pisano, Violante, intenta a godere «della conversazione delle dame solite della camera di qui», dichiarava infatti di passare gran parte delle sere a discorrere «di commedie in prosa che siano assai belle».[63] I frutti di quei dialoghi sono certamente raccolti nel maggio del 1698 quando, all’interno delle stanze di Pitti, la nuova produzione artistica fu presentata tre volte oltre la prova generale. Per l’occasione la matura padronanza del mezzo linguistico e del codice espressivo teatrale convinse la principessa ad ampliare l’uditorio e a consentire l’accesso alla performance anche al poeta Giovan Battista Fagiuoli.[64] L’invito dell’arcade fiorentino era il segno della consapevolezza di Violante del buon livello raggiunto dai suoi spettacoli che adesso, per la prima volta, venivano posti al vaglio di un esperto commediografo. È interessante inoltre notare come la presenza dell’autore fiorentino comportasse una divertente e curiosa metafora metateatrale con un sostanziale scambio di ruoli tra gli uomini di teatro e il mondo cortigiano. Nel 1694 era stata infatti la principessa bavarese, insieme alle sue dame, ad applaudire il Fagiuoli che nella pièce comica I tre fratelli rivali per la sorella, allestita nella villa di Carmignano del pievano Antonio Susini, recitava la parte del ridicolo.[65]

La prova fu superata con successo come annotava lo stesso poeta nel suo diario personale.[66] La sua esperienza di spettatore verrà quindi ricordata con piacere in un sonetto edito all’interno del primo volume delle Rime piacevoli del 1729:

 

E quivi fermo fermo come un magio

Non vedeva né comici né scene

Del resto poi sentiva con disagio.

Ma dolci furon tutte queste pene,

In udir come sì Gran Principessa

E le sue Dame, recitavan bene.

E quel che in me la meraviglia ha impressa

È, come alla tedesca, in italiano

Componga la commedia da se stessa

Come il disteso sia puro toscano:

Come propria la frase e sentenziosa:

Come il soggetto nobile e sovrano[67]

 

Il documento ci permette così di trarre ulteriori informazioni sulle modalità compositive delle commedie della Wittelsbach: l’assenza di scene dipinte e di comici professionisti, la prassi di Violante di scrivere in maniera distesa e in totale autonomia, senza cioè la necessità di consigli linguistici o drammaturgici, la natura dei soggetti rappresentati, definiti «nobili e sovrani».

La lettura del sonetto di un altro importante poeta di corte, anch’egli arcade, Vincenzo da Filicaia, fornisce ulteriori dettagli.[68] Dal componimento di data incerta intitolato Per la meravigliosa commedia della Serenissima Gran Principessa di Toscana recitatasi da Sua Altezza Reale e dalle sue dame d’onore nel Palazzo de’ Pitti[69] si apprende infatti come i soggetti portati in scena si rifacessero al principio della verosimiglianza, ricreando da situazioni di fantasia elementi e sensazioni del vivere comune:

 

Scene: voi nol sapete, o se sapeste

Qual piè vi preme, e di quai fila è ordita

 

La gran comica tela, e dond’è uscita

L’Arte e l’ingegno che adorna e veste!

 

D’Ossequio piene e di stupor direste!

Oh! Arte, oh! Ingegno, oh! Maestà infinita

 

D’un dir che col non vero al ver dà vita

E fa che il vero nel ver si veste.

 

D’un dir che in sé trasforma, e rende immoto

Altrui non pur, ma di natura a scorno.

 

Toglie all’occhio al pensiero, al core il moto

Voi si direste. Io che dirò, se intorno

 

Alla grand’opera ammirator devoto

Svanii me stesso e a me non fei ritorno?

   

Forte dei complimenti di letterati e poeti la principessa decise di aprire le porte dei suoi spettacoli anche ai personaggi blasonati che si trovavano di passaggio in città. Nel 1701 giunse in visita di cortesia a Firenze il cardinale Bandino Panciatichi che, dopo ripetuti e confidenziali incontri con il granduca, si recò alla villa dell’Imperiale per assistere alle esibizioni «degli staffieri e degli istrioni» del principe Ferdinando.[70] Alla villa il cardinale fu ammesso però anche alla «commedia che recitò la Serenissima Padrona con le sue dame e ne fu contentissimo, ammirato non meno della composizione che della recita e adornamenti».[71] Violante ormai non temeva più neanche di accostare le sue rappresentazioni a quelle dei più rinomati semiprofessionisti patrocinati dal marito. La presenza di ospiti forestieri permetteva inoltre la consacrazione della sua fama di attrice e drammaturga anche in ambienti diversi da quello cortigiano.

Sulla scia del crescente entusiasmo, nell’allestimento dell’anno successivo si registrano ulteriori novità. Per la prima volta, come sottolineato da Anna Maria Luisa,[72] la principessa abbandonò le vesti di attrice concentrandosi solo su quella di autrice: nell’ottobre del 1702, alla villa dell’Imperiale gli happenings «dei soliti istrioni» furono infatti affiancati dalla messinscena di un componimento interpretato da soli paggi. Non sappiamo però se la riduzione al maschile comportò una variazione dei soggetti verso un tono più eroico anche se è molto probabile che alcuni servitori fossero costretti per esigenze drammaturgiche a vestire panni femminili, riproponendo ancora una volta il tema della recitazione en travesti. Certamente l’esclusiva presenza di uomini permise altre sperimentazioni e l’acquisizione di ulteriori conoscenze sceniche: oltre al solito balletto la commedia fu infatti adornata di un «abbattimento che riuscì mirabile».[73]

All’inizio del XVIII secolo gli spettacoli di Violante erano ormai diventati uno strumento di prestigio della corte medicea tutta, tanto che nel 1702 tra gli spettatori dell’Imperiale figuravano, oltre l’importante ambasciatore di Spagna, eminenti esponenti culturali cittadini come il priore di Santa Felicita Francesco Baldovini, il medico e poeta Antonio Salvi e lo scultore e medaglista Massimiliano Soldani Benzi, condotti in villa da una carrozza «destinata a tal effetto» dalla principessa.[74] I medesimi ospiti, con l’eccezione dell’inviato di Spagna, presero parte anche ad una nuova recita dei paggi, sempre all’Imperiale, nell’ottobre del 1704. Anche in questo caso non mancarono novità di rilievo. Innanzitutto da una lettera del cardinale Pietro Ottoboni a Francesco Maria de’ Medici si intuisce come la commedia fosse già in preparazione durante la villeggiatura settembrina di Pratolino quando, in contemporanea agli spettacoli d’opera di Ferdinando, nelle stanze della Wittelsbach pochi privilegiati assistettero alle prove di una rappresentazione «più domestica».[75] Ma il dato più interessante è che la collaborazione riscontrata tra i principi per il sostegno della spettacolarità ufficiale di corte era presente anche per i divertimenti privati. Il modello è il medesimo e ancora una volta è decisivo il ruolo del cardinale Francesco Maria a cui nel 1704 la nipote tedesca si rivolse per ottenere il prestito di un paggio:

 

Prevalendomi della cortesia di Vostra Altezza in offerirmi il paggio Coppoli, onde avendone io bisogno per la commedia, io prego Vostra Altezza a volermelo concedere. Per ora non importa che torni, se non poi, basta che studi presto la sua parte.[76]

 

Quella del 1704 è l’ultima informazione, almeno fino al 1716, di commedie domestiche patrocinate dalla principessa. Non sappiamo però se il prolungato silenzio di notizie per oltre un decennio sia da imputarsi ad una effettiva interruzione delle rappresentazioni oppure, come potrebbe essere altrettanto plausibile, solamente delle testimonianze. Quel che è certo è che dal 1709 alla fortuna della spettacolarità femminile di palazzo contribuì Eleonora Gonzaga di Guastalla, la già citata moglie di Francesco Maria de’ Medici. In un clima di piena concordia e collaborazione la staffetta emerge soprattutto nel carnevale del 1710 quando a causa della degenze di Ferdinando e dello zio, costretti a letto da malanni ormai cronici, il sommesso carnevale di Pitti fu animato esclusivamente dai balli in maschera organizzati nei quartieri delle due principesse.[77] Sulle orme della ben più anziana nipote tedesca (era questo infatti un effetto dell’assurda politica matrimoniale del granduca Cosimo), la Gonzaga incoraggiò anche le rappresentazioni teatrali al femminile tanto che nel novembre del 1710 nella residenza di Lappeggi fece inscenare «una commedia dalle fanciulle di camera» cui partecipò, come spettatore, Giovan Battista Fagiuoli.[78] A differenza della Wittelsbach, Eleonora non fu mai drammaturga, limitandosi ad offrire le sue stanze come luogo delle esecuzioni.

Nel 1711, come abbiamo già detto, morì Francesco Maria de’ Medici. Terminato il periodo di lutto non ritornò la voglia dei divertimenti perché le condizioni del principe Ferdinando erano ormai gravissime e da un momento all’altro si aspettava la sua dipartita. Nelle stanze di Violante le composizioni drammatiche erano ormai certamente rimpiazzate da altri eventi spettacolari di minor risonanza. Nel settembre del 1712 frequenti furono i canti all’improvviso cui parteciparono i più celebri rimatori del granducato, ovvero il cavaliere senese Bernardino Perfetti, Alessandro Ghivizzani e l’avvocato fiorentino Alfonso Galassi. Gli argomenti dell’improvvisazione erano ritratti da un fatto storico, o da qualche motto spiritoso, o da un incidente domestico qualunque.[79] Ma alla fine del 1713 anche queste esibizioni dovettero cedere il passo, o quantomeno rallentare sensibilmente, per il cordoglio del funesto evento, la morte di Ferdinando. Per la seconda volta nel giro di due anni, le campane della cattedrale di Santa Maria del Fiore rintoccarono a morte: a restare vedova non fu solo Violante di Baviera ma anche l’ultima speranza della famiglia Medici di sopravvivere sul trono di Toscana. Unica superstite della triade principesca, la Wittelsbach era adesso chiamata a una scelta importante: restare coraggiosamente nel granducato e accompagnare per mano e con dignità la dinastia alla estinzione oppure prendere la strada della natia Germania.

 



[1] Archivio di Stato di Firenze (d’ora in avanti ASF), Archivio famiglie e persone (d’ora in avanti Afp), Guidi, f. 118, c. 86v. Ad accompagnarlo vi era un ristretto gruppo di cui faceva parte il «marchese [Pier Antonio] Gerini maestro di camera, il signor cavaliere Vincenzo Maria Capponi coppiere, il signor Ferdinando Ridolfi scalco, e i signori marchesi Luca Casimiro degli Albizi e Raffaello Torrigiani camerieri segreti, e il signor abate Carlo Antonio Gondi segretario di Stato, con altri di più bassa sfera». Contrariamente alle previsioni non partì invece il principe Giangastone, anch’egli atteso a Venezia insieme al fratello, come indica una lettera di Matteo del Teglia alla segreteria fiorentina del 28 gennaio 1696 (ASF, Mediceo del Principato [d’ora in avanti MdP], f. 3050d, c. 25bisr): «si è preparato il palazzo dell’eccellentissimo signor Giovanni Francesco Morosini, per il Gran Principe di Toscana, o per il Principe don Giovanni Gastone che s’attende di Fiorenza».

[2] Il resoconto ufficiale del viaggio, stilato successivamente al ritorno a Firenze probabilmente dall’abate Carlo Antonio Gondi, è intitolato Viaggio a Venezia del Serenissimo Principe di Toscana, 1695 ab Incarnatione e si trova in ASF, MdP, f. 6391, cc. 998r-1018r.

[3] Rispetto al 1688 aveva chiuso i battenti il San Moisé impedito dalla agguerrita concorrenza e dalla morosità dei proprietari dei palchi, cfr. N. Mangini, I teatri di Venezia, Milano, Mursia, 1974, p. 74.

[4] ASF, MdP, f. 6391, cc. 1001v-1002r. Persa ogni speranza di ottenere da Ferdinando un successore al regno, anche Cosimo III de’ Medici non sembrava più interessato alle vicende personali del figlio; a quell’altezza cronologica gli sforzi del granduca erano invece concentrati su due fronti: la ricerca di un vantaggioso matrimonio per il terzogenito Giangastone e la resistenza alle continue ingerenze e ai pesanti contributi economici pretesi dall’imperatore, cfr. La Toscana nell’età di Cosimo III. Atti del Convegno. Pisa-San Domenico di Fiesole (FI), 4-5 giugno 1990, a cura di F. Angiolini, V. Becagli, M. Verga, Firenze, Edifir, 1993, pp. 389-402.

[5] ASF, MdP, f. 5834, c. 428r, lettera da Venezia al cardinale de’ Medici del 10 febbraio 1696. La missiva, probabilmente del Torrigiani, si chiudeva quindi con un suggerimento di tipo commerciale: «se io avessi un teatro lo vorria fare a pago, che saria certo di guadagnarci».

[6] Ivi, c. 421r, lettera da Venezia di Luca Casimiro degli Albizi del 4 febbraio 1696.

[7] ASF, Afp, Guidi, f. 118, c. 87r.

[8] Il figlio delle Selve del Capece era stato inscenato per la prima a Roma nel 1687 in occasione della visita di Maria Antonia d’Austria duchessa Elettrice di Baviera e cognata di Violante, cfr. C. Sartori, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800. Catalogo analitico, Cuneo, Bertola & Locatelli, 1990-1994, 6 voll, III (1991), p. 159.

[9] Lo spettacolo assumeva una forte matrice cattolica anche perché il Bani in quegli stessi anni fu particolarmente attivo nelle pratiche conversionistiche cittadine insieme a gran parte della società civile livornese tra cui anche alcune dame che interpretarono in quello stesso 1696 Il figlio delle selve. Sulla attività religiosa di Cosimo Bani cfr. L. Frattarelli Fischer, Percorsi di conversione di ebrei nella Livorno di fine Seicento, «Nuovi Studi Livornesi», XIII, 2006, pp. 144-48.

[10] Il disegno, riprodotto su un foglio parzialmente danneggiato nella parte alta e nel bordo inferiore, precede il testo a stampa dell’opera in musica Il Figlio delle Selve conservato presso un volume miscellaneo della Biblioteca Universitaria di Bologna, segnatura Tab. I. F. III. Vol. 11.8.

[11] ASF, MdP, f. 6277, c. 689r-v, lettera delle accademiche del Cimento a Violante Beatrice di Baviera del 27 aprile 1695. Sulla base di questa testimonianza è dunque legittimo datare la nascita dell’accademia ai primi mesi del 1695.

[12] ASF, MdP, f. 5834, c. 330r, lettera di Filippo Corsini al principe Francesco Maria de’ Medici del 27 febbraio 1696.

[13] Per quanto ampiamente diffusa sia tra i professionisti che tra i dilettanti, la pratica cinque-seicentesca delle donne di recitare en travesti è ancora poco conosciuta. Se quasi la metà dei cinquanta canovacci raccolti da Flaminio Scala nel Teatro delle favole rappresentative (1611) prevedeva l’apparizione di una donna in abiti maschili, il ricorso al travestimento era usuale, e soprattutto inevitabile, anche negli spettacoli ricreativi promossi all’interno degli istituti religiosi. Con l’introduzione del genere operistico il travestitismo scenico incrementò per tutto il corso del Seicento e per la prima parte del XVIII secolo: la folta presenza dei cantanti evirati, chiamati a interpretare parti femminili, era infatti compensata da attrici specialiste nei personaggi maschili: è il caso della fiorentina Vittoria Tesi, cresciuta alla corte del principe Ferdinando e successivamente acclamata nei più rinomati teatri d’Europa. Quello del camuffamento dei sessi divenne quindi un meccanismo drammaturgico di sicuro successo, talmente diffuso da generare talvolta anche malumori e risentimenti in alcuni artisti: nel carnevale fiorentino del 1699 sappiamo che la cantante Francesca Borghesi, detta Cecchina, «non trovatasi troppo soddisfatta della parte destinatali da donna, in riguardo che per metà dell’opera era necessario vestirsi da uomo, mi ha fatto parlare per il signore Marchese Vieri Guadagni, che io la dispensassi da detta recita», ASF, MdP, f. 5907, c. 82r, lettera di Camillo Vitelli a Ferdinando de’ Medici del 10 gennaio 1699.   

[14] Alcuni degli accademici Avvalorati parteciparono direttamente alla commedia musicale: tra i virtuosi dell’orchestra figuravano infatti il cavaliere Beniamino Sproni, secondo cembalo, Giovanni Federigo Tidi, basso di viola, Terenzio Tidi e il dottore Antonio Ribotti.

[15] ASF, MdP, f. 5834, c. 330r, lettera di Filippo Corsini al principe Francesco Maria de’ Medici del 27 febbraio 1696.

[16] Cfr. ASF, MdP, f. 5858, c. 421r, lettera da Livorno di Sinibaldo Gaddi del 28 gennaio 1709.

[17] Nel 1701 le riunioni più riuscite furono quelle organizzate a casa della dama Farinola che per la fama guadagnata era «contenta come un re, parendogli di comandare lei sola Livorno», ASF, MdP, f. 5840, c. 438r-v, lettera da Pisa di Angelo Baldocci al cardinale de’ Medici del 27 dicembre 1700.

[18] L’accademia degli Affidati, di cui è oscura l’origine e la composizione, nel luglio del 1701 si era riunita nella chiesa di San Sebastiano per celebrare con letture di versi poetici il governatore Mario Tornaquinci e il buon governo della città, cfr. ASF, MdP, f. 2328a, lettera da Livorno alla segreteria granducale del 29 luglio 1701. Ringrazio Lucia Frattarelli Fischer per la preziosa indicazione archivistica.

[19] Cfr. ibidem.

[20] Per notizie dettagliate sull’origine, sui nomi e sulle imprese delle dame ascritte all’accademia si veda il codice manoscritto di diciassette carte del secolo XVII presso la Biblioteca Comunale di Siena, Y.II.22.

[21] Molto è stato scritto sulle adunanze letterarie e giocose della nobiltà senese del Cinque e Seicento. Fondanti in tal senso sono gli studi di R. Bruscagli, Les Intronati  “a veglia”: l’Académie en jeu, in Les jeux à la Renaissance, Actes du XXIII Colloque International d’Etudes Humanistes, Paris, Vrin, 1982, pp. 201-12; L. Riccò, Giuoco e teatro nelle veglie di Siena, Roma, Bulzoni, 1993; Ead., L’invenzione del genere “Veglie di Siena”, in Passare il tempo. La Letteratura del gioco e dell’intrattenimento dal XII al XVI secolo, Atti del convegno (Pienza 10- 14 settembre 1991), Roma, Salerno Editrice, 1993, pp. 373-98, comprensivi di un ricco apparato bibliografico che rinvia alle fonti originali di cui vale almeno la pena menzionare le opere dei fratelli Bargagli: il Dialogo dei Giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare edito nel 1581 da Girolamo Bargagli, i Trattenimenti (1587) e il Turamino (1602) di Scipione. Le opere dei due fratelli sono state pubblicate integralmente ed analizzate da Laura Riccò, Luca Serianni e Patrizia D’Incalci Ermini.

[22] G. Gigli, Diario Sanese, Siena, Tip. dell’ancora di G. Landi e N. Alessandri, 1854, 2 voll., I, pp. 417-22. Sulla biografia dell’erudito e drammaturgo senese si veda almeno la voce in Dizionario Biografico degli Italiani, 2000, LIV, pp. 676-78; sull’attività di scrittore di libretti, cfr. E. Torselli, Un maledetto toscano fra i pastori d’Arcadia. Spunti e suggerimenti per lo studio dei testi per musica di Girolamo Gigli, «Civiltà musicale», XV, 2000, pp. 54-83. 

[23] Per la definizione della corrente accademica ispirata al gentil sesso e interessata alle questioni d’amore diffuse dalla trattatistica rinascimentale, cfr. R. Bruscagli, Les Intronati  cit.

[24] Cfr. G. Gigli, Diario cit., I, p. 419.

[25] Sulle serre e sui tornei pubblici organizzati dagli studenti a partire dal Cinquecento, cfr. L. Riccò, Giuoco e teatro nelle veglie cit., pp. 76-91 e 121-41.

[26] Sulla letteratura dei giochi senesi, cfr. ivi, pp. 11-141. Sull’editoria senese cfr. L. Riccò, La miniera accademica. Pedagogia, editoria, palcoscenico nella Siena del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 49-116.

[27] Dallo spoglio dei documenti archivistici possiamo affermare con certezza come il dominio dell’argomento amoroso perdurò fino agli anni venti del Settecento quando le disfide registrarono l’infiltrazione anche di altre tematiche di natura civile e politica: nel 1723, ad esempio, la disfida fu fra l’importanza delle lettere e quella dei guerrieri: la domanda con cui veniva aperta la contesa era la seguente: Il bene degli stati è favorito maggiormente dalle lettere o dalle armi?, cfr. Archivio di Stato di Siena [d’ora in avanti ASS], Finetti, 42, c. n.n.

[28] Cfr. ivi, c. n.n.

[29] G. Gigli, Diario cit., I, pp. 417-22.

[30] ASF, MdP, f. 6280, lettera di Violante a Caterina Gaetana Griffoli Piccolomini del 2 luglio 1704.

[31] Cfr. M. Maylender, Storia delle accademie d’Italia, Bologna, Cappelli, 1926-1930, 5 voll., I (1926), pp. 366-67.

[32] Amare, e fingere drama per musica fatto recitare dall’Accademia delle signore dame Assicurate, con l’occasione della venuta in Siena dell’illustrissima signora Principessa di Farnese, et alla medesima dedicato, Siena, Stamperia del Pubblico, s. d.

[33] L’opera, adattamento di un lavoro scenico di Lope de Vega, esisteva in due diverse versioni, quella del poeta napoletano Ferrante Scarnelli, rappresentata per la prima volta a Bologna nel 1689, e quella del lucchese Giuseppe Fivizzani. Non è dato di sapere quale versione fu utilizzata a Siena nel 1708 anche se le due traduzioni si differenziavano solo per pochissimi particolari. Sulle riprese italiane delle opere di Lope de Vega tra Sei e Settecento cfr. i saggi di M. G. Profeti in Commedia aurea spagnola e pubblico italiano, Firenze, Alinea, 1996-2000, IV voll. Sulle influenze spagnole nella Firenze del Seicento cfr. S. Castelli, Influenze spagnole nella Firenze del XVII secolo: la vita d’accademia e l’opera di Jacopo e Giacinto Andrea Cicognini, tesi di dottorato in Storia dello Spettacolo, Università degli studi di Firenze, tutor prof. S. Mamone, 1997; N. Michelassi, La “Finta pazza” a Firenze: commedie ‘spagnole’ e ‘veneziane’ nel teatro di Baldracca (1641-1665), «Studi Secenteschi», XLI, 2000, pp. 313-53; si veda anche S. Vuelta García, Accademie teatrali nella Firenze del Seicento: l’accademia degli Affinati o del Casino di San Marco, «Studi secenteschi», XLII, 2001, pp. 357-76.

[34] Cfr. ASS, Tolomei, 107, ins. 8. Il libretto della cantata e la dedica alle accademiche (datata 18 febbraio 1708) furono stampati in Siena presso il Bonetti. Firmatari erano i nobili Cristofano Chigi, Francesco Buonsignori, Pietro Valentini e il Conte Cosimo d’Elci. Sull’antica università senese, la cui fondazione risale al 1284, si veda L’Università di Siena 750 anni di storia a cura di M. Ascheri, Siena, Monte dei Paschi di Siena, 1991. 

[35] Circa la produzione editoriale di alcune accademiche senesi cfr. l’indagine sulle letterate del Settecento toscano condotta da A. Giordano, Letterate toscane del Settecento. Un regesto, Firenze, All’insegna del giglio, 1994.

[36] L’opera della Savini fu pubblicata all’interno del volume a stampa Discorsi accademici di vari autori viventi intorno agli Studii delle Donne, la maggior parte recitati nell’Accademia de’ Ricovrati di Padova, Padova, Stamperia del Seminario, 1729, pp. 50-65. Della dama senese, che fece parte anche dell’Arcadia romana con il nome di Larinda Alageria, è conosciuto l’atto di nascita, del 1687, e lo stato coniugale: era infatti moglie di Isidoro de’ Rossi, provveditore della fortezza di Siena, cfr. I libri dei leoni. La nobiltà di Siena in età medicea (1557-1737), a cura di M. Ascheri, Siena, Monte dei Paschi di Siena, 1996, p. 166. 

[37] L’accademia dei Forzati di Arezzo, nata nel 1683 ad opera di alcuni cavalieri e religiosi locali, nel 1691 aveva ottenuto il titolo di colonia dell’Arcadia romana. L’ impresa era formata da un girasole. Da documenti archivistici risulta che almeno dal 1702 l’accademia utilizzò il teatro pubblico di Arezzo per la rappresentazione di commedie spesso composte dai suoi sodali. Tra questi vi era anche Faustina degli Azzi, iscritta all’accademia dell’Arcadia con il soprannome di Selvaggia Eurinomia. Sulla storia dell’accademia cfr. M. Maylender, Storia delle accademie cit., III (1929), pp. 49-51; V. Stacchini Gazzola-G. Bianchini, Le accademie dell’aretino nel XVII e XVIII secolo, Firenze, Olschki, 1978, pp. 216-29.

[38] Nella dedica a Violante apposta al volume Serto poetico di Faustina degli Azzi, ne’ Forti, ne’ Forzati d’Arezzo la Confusa (Arezzo, Lazzaro Loreti, 1697), la nobildonna confidava nel prestigio della principessa bavarese per la rivalutazione del ruolo femminile nella società del tempo; scriveva infatti Faustina: «Ciò dunque, ch’io con riverente ossequio depongo a’ piedi dell’Altezza Vostra Serenissima spero, che ritroverà nella sua gran clemenza ricetto, e che militando sotto il suo Regio Stendardo, anche nelle proprie tenebre sarà per ritrovare splendore; e che ricoverandosi sotto l’ombra di Vostra Altezza Serenissima incontrerà quell’applauso, che per se stesso non merita; e farà fronte alle censure degli Aristarchi soliti ad avvilire il sesso imbelle, non per anche giunto a fregiare le glorie di Pallade». Il volume, conteneva anche poesie offerte alla stessa Faustina da esponenti maschili dell’accademia aretina oltre ad un Brindisi alla gentilissima e valorosissima Pastorella Arcade Selvaggia Eurinomia composto in ditirambi dal custode d’Arcadia Mario Crescimbeni.

[39] Per un approfondimento sulle rappresentazioni dei principi e delle principesse alle corti cattoliche di Spagna e Austria cfr. M. G. Profeti, Fiestas de damas, «Salina: revista de lletres», 14, 2000, pp. 79-90.

[40] Notizie sulle frequenti rappresentazioni allestite alla corte di Francia che ebbero come interpreti i principini di Borbone si leggono nel diario personale del medico del piccolo Luigi XIII, edito come Journal de Jean Héroard, sous la direction de M. Foisil, Fayard, Paris 1989, 2 voll.

[41] ASF, MdP, f. 6272, lettera da Parigi dell’abate Pennetti a Violante dell’11 gennaio 1700.

[42] Cfr. A. Lucchini, Cronache del teatro dialettale bolognese dalle origini ai nostri giorni, 2006, pp. 14-5.

[43] Sul Ballet de Madame che celebrava la gloria del piccolo re di Francia Luigi XIII e soprattutto della reggente Maria de’ Medici in occasione del matrimonio di sua figlia Elisabeth con l’infante Filippo, futuro re di Spagna, cfr. S. Mamone, Firenze e Parigi. Due capitali dello spettacolo per una regina, Maria de’ Medici, Cinisello Balsamo, Silvana, 1988, pp. 227-74. Sulla nascita, sullo sviluppo e soprattutto sulla funzione ideologica e dinastica del Ballet de cour cfr. M. M. Mc Gowan, L’art du ballet de cour en France (1581-1643), Paris, CNRS, 1963; M. T. Bouquet Boyer, Le ballet aux XVIe et XVIIe siècles en France et à la cour de Savoie, Genève, Slatkine, 1992; N. le Roux, The politics of festivals at the Court of the last Valois, in Court festivals of the European Renaissance. Art, Politics and Performance, a cura di E. Goldring e J. R. Mulryne, Aldershot, Ashgate, 2002, pp. 101-17. Sulle forti influenze fiorentine alla base del Ballet de cour cfr. S. Mamone, Dèi, semidei, uomini. Lo spettacolo a Firenze tra neoplatonismo e realtà borghese (XV-XVII secolo), Roma, Bulzoni, 2003, pp. 167-92.

[44] La relazione di G. Casato, Viaggio et nozze del Duca di Mantova Ferdinando Gonzaga è trascritta in A. Portioli, Il matrimonio di Ferdinando Gonzaga con Caterina de’ Medici (1617), Mantova, Stabilimento Tipografico Mondovì, 1882.

[45] Su un’incisione di Jacques Callot relativa al primo intermedio della veglia, cfr. S. Mamone, Dèi, semidei, uomini cit., pp. 162-65.

[46] L’importanza della confraternita sul versante della formazione musicale e spettacolare della società fiorentina è stata messa in luce da J. W. Hill, Nuove musiche ad usum infantis, in La musica e il mondo, a cura di C. Annibaldi, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 113-37. Sulla compagnia (detta della Scala) si veda anche S. Castelli, Influenze spagnole nella Firenze cit., pp. 85-94 e lo specifico studio di K. Eisenbichler, The boys of the Arcangel Raphael. A youth confraternity in Florence, 1411-1785, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press, 1998.

[47] L’indicazione proviene da una lettera di Margherita de’ Medici, duchessa di Parma, al fratello Giovan Carlo del 29 marzo 1646 (ASF, MdP, f. 5311, c. 107r) ed è trascritta in S. Mamone, Serenissimi fratelli principi impresari. Notizie di spettacolo nei carteggi medicei. Carteggi di Giovan Carlo de’ Medici e di Desiderio Montemagni suo segretario (1628-1664), Firenze, Le Lettere, 2003, p. 129.

[48] Cfr. Biblioteca Marucelliana di Firenze, Manoscritti 203, c. 6r. Desidero ringraziare Beatrice Vannini per la segnalazione. La pastorale verrà riproposta alcuni giorni più tardi dall’accademia fiorentina dei Rifritti per festeggiare le nozze del nobiluomo Scipione Capponi. Sulla figura del poeta e drammaturgo di corte Alessandro Adimari, cfr. S. Mamone, Dèi, semidei, uomini cit., pp. 280-306. Per una indagine sul mecenatismo spettacolare di Vittoria della Rovere cfr. B. Vannini, «Dos in Candore». Lo spettacolo a Firenze sotto la protezione di Vittoria Granduchessa di Toscana (1637-1694), tesi di dottorato in Storia dello Spettacolo, Università degli studi di Firenze, tutor prof. S. Mamone, 2010.

[49] La notizia di «una operetta che la Serenissima Granduchessa Vittoria fa rappresentare all’Imperiale» proviene da una lettera di Filippo Melani a Ippolito Bentivoglio del 21 giugno 1621 trascritta in S. Monaldini, L’orto dell’Esperidi. Musici, attori e artisti nel patrocinio della famiglia Bentivoglio, 1646-1685, Lucca, Libreria musicale italiana, 2000, p. 470 e Daniela Sarà, Le Carte Ughi e il primo cinquantennio di attività del teatro di via del Cocomero a Firenze (1650-1701), tesi di dottorato in Storia dello Spettacolo, Università di Firenze, tutor prof. Sara Mamone, 2006, 3 voll, II, p. 722.

[50] Il 27 febbraio 1685 scriveva Bartolomeo Corsini al principe Francesco Maria (ASF, MdP, f. 5817, c. n.n.): «Le commedie che si son fatte per la città sono state recitate tutte in palazzo e domani a sera per ultimo si recita quella del Canto a’ Soldani. Ce ne resta poi una privatissima che si fa colle signore dame della Granduchessa, ma questa è assai addietro et averà forse tempo di sentirla anco Vostra Altezza».

[51] Il 13 agosto 1686 era lo stesso Moniglia ad informare il cardinale Francesco Maria de’ Medici di aver composto  in «brevissimo tempo» un componimento commissionatogli dalla granduchessa Vittoria della Rovere per festeggiare insieme alle dame di corte il compleanno del figlio granduca, cfr. ASF, MdP, f. 5759, c. 491r.

[52] ASF, MdP, f. 5819, lettera da Pratolino di Francesco de’ Castris al cardinale Medici del 27 settembre 1689.

[53] ASF, MdP, f. 5828, lettera di Vittoria della Rovere al cardinale de’ Medici del 20 novembre 1691.

[54] Ibidem.

[55] Cfr. ivi, lettera da Firenze di Bartolomeo Corsini al cardinale de’ Medici del 13 novembre 1691.

[56] Ibidem.

[57] Scriveva il Capponi nel suo diario (ASF, Afp, Guidi, f. 118, c. 80r-v): «Questa primavera la Serenissima Principessa Padrona ha composto una bellissima commedia e l’ha recitata con le sue dame, et è riuscita oltremodo bella e ben recitata. Sono stati [c. 80v] ammessi all’onore di sentirla le dame tutte della camera et alcune altre poche parenti delle dame che recitavano e alcune di quelle che sono state sopra chiamate in occasione de’ festini fatti nelle camere di Sua Altezza. Di Cavalieri il Consiglio di Stato e quei cortigiani dell’attual servizio dei Serenissimi Principi di Toscana, e Signor Cardinale, e due o tre altri Cavalieri attempati per grazia speciale di Sua Altezza Serenissima. S’è rappresentato tre volte, due avanti il ritorno del Granduca e l’altra doppo da Sua Altezza richiesta».

[58] Ivi, c. 89r.

[59] Di questa vivace attività ballettistica nelle stanze di Violante, di cui spesso Ferdinando fu compiaciuto osservatore, ci viene testimonianza anche durante il carnevale livornese del 1701 quando la principessa nel breve giro di poche ore allestì due diverse esibizioni: «L’ultimo giorno di carnevale la Serenissima s’immascherò con le sue dame e tre altre di quelle che hanno l’onore della camera con abiti di concerto per fare un balletto figurato, e parendo al Serenissimo Principe Padrone, che la ricchezza e la levatura degli abiti meritasse qualcosa di più che l’avere fatti solo [c. 104r] per vedersi dai soli cortigiani, volle benignamente che recevessero tutta la città avendo voluto condurre egli medesimo con una muta la Serenissima Sposa dentro un calesse riccamente adornato, seguito da due altre carrozze a sei cavalli con l’altre dame mascherate guidandole i Cavalieri di corte. La sera in palazzo si ballò privatamente con le dame e cavalieri della corte quali essi pure vennero in maschera. La Serenissima con sette altre dame fecero un balletto nuovo tra esse concertato», ASF, Afp, Guidi, f. 118, cc. 103v-104r.

[60] ASF, MdP, f. 5834, c. 3r.

[61] Ivi, c. 437r, lettera del 17 dicembre 1696.

[62] Ivi, c. 44r, lettera da Düsseldorf del 22 dicembre 1696.

[63] ASF, MdP, f. 5835, c. 25r, lettera da Pisa al cardinale de’ Medici del 23 dicembre 1697.

[64] Poeta e commediografo Giovanni Battista Fagiuoli (Firenze 1660-ivi 1742) è ricordato soprattutto per le sue commedie, pregevoli per il linguaggio arguto e per la presenza di vicende anche complesse. Le sue opere sono raccolte in Rime piacevoli del 1729-34 (6 voll.); La fagiuolaja ovvero Rime Facete del 1729-1730 (3 voll.); Commedie del 1734-36 (7 voll.); Prose del 1737; Scherzi comici inediti del 1884. Sull’attività di commediografo di Giovan Battista Fagiuoli cfr. I. M. Aliverti, Anni di apprendistato di Giovan Battista Fagiuoli, «Quaderni di teatro», II, 1980, 7, pp. 229-37. Si veda anche A. Scotton, I committenti di Giovan Battista Fagiuoli: la corte, i privati, le accademie, i conventi, tesi di laurea in Storia del Teatro e dello Spettacolo, Università di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, rel. prof. S. Mamone, 1999-2000.

[65] Cfr. G. B. Fagiuoli, Memorie e ricordi, in Biblioteca Riccarda di Firenze (d’ora in avanti BRF), 2695, 25 ottobre 1694.

[66] «La signora Principessa mi onorò di invitarmi alla sua commedia, che ella ha composto, e dove ella medesima recita nelle camere del suo appartamento e veramente ella compone in tal materia di ottimo gusto, e scrive toscano, per eccellenza, e recita da sua pari», G. B. Fagiuoli, Memorie e ricordi, in BRF, 2696, 24 aprile 1698.

[67] G. B. Fagiuoli, Rime piacevoli, Lucca, Salvatore e Giandomenico Marescandoli, 1729, vol. I, cap XXV, pp. 141-2.

[68] Vincenzo da Filicaia (Firenze 1642-ivi 1707) fu un importante poeta lirico. In particolare gli diedero fama europea le sei canzoni concepite in occasione dell’assedio e liberazione di Vienna (1684), le poesie per la vittoria di Giovanni III Sobieski sui turchi (1685), i sonetti all’Italia, notevoli quest’ultimi per una sostenuta oratoria che fu apprezzata anche da Ludovico Antonio Muratori. Sulla scia del crescente successo entrò nei favori di Cristina di Svezia che nell’ultimo scorcio del XVII secolo lo accolse nella sua accademia privata.

[69] La poesia è raccolta nel volume miscellaneo Poesie di diversi autori in BRF, ms. 3148, p. 364.

[70] G. B. Fagiuoli, Memorie e ricordi, in BRF, 2697, 27 ottobre 1701. I comici professionisti coinvolti nelle recite erano i medesimi che il principe «teneva provvisionati» nella villa di Poggio a Caiano. In quel 1701 gli attori portarono in scena la rappresentazione del Baron Tedesco.

[71] ASF, Afp, Guidi, f. 118, c. 110r.

[72] Cfr. ASF, MdP, f. 5843, lettera da Düsseldorf del 17 novembre 1702.

[73] ASF, Afp, Guidi, f. 118, c. 125r.

[74] G. B. Fagiuoli, Memorie e ricordi, in BRF, 2697, 28 ottobre 1702. Se di Antonio Salvi abbiamo già parlato nel paragrafo dedicato agli spettacoli di Pratolino, giova qui dare alcune brevi indicazioni sugli altri due ospiti principeschi, entrambi di nascita fiorentina. Francesco Baldovini, che sin da giovane si applicò alla carriera ecclesiastica, fu amico del pittore Salvator Rosa e risultò iscritto in molte accademie del tempo tra cui quella dei Concordi di Ravenna e quella degli Apatisti di Firenze. Non gli fu estranea neanche la vocazione letteraria e nel 1694 pubblicò un poemetto erotico-rusticale in quaranta stanze, di ispirazione boccaccesca, dal titolo Il lamento di Cecco da Varlungo. Consacrata all’arte fu invece la vita di Massimiliano Soldani Benzi che fin dalla tenera età fu inviato da Cosimo III ad imparare i segreti dello scultura sia a Roma che a Parigi. Al suo ritorno a Firenze divenne uno dei più importanti artisti al servizio della famiglia Medici verso la quale mostrò fedeltà fino alla morte. Tra i suoi lavori si segnalano i rilievi in bronzo raffiguranti Le allegorie delle quattro stagioni eseguiti su commissione del granprincipe Ferdinando de’ Medici che ne fece dono al cognato, l’Elettore Palatino Giovanni Guglielmo. Sull’attività del Soldani alla corte medicea cfr. il saggio di S. Casciu «Principessa di gran saviezza». Dal fasto barocco delle corti al Patto di famiglia in La principessa saggia. L’eredità di Anna Maria Luisa de’ Medici, Elettrice Palatina, catalogo della Mostra (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, 22 dicembre 2006-15 aprile 2007), a cura di S. Casciu, Livorno, Le Sillabe, 2006, pp. 30-57.

[75] ASF, MdP, f. 5847, lettera da Roma del cardinale Ottoboni al cardinale de’ Medici del 20 settembre 1704.

[76] Ivi, lettera del 7 ottobre 1704.

[77] A tal proposito si veda ASF, Afp, Guidi, f. 118, cc. 169r-170v.

[78] G. B. Fagiuoli, Memorie e ricordi, in BRF, 3467, 13 novembre 1710.

[79] Cfr. ivi, 7 settembre 1710. Bernardino Perfetti (1681-1747), di cui parleremo più approfonditamente nell’ultimo capitolo, apparteneva all’ordine dei cavalieri di Santo Stefano ed era iscritto all’Arcadia romana con il soprannome di Alauro Euroteo. Alcune sue poesie sono state raccolte postume in due edizioni a stampa: Saggi di poesie parte dette all’improvviso, e parte scritte dal cavaliere Bernardino Perfetti, Firenze, Bonducciana, 1774; Versi estemporanei de’ più celebri improvvisatori d’Italia incominciando dal Cav. Perfetti sino al presente anno, Jesi, Bonelli, 1803. Sulla sua figura cfr. F. Waquet, Rhétorique et poétique chrétienne. Bernardino Perfetti et la poesie improvisée dans l’Italie du XVIIIe siècle, Firenze, Olschki, 1992. Ad accompagnare il Perfetti nelle improvvisazioni a palazzo vi era spesso l’avvocato Alfonso Galassi iscritto anch’esso all’accademia dell’Arcadia con il soprannome di Eurimonte Napeio.

 


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