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Italo Moscati

Italo Moscati,
Tutte le televisioni di Pier Paolo Pasolini


Data di pubblicazione su web 11/02/2010
Pier Paolo Pasolini

Il 20-21 novembre 2009, a Casarsa della Delizia, indetto dal Centro Studi Pier Paolo Pasolini, si è tenuto il convegno dal titolo “Pasolini e la televisione”, a cui hanno preso parte Walter Siti, Bruno Voglino, Gianni Barcelloni Corte, Damiano Cantore, Luciano De Giusti. Ha condotto una delle giornate di lavori Italo Moscati che ha presentato un intervento sui lavori e sulle apparizioni del poeta-scrittore-regista, che qui anticipiamo rispetto agli atti del convegno in preparazione.

 

 

Per ragioni storiche, la televisione era una sola quando Pier Paolo Pasolini se ne occupò in tanti modi diversi, inventando com’era sua abitudine non una ma tante televisioni, di cui qui cercherò di raccontare. Cercherò di raccontare questa storia dalle molte storie non prima di avere detto che, per parlare (non per scrivere come mi è più volte capitato) di Pasolini e della o delle “sue” televisioni, mi sono recato a Casarsa della Delizia, il luogo di nascita della madre di Pier Paolo, Susanna, e il luogo dove crebbe il ragazzo Pasolini, la cui nascita come si sa avvenne a Bologna. Nel 1922. Lo specifico perché, in questo scritto, le date sono molto importanti.

Mettere piede per la prima volta a Casarsa, dopo aver scritto un libro e mezzo su Pasolini, ha significato per me provare una grande emozione. Un libro e mezzo, ho detto, perché il primo “Pasolini e il teorema del sesso”, uscito dal Saggiatore nel 1995, a vent’anni dalla morte del poeta-scrittore-regista-corsaro, è il libro base dove ho ricostruito la sua biografia puntando soprattutto sugli anni Sessanta e in particolare sul 1968, l’anno della contestazione, l’anno della presenza di Pasolini alla Mostra del cinema dove venne presentato tra lo scandalo, anzi gli scandali per e intorno al suo film Teorema. Il mezzo libro è la trasformazione del primo in un volume più ampio e articolato dal titolo Pasolini passione.

 

Ho tenuto a fare questa precisazione per dire come mi sono avvicinato a Pasolini e alla sua poderosa opera, dopo averlo conosciuto e frequentato, provando per lui e il suo straordinario eclettismo - non solo da “pasticheur”, come amava definirsi lui stesso-, una sincera stima e ammirazione: una persona che sapeva trovare spesso le parole giuste per i giovani della mia generazione. Arrivare a Casarsa nel 2009, con queste circostanze alle spalle, trentaquattro anni dopo il 2 novembre 1975, quando Pasolini fu ucciso, avrebbe potuto significare una sensazione che si poteva persino temere: una eccessiva forma di partecipazione, una commossa visita alle spoglie di un vecchio amico intenerita dall’ambiente, da terra e muri, strade e campagne, a cui era tornato senza volerlo, ucciso. Invece, con mia sorpresa, grazie alla premura e alla simpatia degli amici del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa, la visita si è intenerita per ovvie ragioni ma soprattutto per l’occasione offerta da un tema che solo sporadicamente è stato considerato, e che comunque ha trovato qua e là articoli, saggi, interventi, tesi universitarie. Un libro interessante lo ha scritto un giovane studioso, Gabriele Policardo, e s’intitola Schermi corsari - Pasolini in televisione, pubblicato dall’editore Bulzoni; e ad esso si può rimandare per approfondimenti utili. Pasolini e la televisione, beninteso anche in televisione (come vedremo), ecco il tema. Un rapporto che si rivela rivelatore a tanta distanza di tempo dai primi interventi dello scrittore in coincidenza con l’inizio delle trasmissioni avvenuto nel gennaio del 1954.

 

Perché rivelatore? Innanzitutto perché Pasolini trovò il modo di inserirsi nel gran focoso dibattito fra gli intellettuali dell’epoca, intellettuali più contro che pro. La televisione era vista in genere negativamente. Alcuni erano possibilisti, come ad esempio Francesco Alberoni, fra i primi docenti universitari a collaborare con la Rai (la televisione era la Rai, solo la Rai allora), producendo consulenze e ricerche. Altri erano fieri avversari, ovvero tutti presi da una violenta voglia polemica verso la televisione e i guasti che avrebbe provocato. Ad esempio, Elemire Zolla, che era tra i più accaniti, o i seguaci delle posizioni di Adorno e della Scuola di Francoforte: i massmedia visti, senza batter ciglio, freddamente, come assoluti  strumenti di alienazione della massa e soprattutto del singolo individuo. C’era poi la posizione di Umberto Eco che aveva vinto un concorso per entrare alla Rai, la frequentò poco e si dedicò poi agli studi di semiotica; e inventò una contrapposizione rimasta a lungo famosa, quella fra “apocalittici” e “integrati”, ovvero fra i critici catastrofisti e tutti coloro (dipendenti o no della Rai) che lavoravano per la giovane industria televisiva, ne vedevano i pregi e si aspettavano, lavorandoci, un gran beneficio culturale per il paese.

 

Senza essere un “integrato”, il linguista Tullio De Mauro prese posizione - si era già arrivati agli anni Sessanta - riconoscendo che la televisione della Rai aveva contribuito in modo rilevante alla diffusione e all’uso della lingua italiana in una penisola con larghe zone di analfabetismo e di un impiego dei dialetti spesso ostacolo alla comunicazione tra gli stessi italiani.

Pasolini, nel 1966, quando la televisione compiva dodici anni, e si stava affermando con impetuosa consistenza, si espresse con dura chiarezza contro la stessa televisione, suscitando grandi titoli sui giornali per averla paragonata  senza mezzi termini a un campo di sterminio, delle idee, delle coscienze, della sensibilità, e così via. Camera senza gas ma raggi catodici ustionanti. Coerentemente, in quell’anno, proprio il 1966, scrisse un articolo intitolato Contro la televisione, riportato nel 2001 in Tutte le opere pubblicate nei Meridiani. Si tratta di parole che vanno a fondo, costituiscono una lunga epigrafe sulla tomba delle intenzioni che gli “integrati”- ovvero i sostenitori acritici della stessa televisione - predicavano ad alta voce.

 

“La televisione è tutta buona?”, si domandava Pasolini.  E rispondeva: la televisione è bravissima a fingere di essere il medium che unisce, mentre invece è proprio il mezzo che separa. Poi, così concludeva: è il mezzo che separa “esclude i telespettatori da ogni partecipazione politica - come al tempo fascista: c’è chi pensa per loro, e si tratta di uomini senza macchia, senza paura, e senza difficoltà neanche casuali e corporee. Da tutto ciò nasce un clima di terrore. Lo vedo chiaramente il terrore negli occhi degli annunciatori e degli intervistati ufficiali: non va pronunciata una parola di scandalo - e poiché è scandalo anche un mal di pancia - se esso potenzialmente mette in discussione la sicurezza della spiritualità statale - praticamente non può essere pronunciata alcuna parola in qualche modo vera”. È appena il caso di fare un confronto tra quegli anni (la contestazione del 1968 stava montando) e quello che è accaduto dopo, fino ai giorni nostri. Innanzitutto per quando riguarda “gli occhi degli annunciatori e intervistati ufficiali”. Sono cambiati gli uni e gli altri, soprattutto in seguito all’avvento delle televisioni  private, Mediaset in testa, e al conseguente cambiamento di stili e di contenuti dovuto ad una crescente concorrenza oggi sedata almeno in gran parte per le ragioni che sappiamo e che sono negli occhi di tutti.

Gli “occhi” di cui parlava Pasolini sembrerebbero diversi. Gli annunciatori sono stati sostituiti dai giornalisti nei telegiornali e gli intervistati ufficiali hanno cambiato casacche a seconda delle mutazioni elettorali e quindi politiche.

Ma gli “occhi” sono gli stessi. Forse più eccitati, nevrotici, inquieti, ansiosi, o sonnambuleschi quando i giornalisti, o gli annunciatori avanzati dalle stragi del tempo, intervistano gli “intervistati ufficiali”, cioè i portavoce o comunque gli esponenti di partito di maggioranza e di opposizione infilati in hamburger mille sapori di nessun gusto.

 

Atteggiamenti, ieri e oggi, frutto del terrore. Terrore che nasce in costoro perché perfettamente e segretamente consapevoli della insincerità di cui sono soltanto gli esecutori, una sorta di sviluppo di un senso di colpa e di vergogna, ben occultato.

Se costoro tendono oggi a dimostrare autonomia lo fanno quasi sempre non in nome della sincerità ma per rendere meglio il servizio al potere o ai poteri che li controllano e demandano loro il ruolo di controllori del pubblico.

Pasolini era estremo nei suoi giudizi ma conosceva bene le difficoltà proprie della televisione. Le apprese di persona, commentando la “tragedia di Brema”: un incidente aereo in cui avevano perso la vita sette nuotatori della nazionale italiana, un allenatore e un cronista. Fu dominato dal medium che scoprì capace di essere troppo emotivo, cioè portato a suggerire, anzi a imporsi, come interprete soprattutto di generiche emozioni di fronte a fatti troppo naturalistici, realistici. Policardo, riferendo di quel commento alla “tragedia di Brema”, dice che Pasolini risultava stranamente innaturale, nervoso, astratto.

Nessuna meraviglia. Le telecamere del telegiornale, puntate sul volto, in mezzo allo studio con le luci e addetti sparsi ovunque, la regia nascosta eppure presente, possono fare questo effetto. Serve un tirocinio, un addestramento. Fu una prova e una lezione.

 

Come Pasolini recepì la lezione venne dimostrato in diversi modi, nei numerosi programmi e inchiesta che il poeta-regista accettò di fare, o addirittura chiese di fare. Un elenco non lunghissimo, da cui si possono trarre degli esempi significativi.

Partendo dalla prova provata dell’influenza che la televisione non può non avere, Pasolini scelse di lavorarci assecondando le sue straordinarie qualità di narratore anche in campo giornalistico, come aveva del resto dimostrato in un suo film del 1964, Comizi d’amore. Una pellicola che non sarebbe mai stata realizzata se non ci fossero stati otto anni di esperienze televisive compiute dalla Rai arruolando tecnici e registi (non di primo piano) per le inchieste a puntate, i reportage, le rubriche giornalistiche.Il desiderio di entrare nella corrente di immagini con cui la televisione integrava il cinema e tendeva a sopravanzarlo, oltre che per un convinto interesse di carattere antropologico, spinse Pasolini ad occuparsi di un tema che era ben lungi allora, e ancora oggi, dal suscitare una sincera attenzione in Rai: il sesso, un tabù che faceva parte delle cose su cui sorvolare o da omettere, come ce n’erano e ce ne sono ancora tanti, oggi: come la genetica, l’eutanasia.

La televisione degli inizi tagliava via sistematicamente tutto ciò che poteva toccare punti nevralgici del costume, della religione, della vita politica e industriale. Solo con la nomina a direttore della Rai di Ettore Bernabei, democristiano vicino ad Amintore Fanfani, uno dei leader del partito, ci fu una svolta, sia pure prudente.

La televisione, grazie alla fiducia riscossa da Bernabei nell’ambito del partito di quello che allora si chiamava “l’arco costituzionale” (esclusi gli ex fascisti del Movimento sociale italiano), cominciò a promuovere indagini o campagne anche risolute contro la speculazione edilizia o la condizione di miseria e di abbandono nelle campagne, o documentare l’impetuosa immigrazione fra Sud e Nord e relativi fenomeni di razzismo.

 

La televisione poteva attaccare, fare denunce, far sentire la voce di illuminati giornalisti. Ma si arrestava alle prime fermate. Individuava, ma solo di rado andava a colpire i responsabili o alzava i toni della polemica. Pasolini voleva provare con il cinema, rendendolo antagonista e concorrente alla televisione, a spingere più avanti il racconto per immagini calato nella società uscita dal miracolo e dalla “dolce vita”, una società incerta sul futuro che scopriva di avere alle spalle larghe zone di silenzio e d’ombra.

In Comizi d’amore uscì un ritratto dell’Italia che stupì il pubblico, per due motivi. Il primo: il tabù del sesso stava crescendo una generazione di adolescenti ignoranti di tutto, dalla nascita alla verginità, alla procreazione. Il secondo: la paura, addirittura l’orrore per l’omosessualità.

 

Ma la vera novità fu lo stesso Pasolini che, col microfono e l’operatore in presa diretta, girava le sue storie con affabilità, pudore e tuttavia con puntigliosa ricerca della verità sulle persone. Presentava ragazze e ragazzi in sboccio, nei loro quartieri, sulle spiagge, nei luoghi di struscio e di folla; e incontri sui treni, per strada, sempre o quasi all’aperto; interviste, piccole perle, a Ungaretti e Moravia che cercavano anche loro di capire cosa stava succedendo nell’Italia degli anni Sessanta. Il film viene oggi considerato un capolavoro, era un work in progress come si diceva allora. Pasolini mescolandosi, parlando con gli altri, dava il meglio di sé, scriveva una sceneggiatura a sorpresa, poi sistemata dal montaggio.

Il regista aveva già realizzato Accattone (1961)  e Mamma Roma (1962), La rabbia e La ricotta (1963). Dopo Comizi d’amore farà Il Vangelo secondo Matteo. Non era contento della Rabbia, film documentario diviso in due parti, l’altra affidata a Giovanni Guareschi che non approvava. Il suo episodio era preoccupato, teso, ridondante, con pagine molto belle, una delle quali dedicata a Marilyn Monroe, la “sorellina” che aveva visto morire. Per la televisione, in quel gran giro di lavori e progetti, aveva fatto nel 1963 I sopralluoghi in Palestina, sopralluoghi in cui scoprì che la Palestina che cercava, quella della nascita di Gesù, era scomparsa; e, quindi, decise che avrebbe girato il suo Vangelo tra i Sassi di Matera.

Il metodo, in questo documentario di 54 minuti, era simile a quello dei Comizi d’amore: troupe ridotta, un operatore, un fonico, la sua “voce” e il suo “corpo” sottile e robusto in campo e fuori campo per il commento e per le interviste; e, infine, un’auto per viaggiare da un punto all’altro nell’ antica Terra Santa che Pasolini cercava di ritrovare, invano. Ma se la delusione cresceva, a mano a mano che i sopralluoghi consumavamo benzina e giorni, una convinzione si era fatta definitivamente strada nel Pasolini televisivo, girando in Palestina.

 

Per la televisione, com’era allora, bisognava essere discreti, riservati, sperare nella distrazione dei supercapi e dei dirigenti; occorreva capire gli spazi pratici e soprattutto mentali,  di disponibilità e cioè di apertura, per condurre in porto un progetto. Il cinema era una tavolozza d’artista. La televisione un piccolo schermo potente in cui si poteva badar bene a cosa si diceva e come si appariva.

Pasolini continuò con accanimento le esperienze di reportage televisivi. Nel 1968 girò Appunti per un film sull’India, nel 1969, Appunti per un’Orestiade africana e nel 1970, Le mura di Sana’a nello Yemen. Viaggi orientati da film che farà o che sperava di fare. Era la televisione che gli piaceva fare e non si negava a interviste anche lunghe su tutti i temi “corsari” su cui studiava, in particolare il consumismo e i giovani usciti dai suoi “comizi d’amore” e finiti in altri amori, in altri problemi.

 

Poi arrivò il momento in cui la riflessione di Pasolini si espresse nettamente, in modo concreto. Lo si seppe, lo si capì dopo la sua morte il 2 novembre 1975.

Quattro anni prima Pasolini, famoso e discusso, aveva accettato l’invito di Enzo Biagi, prestigioso giornalista, conduttore televisivo, per partecipare alla trasmissione Terza B: facciamo l’appello, 1971.

Entrò negli studi di via Teulada a Roma il 27 luglio dello stesso anno, e si sedette accanto ai compagni di scuola del Liceo Galvani di Bologna che aveva frequentato. Entrò. Ma la trasmissione non comparve sul piccolo schermo.

Che cosa era accaduto? La messa in onda era stata sospesa per una vicenda giudiziaria che coinvolgeva lo stesso Pasolini quale direttore responsabile di Lotta Continua. Avverrà appunto quattro anni dopo.

Nel 1975, all’indomani del giorno funesto dell’uccisione a Ostia, Terza B: facciamo l’appello venne ripescata e trasmessa fra i ricordi dedicati al poeta-scrittore-regista- corsaro. 

Si capì che quell’ apparizione in ritardo scavalcava la circostanza della memoria e dell’omaggio, andando dritta al cuore del problema dimostrando una volta per tutte come Pasolini vedeva la televisione.

Biagi gli chiede un suo parere sulla trasmissione.

Pasolini risponde con queste precise parole: “Con i miei amici (i compagni di scuola, ndr ) per fortuna siamo riusciti ad andare al di là dei microfoni e del video, e a ricostituire qualcosa di reale, di sincero, ma come posizione, la posizione è brutta, è falsa”.

Biagi gli domanda perché.

Pasolini: «La televisione è un medium di massa, e il medium di massa non può che mercificarci e alienarci».

Biagi: «Ma oltre ai formaggini e al resto, come lei ha scritto una volta - ‘questo mezzo ci porta soprattutto dei formaggini in casa’-  esso porta qui e adesso le sue parole: noi stiamo discutendo tutti con grande libertà senza alcuna inibizione, o no?»

Pasolini: «Non è vero»

Biagi: «Si, è vero, lei non può forse dire tutto quello che vuole?»

Pasolini: «No, non posso dire tutto quello che voglio…»

Biagi: «Lo dica!»

Pasolini: «No, no potrei perché sarei accusato di vilipendio, uno dei tanti vilipendi del codice fascista italiano, quindi in realtà non posso dire tutto; e poi a parte questo, oggettivamente di fronte all’ingenuità o alla sprovvedutezza di certi ascoltatori, io stesso non vorrei dire certe cose; quindi mi autocensuro…»

Il dialogo va avanti ma i due interlocutori non solo non si capiscono, ma hanno idee, sensibilità e attenzioni diverse. Biagi è un giornalista che vuole il risultato, vuole che l’ospite aderisca al suo progetto. Per Pasolini la televisione configura un rapporto di subalternità per chi è davanti al video, molto di più di quanto non avvenga con tutti gli altri mass media.

 

Un dialogo esemplare, che fa effetto. Oggi nella televisione, anzi nelle televisioni tutto sembra consentito. Si va più in là rispetto a una situazione in cui la Rai era la sola padrona del campo. Oggi le televisioni sono molte ma non pare che ciò significhi pluralismo, al contrario, spesso testimonia una circolazione di parole, persone, contenuti, posizioni a senso unico. Ieri la Rai, voce unica, preoccupava Pasolini per la sua autorità senza confronti. Oggi Pasolini, sulla base di un passaggio del dialogo, avrebbe tutte le ragioni per affermare un dato indiscutibile: la tendenza delle televisioni a mantenere un livello per sprovveduti, in cui ogni argomento sembra intrecciarsi all’altro, e proporre una lunga farsa in nome dell’intrattenimento che si aggiudica ogni genere televisivo, dai dibattiti alla fiction.

Diavoli (le storie di mafia) e Santi (le numerose biografie) rientrano in uno sfaccettato supercontenitore dove l’amalgama ha un solo ingrediente: puntare al maggiore ascolto, in nome di un alibi, uno qualunque, anche ipocrita.

Quel che resta fuori dall’amalgama, langue in orari impossibili e a poco a poco scompare.

«No, non posso dire quello che voglio», sosteneva Pasolini. È ancora vero. Si dice di tutto nelle televisioni, con le parole e le immagini. Ma tutti noi sappiamo che altre parole, altre immagini, parole vere, immagini vere, restano fuori, o prendono le briciole cadute dalla gran tavola dei Formaggini & cibi & alcolici. La tavola dello show permanente.

Pasolini preferiva farla, la televisione, secondo il suo talento; avrebbe continuato ma non avrebbe cambiato idea sulla questione di fondo: «No, non posso dire tutto quello che voglio».

 

 

 


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