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Stefano A. Moretti

Stefano A. Moretti, Arcadia maledetta. «Ismenia»,«La Tempesta» e l’utopia cortigiana di Giovan Battista Andreini

Data di pubblicazione su web 24/11/2009
Miranda e la tempesta (John William Waterhouse, 1916)

1. Cronologia andreiniana: Ismenia e gli anni della maturità.

Stampata a Bologna nel 1639, Ismenia, opera reale e pastorale è frutto della piena maturità dell’attore drammaturgo Giovan Battista Andreini e rappresenta, nell’arco della sua produzione, un’importante svolta poetica e stilistica; rispetto alle commedie e ai drammi sacri degli anni Venti, Ismenia risente del progressivo e deciso avvicinamento di Andreini al gusto di metà Seicento, rivolto verso il teatro musicale: sono gli anni d’oro del melodramma italiano di Monteverdi e Rinuccini e Ismenia – sin dal titolo l’unica vera “opera” di Andreini – è composta interamente in versi cantabili, principalmente quinari doppi, senari e ottonari.[1] Con questa apertura all’opera in musica si conclude la fase bolognese dell’attività del comico fiorentino, tornato nella città dove aveva compiuto gli studi giovanili dopo la disfatta di Mantova e la morte della prima moglie, Virginia Ramponi, avvenuta durante la peste del 1631. A Bologna Andreini aveva da poco dato alle stampe altre due commedie di ambiente pastorale, La Rosella e Li duo baci, che rompevano un silenzio calato dopo la grande fecondità degli anni parigini (1624-1626) e interrotto solo a sprazzi da rifacimenti di antichi successi come L’Adamo o La Maddalena.[2] Si può dire inoltre che Ismenia sia l’ultima importante creazione drammatica che Andreini diede alle stampe; la seguono infatti soltanto alcune riedizioni delle due opere appena citate (L’Adamo stampato a Perugia nel 1641 e La Maddalena, ormai in forma di vero e proprio melodramma, a Milano nel 1652). Negli anni a venire il capocomico Fedele pubblicherà un ponderoso poema in ottava rima, L’Olivastro, ovvero il poeta sfortunato (Bologna, 1642) e brevissime opere encomiastiche vergate durante il terzo e ultimo soggiorno parigino – in occasione del quale stilò per il cardinale Richelieu la copia manoscritta della Ferinda (1647) oggi conservata alla Bibliothèque National de France – mentre la sua ultima grande opera, immensa per dimensioni e densità, Il nuovo risarcito Convitato di Pietra, non avrà mai l’onore del torchio.[3] Le pastorali composte nel decennio bolognese e in particolar modo Ismenia dimostrano dunque quanto questo periodo – ancora poco studiato – segni un decisivo e radicale cambiamento nella produzione drammatica del «più grande drammaturgo italiano del Seicento».[4] In questi lavori della maturità Andreini rielabora, in una nuova veste stilistica, alcuni temi presenti nelle sue opere sin dalle prime prove giovanili; tra questi il più cogente, quello che meglio s’attaglia all’opera pastorale, è il rapporto tra individuo e società, che per il comico dell’Arte si esprime nel desiderio di affrancare sé stesso e i propri sodali dall’ostracismo che li condanna a errare fuori dalle mura della città – intesa come complesso politico, sociale e religioso – fondando, dopo aver abbandonato i sogni delle arcadie letterarie, una nuova utopia cortigiana.

2. Ismenia e La Tempesta: il teatro barocco e l’isola di Utopia.

A chi scorra, anche soltanto sommariamente, la descrizione delle vicende che animano la scena di Ismenia tornerà presto alla mente una delle più note e belle commedie romanzesche dell’epoca barocca, La Tempesta di William Shakespeare.[5] Le similitudini, ma sarebbe meglio dire le specularità, sono molteplici: nell’opera di Andreini la scena è un’immaginaria e arcadica Irlanda, mentre Prospero, Miranda e Caliban vivono su una misteriosa isola del Mediterraneo, sulla rotta tra Tunisi e Napoli; la figura magica che governa questa terra esotica non è quella di uomo ma di una maga, regina d’Inghilterra. Entrambi però sono stati spodestati e vogliono vendicarsi dell’usurpatore uccidendone il figlio primogenito; per farlo ambedue evocano una magica tempesta che riversa il giovane principe e il suo seguito sulle coste del proprio regno incantato. Questa perfetta specularità ci incuriosisce perché apparentemente priva della possibilità che vi sia, tra le due opere, alcuna “influenza” diretta; per quanto ne sappiamo il comico fiorentino non visitò mai l’Inghilterra né ebbe alcuna conoscenza del suo idioma, mentre abbiamo notizie inconfutabili della presenza di almeno una compagnia inglese (con un buffone di nome Bickelhäring o Picklehering) a Praga nel 1628 in occasione delle nozze tra Eleonora Gonzaga e l’imperatore Ferdinando II Asburgo, proprio mentre i Fedeli di Andreini seguivano la corte imperiale per recitare La Maddalena e altre opere di successo. Sappiamo anche da una testimone d’eccezione, l’arciduchessa Maria Anna, che erano gli italiani a farla da padroni, per ricchezza delle rappresentazioni e per bravura delle attrici e delle maschere.[6] Si potrebbe quindi avanzare l’ipotesi, tutta da verificare, che Andreini abbia potuto assistere in quell’occasione alla messa in scena di un dramma di ispirazione shakespeariana, se non proprio della Tempesta. Che Andreini conoscesse o avesse avuto notizia diretta del dramma inglese è certo un’ipotesi affascinante e un intrigante spunto di ricerca, ma non sarebbe in fin dei conti necessario per individuare la fonte comune dalla quale i due commediografi attinsero questo intreccio drammatico. Shakespeare, come Andreini, ricavò gran parte della trama per la sua tragicommedia romanzesca dagli scenari della Commedia dell’Arte, giunti in Inghilterra sul finire del XVI secolo per opera di compagnie italiane come quella di Tristano e Druisano Martinelli, che per molti anni furono capricciosi ma assidui collaboratori di Andreini.[7] Già all’inizio del secolo scorso Ferdinando Neri individuava la fonte della Tempesta in alcuni scenari raccolti da Basilio Locatelli tra il 1618 e il 1622 nel manoscritto casanatense 1212: La pazzia di Filandro, Il gran mago, La nave e Li tre satiri.[8] In quasi tutti questi scenari i personaggi provengono da Napoli e naufragano su un’isola dominata da un mago astrologo, che governa i sentimenti dei malcapitati naufraghi per mezzo di cerchi incantati o di ghirlande magiche. In un altro scenario, L’Arcadia incantata, raccolto da Placido Adriani nel 1734 e reso noto da Benedetto Croce alla fine dell’Ottocento, Pulcinella riesce fortunosamente a entrare in possesso del libro magico del mago e diventa per poche scene re d’Arcadia, coronando idealmente il progetto di Caliban di rubare e distruggere il libro di Prospero;[9] infine, “il gran mago” dello scenario omonimo si chiama Elisabatto, curiosa assonanza che rimanda a cose d’oltremanica e al tempo stesso spiana la strada alla metamorfosi che dal mago degli scenari e della Tempesta porterà alla maga di Andreini. Trasformazione che non ha quasi precedenti, poiché rarissimi sono gli scenari dove sia una maga a dominare la scena isolana combattendo contro un mago, come avviene in Ismenia; un caso, forse unico, nel quale si trova questo schema è da rintracciarsi nella Rosalba incantatrice, opera eroica, scenario raccolto nella XLIV giornata de Il teatro delle favole rappresentative (1611) di Flaminio Scala. Nella Rosalba ci sono una maga (l’eponima, figlia di un mago ucciso) e un mago rivale, signori di due isole – l’«isola felice» e l’«isola verde» – ma non v’è traccia di tempeste e ambientazioni arcadiche.[10]

L’opera di Shakespeare non è qui convocata per inscenare un processo probatorio o una comparazione pedissequa, che potrebbe solo sminuire e gettare nell’ombra, passo per passo, l’invenzione di Andreini. La lettura interlineare dell’Ismenia e di un’opera di tale levatura vale semmai come l’introduzione di un liquido di contrasto, che faccia risaltare come in molti luoghi il lavoro di Andreini, radicandosi nella tradizione letteraria, dialoghi al tempo stesso con le voci più sensibili della letteratura europea dell’epoca. Di estrema utilità risulta poi essere la vastissima dote critica che l’opera di Shakespeare porta con sé, soprattutto in rapporto ai temi dell’utopia, del rapporto tra arte e natura, della magia: questa ricca messe di teorie e interpretazioni potrà servirci come quadro teorico di riferimento nell’analisi di un tipo di testo cui assai di rado si guarda attraverso le lenti della critica letteraria. Scorrendo Ismenia e soffermandoci su alcuni suoi tratti salienti, sarà possibile porre in rilievo i tre principali nodi tematici attorno ai quali l’opera è costruita: il rapporto tra corte e utopia arcadica, il rovesciamento dell’idillio e la necessità di una “anti-arcadia” –ovvero di un ritorno a una civiltà pacificata – e lo scontro tra scienza e natura, qui presente sotto forma dell’allegorica lotta tra magia nera e magia bianca, tra elemento maschile e femminile.

Dopo un prologo propiziatorio – un masque durante il quale Venere e Flora, d’accordo con Giunone, riportano sull’isola d’Irlanda amore e fertilità – l’opera si apre con l’abbandono delle vesti cittadine da parte dei tre protagonisti maschili, Filando, Learco e il dottore bolognese Cerchiofalo Balestroni. Il principe Filandro abdica per primo alle sue prerogative reali, abbracciando lo stato libero e egalitario degli arcadi; la scelta è dettata da ragioni politiche e personali, poiché all’amore per la ninfa Lilla si intreccia il desiderio di abbandonare l’urbanità corrotta della corte e di stabilirsi per sempre in una terra ancora selvaggia:

Quivi solo Natura

tien lo scettro e governa;

qui pompa umil e pura

fa di sé stessa in adorare i siti;

abiti, leggi e riti

da lei son dati, onde si gode a pieno

stato di libertà lieto e sereno:

che folle è ben, chi crede

felice sol chi in maestà risiede.

La rosa porporata,

perch’è regina, fra le spine è nata,

vive ogn’or fra le spine

d’insidie e tradimenti

esposto a le ruine,

colui che siede in eminente soglio;

che l’uom ch’altri governa, a tutti è servo

e solo è vero duce,

chi gli armenti conduce […].

Di prencipe e signor più non agogno

il grado altiero e vano;

che di pastor lo stato

conoscendo felice anzi beato,

fuggo, sprezzo, aborrisco

le superbe città d’insidie piene

e per stanza m’elleggo

i lieti boschi e le campagne amene.[11]

Poco oltre, al termine di questa lunga tirata, Filandro depone gli abiti regali; nel farlo evoca un’immagine ampiamente diffusa nella cultura del Seicento, da Calderón a Pascal, la raffigurazione del potere terreno e della vita umana come sogno, illusione:

Ecco tratta in disparte

real pompa e superba;

vuò che porpore, bissi ed aurei fregi

saio di bianco lin fugga e dispregi.

Già di lorica marziale in vece,

cinga lanuta pelle

il mio dorso e ‘l mio seno;

non più d’atro veleno

d’ambizioso affetto il cor m’ingombra,

stato real stimando un sogno, un’ombra.[12]

Per amore della libertà e delle ninfe irlandesi Filandro e i suoi due compagni accettano di deporre i vessilli del potere temporale, militare e culturale per abbracciare lo stato di natura. Il dissidio tra corte e Arcadia è il motivo dominante di tutta la letteratura pastorale e richiama da sempre il desiderio di fuggire la corrotta società contemporanea verso un rifugio dove si possa rivivere la mitica Età dell’Oro, regno di pace, abbondanza e giustizia.[13] Già nell’antichità il mito di una terra dove scorrono fiumi di latte e miele e gli uomini vivono in pace si è legato a quello di un “non luogo” lontano e difficilmente raggiungibile, e dalla impervia regione ellenica dell’Arcadia si è passati a immaginare, come scenario di questa idilliaca realtà, isole esotiche; ma si deve a Thomas More l’aver per primo sancito, nel 1516, il legame tra Utopia, Arcadia e insularità, inaugurando un lungo e fortunato connubio tra isole britanniche e isole utopiche. Sempre in Inghilterra, con Shakespeare, troviamo il secondo esempio celebre di un’isola utopica già in odore di esotismo coloniale, come quelle descritte da Defoe, Swift, Stevenson, Conrad e Barrie sino a quelle, situate nel mare del cosmo, della letteratura fantascientifica. Subito dopo Shakespeare, Francis Bacon immaginerà una tecnocratica e puritana Nuova Atlantide (1623, postumo), modello delle distopie tecnocratiche e totalitarie dei secoli successivi. Come ha notato Carlo Pagetti, il particolare rapporto tra Albione e Utopia è quello tra l’isola utopica e l’isola reale, tra una società ideale – pacifica, ricca ed equa – e la corrotta società moderna, violenta e dominata dalla falsità e dall’apparenza;[14] la Milano di Prospero e la Scozia di Andreini sono come l’isola distopica, lo hortus conclusus della corte d’Antico Regime dal quale fuggire alla volta di una terra incontaminata e giusta.[15] La possibilità di raggiungere “qui e ora” le isole felici riveste un ruolo fondamentale nella storia di Utopia, come avremo modo di vedere meglio in seguito; per ora basti notare come le isole britanniche si prestino anche in Andreini ad assumere il ruolo di terre al tempo stesso pastorali e cortigiane: cittadina la Scozia, arcadica l’Irlanda.[16]

La descrizione della corte fatta da Filandro nel brano citato, ripresa da Learco nella seconda scena dell’atto secondo,[17] è un’eco del noto passo de Il pastor fido di Guarini – autore ben noto a Shakespeare, se non direttamente, attraverso la Faithful Shepherdess (1609-1610) di John Fletcher – in cui Carino definisce i cortigiani: «gente sol d’apparenza, in cui se miri / viso di carità, mente d’invidia / poi trovi, e ‘n dritto sguardo animo bieco / e minor fede allor che più lusinga».[18] Chi ha speso parole importanti sul rapporto tra dramma pastorale, natura, storia e corte assolutista è stato Walter Benjamin nell’Origine del dramma barocco tedesco:

Si tocca allora la questione, ma non alla radice, quando si afferma: «[…] la natura è per il Barocco un’uscita dal tempo, la problematica delle epoche posteriori gli rimane estranea». Anzi: proprio nel dramma pastorale risulta evidente la peculiarità delle rêveries barocche sull’ambiente agreste. Perché nella fuga dal mondo propria del Barocco non è l’antitesi fra storia e natura ad avere l’ultima parola, ma la secolarizzazione senza residui dell’elemento storico nello stato creaturale. Al desolato corso della storia universale non si contrappone l’eternità, ma la restaurazione di una atemporalità paradisiaca. La storia emigra sulla scena.[19]

La secolarizzazione della storia nello spazio della scena pastorale, fitta di alberi e fonti sui quali gli arcadi incidono i loro nomi e i loro amori, determinerà secondo Benjamin la morte del dramma barocco; il trionfo della spazialità, a cui si deve il successo della coreografia, del melodramma e del balletto sui palcoscenici europei a partire dalla metà del Seicento, è un fenomeno evidente nell’Ismenia, nettamente caratterizzata, rispetto alle precedenti opere di Andreini, in senso musicale e melodrammatico. Lo stesso apparato pastorale che riveste le isole arcadiche del teatro barocco è pura scenografia, che fissa su un fondale dipinto, nella rappresentazione convenzionale di un’Arcadia di cartapesta, il sogno di un Paradiso senza tempo. Tuttavia il recinto del palcoscenico e l’isola che in esso si finge, rimandano a un territorio possibile, utopico ma esistente, se non altro come negazione, contrasto o ipotesi alternativa all’isola della corte, dalla quale si immagina di fuggire pur restandovi dentro.[20]

La libertà arcadica non è però senza condizioni e gli aurea regna non sono solo rose e fiori; la prima essenziale deroga alla propria identità urbana viene accettata di buon grado, abbiamo visto, dai cortigiani scozzesi e dal dottore italiano, ma la seconda condizione è più dura da sopportare: in quanto arcadi essi dovranno portar fede a Diana restando casti. Il tema della limitazione erotica è affrontato nell’opera di Andreini in tutti i suoi risvolti, mostrandone le conseguenze in tutti gli strati della piramide sociale, dai principi ai servi. Così inizialmente anche Arlecchino – che, con un ironico rimando evangelico viene apostrofato, lui che in scena è incarnazione dell’elemento mercuriale e erede dei demonî delle diableries medievali, «re de’ pescator» da una «truppa di Giovanetti Pescatori, Cacciatori e Uccellatori»[21] – aderisce alle leggi della casta Diana e rifiuta le avances della serva Bernetta, scollacciata e calorosa come in tutte le opere di Andreini dov’era prevista la presenza di Urania Liberati, titolare del ruolo.

L’impeto erotico, declinato con la voce e il corpo di Bernetta nel modo della comicità popolare, pervade tutta la commedia e sarà, negli ultimi due atti, il principale terreno di scontro tra Ismenia e il suo avversario, il mago Ruspicano. Il tradizionale scontro tra Diana, Venere e rispettivi campioni appare qui come elemento topico dell’intrattenimento nuziale, delle mascherate e dei balletti imenei composti e rappresentati in occasione dello sposalizio di qualche aristocratico; tuttavia, sotto l’apparenza di un motivo di genere, la lotta tra le pulsioni vendicative e quelle conciliatorie, che si esprime nel contrasto tra eros e thanatos, tra magia bianca e magia nera – qui rappresentata nella battaglia tra Ruspicano e Ismenia e in quella tra Ismenia e la figlia Lilla, amante di Filandro – rivela un profondo conflitto interno a ogni personaggio, ciascuno alle prese con la negazione coatta e deliberata delle proprie pulsioni. A questa lacerante conflittualità alludono altri due espedienti drammaturgici appartenenti al canone del teatro pastorale e di magia, che occupano quasi interamente il secondo e il terzo atto dell’opera: l’incantesimo del cerchio magico nascosto, che trasforma ogni amante che vi entri in nemico, e l’irruzione di satiri o mostri, che legano i personaggi a un albero, talvolta per violarne la castità. Ciò avviene per esempio nell’ottava scena dell’atto secondo, nella quale alcuni satiri interrompono l’idilliaco ricongiungimento del gruppo di naufraghi – composto da Arlecchino, Bernetta e Dottore – con Pantalone, che essi credono morto da tempo, legandoli agli arbusti circostanti. Le lamentazioni delle quattro maschere costrette ai tronchi degli alberi sono un’ammiccante e sboccata parodia dei tristi accenti della Silvia tassiana, evidente soprattutto nelle rime – forse cantate – di Bernetta: 

Son legata a questi rami,

come vacca da macello

parmi il satiro che chiami

altri satiri al flagello,

quest’è peggio che al bordello

ad un sol mostrarsi nuda,

se ad un stuol di gente cruda

scoprirò le membra oneste,

le più occulte manifeste

devrò far, così costretta,

o povera Bernetta.[22] 

Sarà, subito dopo, Ismenia – mandante segreta dei satiri rapitori – a liberare gli sfortunati naufraghi dalle «ritorte de’ giunchi e de’ vincastri», ma solo per ordire un nuovo e più astuto inganno. Offrirà infatti cibo e bevande ai malcapitati, ma non appena essi cercheranno di gustarle, dalle vivande nasceranno fuoco e fiamme. Questa continua e reiterata sottrazione dell’oggetto dei desideri si protrae anche nelle scene successive, nelle quali Ismenia mette in opera l’incantesimo del cerchio malefico, attributo e segno distintivo della negromanzia: 

Questo cerchio fatale

sotto l’erba nascondo,

come tra l’erbe e i fiori

suol starsi angue mortale.[23]

Anche questa volta Andreini nasconde tra i versi una citazione illustre, un’immagine a lui cara sin dagli esordi letterari.[24] La matrice del verso è da cercarsi nella più alta poesia pastorale, nel virgiliano «latet anguis in herba» (Ecl., III, 93) e nelle sue germinazioni, proverbiali e liriche:[25] questa immagine, attraverso la celebre terzina dantesca sulla Fortuna, «per ch'una gente impera e l'altra langue, / seguendo lo giudicio di costei, / che è occulto come in erba l'angue» (Inf., VII, 82-84), giunge al modello più prossimo all’Andreini, il Petrarca del Canzoniere, dove si dice che «[q]uesta vita terrena è quasi un prato / che’l serpente tra’ fiori et l’erba giace» (RVF, XCIX, 5-6) e dove Laura, novella Euridice, se ne va «per entro i fiori et l’erba», ma «punta poi nel tallon d’un picciol angue, / come fior colto langue» (RVF, CCCXXIII, 61 e 69-70), e – alquanto significativamente – del Trionfo d’Amore: «so come sta tra' fiori ascoso l'angue, / come sempre tra due si vegghia e dorme, / come senza languir si more e langue» (Tr. Cup., III, 157-159).[26]

Alla costrizione fisica e all’incanto si devono sommare, tra gli impedimenti che i personaggi sono costretti a superare, anche le beffe che le ninfe Lilla e Nisa ordiscono ai danni dello zanni Pedrolino e dei vecchi Dottore e Pantalone; così come il primo atto termina con il gioco della mosca cieca, proposto dalle due solo per gettare i tre comici in pasto ai satiri, il terzo si chiude con un’estenuante gara di canto, durante la quale Lilla, esperta d’incanti come la madre, addormenta la brigata.

La ricerca dell’appagamento del desiderio erotico puntualmente deluso è certo un espediente comico di sicura efficacia, ma è anche, come si diceva, uno scontro interiore tra pulsioni e censure; via via che le costrizioni aumentano, aumenta anche il desiderio di una soluzione armonica. Secondo la legge intrinseca della tragicommedia, raggiunto l’apice del dramma e della sofferenza non si può far altro che cambiar pagina e volgere alla ricomposizione lieta del finale; in tal modo, il percorso “catartico” che ciascun personaggio dell’Ismenia intraprende grazie alla commedia stessa e alle forze che Ruspicano rappresenta è del tutto simile o coincidente con il processo di purificazione dalle passioni previsto dalla filosofia neoplatonica rinascimentale e barocca, che anima secondo Frank Kermode e John Mebane anche La Tempesta di Shakespeare e il suo contenuto magico.[27] Una volta sull’isola, Prospero sconfigge Sycorax e le potenze ctonie che ella domina e usurpa il potere del vero padrone dell’isola, il selvaggio Caliban, cercando poi di educarlo e civilizzarlo; educazione cui è soggetto lo stesso Prospero, che attraverso lo studio e la conoscenza dell’arte magica riesce a eliminare da sé tutti gli impulsi vendicativi, acconsentendo nel finale dell’opera alla liberazione di Ariel e dei naufraghi prigionieri; secondo Kermode, il libro e la magia sono per Prospero, uomo di corte saggio e colto, il mezzo della Grazia, la tecnica che permette di dominare il proprio sé più violento e le asperità della natura circostante.[28] Nell’arduo percorso verso l’armonioso superamento delle passioni, anche il cerchio magico tracciato da Ismenia, provocando un rapido avvicendarsi di sentimenti contrari, permette agli amanti di provare sulla propria pelle la neoplatonica unione degli opposti; appena uscito dal cerchio, Arlecchino è in preda a bruciori e brividi allo stesso tempo:

Mo che fredd, mo che fogh hoi in la panza?

Donca ‘sti do contrari po’ abitar

denter da un vas istess,

e in t’un medesem punt,

com’i fa in dol me corp adess apunt?[29]

3. Ruspicano e Prospero «Maghi de’ nostri tempi».

L’approdo, o meglio, l’atterraggio del mago Ruspicano sulla scena comporta due importanti cambiamenti nella struttura dell’Ismenia. D’improvviso le leggi d’Arcadia, fino a poco prima terra idilliaca, si rivelano davvero impossibili da rispettare; scostando un poco la scena paradisiaca, ci si trova tra le mura di una insopportabile prigione. Sono soprattutto i personaggi comici a dar voce a questo mutamento repentino, al desiderio impellente di tornare a casa; se Arlecchino dichiara «mi de ‘st’Arcadia son stuff in maniera / de pastor, e de sgninfe / sì che Diana, Vener e’l so Amor, / ho deposta in d’ol bus d’ol chigador»,[30] il dottor Balestroni rimpiange Bologna e gli amati libri, mentre Pantalone, pragmatico come ogni buon mercante, già a metà del terzo atto progetta una fuga per mare:

 […] el besogna

scampar da ‘sti confini.

Mi tentarò el remedio,

se i altri nostri vorrà seguitarme;

e spiero in la fortuna,

che tutti salvi tornaremo in Scozia.[31]

Il secondo grande movimento che Andreini imprime agli ultimi tre atti dell’opera è una netta virata verso il dramma romanzesco o, prendendo a prestito un termine della critica anglosassone, verso il romance;[32] con un gesto tipico della drammaturgia dei comici dell’Arte della seconda generazione, Andreini attinge al poema ariostesco come a una ricca fonte di personaggi e temi di sicura presa sul pubblico, rielaborandone i contenuti nell’ottica della riforma teatrale che egli cercò di compiere nel lungo arco della propria carriera. Dopo l’ippogrifo di Astolfo, col quale Ruspicano sembra piombare direttamente dal mondo del Furioso all’Irlanda di Andreini, l’altro motivo ariostesco messo in campo è la follia di Orlando, qui ripresa quasi alla lettera nella furia del generale Learco che, vistosi inaspettatamente rifiutato da Nisa, distrugge ogni cosa capiti sul suo cammino:

 

Lè ol zeneral Learch

ch’el gh’è callà ol cervell,

e si è vegnù furius d’una manera,

ch’el và de dì, e de nott

ficcandes per i bosch e per le grott

e si el se butta a tutt color, che’l catta

e ghe dà d’i sgrugnù,

d’i calz e morsegù,

sì che ogn’un per fuzì da sto bestial

s’ascond e fin s’attuffa in te i canal.[33]

 

Con il sostegno del mago cortigiano, i cittadini vedono finalmente la possibilità di una riscossa; dopo Learco – che solo dopo aver sofferto e sconfitto la furia amorosa può essere eletto campione degli scozzesi – anche le maschere imbracciano le armi smettendo gli abiti lanuti; ormai la trasformazione dell’isola Ibernia da Arcadia a inferno in terra è completa.[34] L’ultima sequenza dell’opera è animata dallo scontro finale tra le forze urbane e benigne di Ruspicano, Learco e degli altri scozzesi, e quelle maligne, composte da Ismenia e dal suo seguito infernale. Dopo le ridicole cascate di Arlecchino e Pedrolino e le improbabili armature del Dottore e di Pantalone, assistiamo allo scontro cavalleresco tra Learco e Ulfone, campione “nero” di Ismenia. Vincendo, il generale scozzese preannuncia la sconfitta della maga Ismenia, che in un ultimo atto di forza prega Nettuno e Giove affinché sommergano Ruspicano e rinserrino tutti nel suo palazzo d’acciaio. Di gran lunga più forte, Ruspicano non teme Ismenia come maga, ma da onesto cortigiano rispetta in lei la regina; inginocchiatosi ai suoi piedi, le concede un’ultima possibilità prima dello scontro finale, suggerendole di por fine alle ostilità permettendo a Ermilinda di sposare Filandro. Nella battaglia che segue il potere “nero” di Ismenia risulta inefficace; Ruspicano sconfigge i demonî, «si cava un focile dal seno» e «batte fuoco».[35] Si rivela così essere un mago di teatro, la cui Arte è un’arte scenica e scenotecnica, proibita alle donne:

 

Ecco il focil fatale,

ch’ognor nel seno i porto,

con cui l’incendio al petto tuo trasporto.

Or da maestri impara

di quest’arte tremenda

le regole sicure,

o ver t’impiega a le donnesche cure.[36]

Seguono tuoni e piogge, infine la scena cala nel buio assoluto. Al termine di questo scontro, quando il palcoscenico torna a illuminarsi, la rocca è sparita, restano i due maghi in ginocchio. Ruspicano fa quindi parte a pieno titolo dei maghi teatrali descritti da Andreini ne La Ferza del 1625; maghi solo per finta, la cui magia si limitava al credito che gli spettatori concedevano alla scenotecnica e all’azione drammatica. Era però forse questa sospensione d’incredulità propria del teatro a indispettire i censori più severi, che accusavano i commedianti di essere coinvolti in vere pratiche occulte solo perché con le loro magie sceniche smascheravano il meccanismo della persuasione, turbando il dominio sul soprannaturale del quale la Chiesa cattolica e i suoi ministri dovevano essere gli unici detentori. Così rispondeva Andreini a quei predicatori, regalandoci la descrizione dei movimenti che macchinisti e maestranze di palcoscenico avrebbero poi dovuto operare durante questa scena dell’Ismenia:

[…] se i Maghi de’ nostri tempi lampi formano, son fuochi aerei e finti; se oscurità, nascondimenti di facelle; se tuoni, palle di legno che sovra alti solai rotolare e strepitar si fanno; se pioggie, sono gravide spugne, che spremute cagionano dell’acque l’abbondanza; se grandinar si veggano le tempeste importune, sono confetti dolcissimi, che per l’appunto a nembi diluviar si fanno; finti alfine gli incanti, come finte l’ombre, come finti i sepolcri e tutta finta la tela della drammatica finzione.[37]

Anche Ruspicano è un finto mago, la sua scienza è un’efficace e fantasiosa tecnica teatrale. Già in questo avremmo un ennesimo punto di contatto con la tragicommedia shakespeariana; la magia di Ruspicano, come quella di Prospero, non è però solo quella di un regista che governa le apparizioni delle divinità dei masques, essa si avvale di un «focile» che somiglia molto all’«arco buso» ariostesco, simbolo della scienza e della tecnica moderne che sconfiggono e annichilano le armi e i valori dell’antica cavalleria e, con essi, tutto il mondo passato.[38] Con la stessa tecnica, dominata dall’uomo di corte, Prospero sconfigge Sycorax e Ruspicano costringe Ismenia a tornare sui propri passi, convincendola a sposare il suo antico nemico Aidano, re di Scozia, per dedicarsi a occupazioni più femminili della negromanzia, come la cura del marito e della figlia. Ismenia non è una maga indigena o semidivina come Circe, ma come Sycorax viene dal vecchio mondo e al vecchio mondo infine ritorna. Come una maga delle antiche fiabe fornisce di un “aiutante magico” – un «velo d’oro» che ricorda il celebre dono magico di Medea a Giasone – il proprio paladino, il guerriero semiferino Ulfone.[39] Questo nome compare anche nell’Orseide, uno scenario contenuto nel Teatro delle favole rappresentative di Scala; qui Ulfone è un ibrido, animalesco re d’Arcadia, nato dal connubio tra una nobildonna, Dorinda, e un orso dei monti; nel mondo degli scenari dell’Arte, Ismenia è legata da un patto cavalleresco a una creatura indigena, parzialmente bestiale, che partecipa delle potenze ctonie dell’isola. Attraverso l’uso dei codici e del linguaggio della cavalleria, la sua figura s’arricchisce, a differenza di quella di Sycorax, delle suggestioni dei grandi poemi cinquecenteschi italiani e del nuovo melodramma; se pure la sua magia attinge a tratti alle tinte fosche di un immaginario nord, ella resta pur sempre erede delle Circi e delle Medee del teatro classico e cinquecentesco italiano e ancor più delle grandi maghe dei poemi cavallereschi; in ogni suo gesto, Ismenia non perde mai il ricordo di Alcina e di Armida.[40]

4. Nostalgia di casa. In viaggio verso l’utopia cortigiana.

Il ricorso al romance, inteso da Northrop Frye come strumento alternativo alla classica divisione dei generi letterari, a comune denominatore tra Ismenia e La Tempesta, fonda proprio nel pensiero di Frye la sua legittimità.[41] Non è quindi solo un vezzo stilistico o la ricerca di un termine che per forza esuli da quelli, per altro validissimi, di “tragicommedia pastorale” o “romantic drama”, ma lo spunto per una riflessione sul contenuto più intimo dell’Ismenia, quello che citando ancora Benjamin potremmo chiamare il suo «contenuto di verità».[42] Grazie allo studio del romance e delle sue caratteristiche, Northrop Frye ha potuto porre l’attenzione sulla letteratura d’intrattenimento e di consumo – tra le quali si dovrebbe certo collocare un’opera come Ismenia – ponendo così al centro della propria indagine la “comunità” umana di chi ascolta e dà voce ai racconti, a prescindere da quale sia il “radicale di presentazione”, ossia il mezzo attraverso il quale una storia si diffonde: «La “comunità” – scrive Carlo Pagetti – per Frye non è formata da un determinato gruppo sociale, ma assomiglia piuttosto a una compagnia di viaggiatori, uniti dallo stesso obiettivo, raccolti metaforicamente attorno al fuoco di un accampamento, intenti ad ascoltare una favola già nota».[43] Percorrendo le opere di Andreini capita sovente d’imbattersi in alcune frange disperse di questa comunità itinerante, che vaga alla ricerca di un’Utopia dove possa sentirsi a casa; la banda di farinelli capitanati dal bandito Lelio nell’omonima commedia e la ciurma di delinquenti al seguito di Nottola ne Lo Schiavetto sono – come ha ben mostrato Siro Ferrone – un’allegoria delle compagnie dei comici dell’Arte, professionisti esposti al rischio di essere esclusi dalla società cortigiana perché incolti, peccaminosi o di dubbia moralità sessuale.[44]

In Ismenia l’utopia arcadica si rivela illusoria: benché inizialmente migliore del mondo falso e corrotto della corte, col passare del tempo la terra felice diventa invivibile e l’anelito alla patria perduta si fa strada nei cuori dei naufraghi. Il desiderio del ritorno non è però semplicemente la nostalgia di casa dell’emigrante, ma è la costruzione di un’utopia alla rovescia, è immaginare che il ritorno alla civiltà comporti un cambiamento della civiltà stessa, un suo miglioramento in senso democratico e pacifico. Questa è, in estrema sintesi, l’utopia cortigiana che anima Andreini in molte sue opere, a cominciare da Ismenia: il bisogno di rientrare nei confini della città da cui si è o si rischia di essere esclusi per poter dare, dall’interno di quelle mura, il segnale agli altri esuli o profughi di unirsi all’impresa e creare così una società plurale, dove attrici e attori siano accettati come un bene essenziale e non solo come intrattenitori adulanti.[45]

Anche se con presupposti e esiti molto diversi, possiamo trovare una analoga spinta riformatrice sottesa alla rappresentazione di un’Arcadia “rovesciata” ancora una volta in Inghilterra, nell’opera di Philip Sidney. Andreini non ha certo l’habitus ideologico e teologico del riformatore protestante, tuttavia anch’egli propone con la sua anti-arcadia una riforma della società di Antico Regime non del tutto difforme da quella contenuta nella Old Arcadia del poeta di corte elisabettiano. Dalle isole pastorali di Andreini e di Shakespeare si deve fare ritorno per poter vedere le cose cambiare, mentre in Sidney è l’apparato arcade a cadere alla fine del quinto libro e svelarsi come sobborgo londinese. Nonostante questa differenza, credo si possa trasferire anche all’arcadia andreiniana il commento di Franco Marenco all’opera di Sidney, laddove «l’idea di uno stato dell’antica Grecia si è tramutata strada facendo nell’idea di una nazione moderna, reale. Al problema di come meglio contemplare la pace si è sostituito il problema di come meglio vivere (e agire) per ottenerla».[46] La pace è, lo abbiamo ricordato, una delle tre condizioni necessarie al realizzarsi dell’Età dell’Oro. Nell’Ismenia e in genere nella pastorale andreiniana il desiderio di pace sopravanza di gran lunga gli altri aspetti dell’immaginario bucolico; nell’Arcadia di Andreini, ad esempio, il superamento delle diseguaglianze economiche, tema portante di buona parte della letteratura pastorale italiana, pur essendo costantemente rivendicato nelle battute dei personaggi subalterni non conquista mai il centro della scena. Come in Sidney, la centralità del problema della violenza e della guerra non è dovuta esclusivamente a un ideale cristiano o neoplatonico di purificazione dalle pulsioni ferine e triviali, ma a questioni storiche contingenti: la tesa situazione interna durante il regno di Elisabetta nel caso di Sidney, un’intera carriera teatrale vissuta tra guerre e pestilenze nel caso di Andreini. Porre come priorità il raggiungimento di uno stato pacifico non è dunque una scelta puramente stilistica, filosofica o poetica, ma la conseguenza di dolorose esperienze personali e della constatazione, forse banale ma quanto mai veritiera, che in una civiltà perennemente in guerra il teatro non può esistere.[47] Questa arcadia cittadina dovrebbe situarsi, secondo Ernst Bloch, nel presente di un luogo forse remoto ma non impossibile da raggiungere, la cui via d’accesso non è una fede escatologica o una lotta cruenta, ma una strada pacifica, che si schiude davanti a noi come semplice dono della natura.[48] Anche Andreini condivide, con Bloch, Frye e numerosi scrittori utopisti, una sorta di “principio speranza”: la convinzione che, grazie all’uso avveduto del «focile» e della tecnica moderna che esso rappresenta, il mito possa resistere e rinnovarsi, e con esso la necessità di continuare a narrarlo.[49] Nell’Ismenia, le ultime battute importanti sono lasciate al dottor Cerchiofalo Balestroni che, ripresi in mano i libri poco prima gettati alle ortiche, gioisce in fondo di essere naufragato, di aver tanto visto per poter poi, tornato a casa, tanto raccontare. E sarà proprio il racconto delle fantastiche esperienze vissute l’ultimo estremo incanto dell’Ismenia:

Al dis el ver l’Ariost,

chi va luntan da la so patria ved

tal maravei, ch’a dirl al n’s’i cred. […]

Cm a’ torn a cà, mo a farò dir d’l’ cos

strausurdinarij e c’han dal maravios,

ch’ a sintir la mia vos

cuntar in bravaria, per vera e certa

sta cosa, ch’a i ho vista adess, adess,

quij ch’m’ srav appress

rstaran incantà; lì a bocca averta.[50]



[1] Il ruolo di Monteverdi e del melodramma in genere nella vicenda artistica degli Andreini è stato illustrato da L. Mariti, Canora mente, in S. Carandini e L. Mariti, Don Giovanni o l’estrema avventura del teatro. Il nuovo risarcito Convitato di Pietra di Giovan Battista Andreini, Roma, Bulzoni, 2003, pp. 127-175.

[2] Uno studio che abbracci in maniera diacronica e unitaria l’opera di Andreini manca tuttora; per una visione d’assieme si rimanda a S. Ferrone, Attori mercanti corsari. La Commedia dell’Arte in Europa tra Cinque e Seicento, Torino, Einaudi, 1993, M. Rebaudengo, Giovan Battista Andreini tra poetica e drammaturgia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994, S. Carandini e L. Mariti, op. cit., e Fabrizio Fiaschini, L’«incessabil agitazione». Giovan Battista Andreini tra professione teatrale, cultura letteraria e religione, Pisa, Giardini, 2007.

[3] È però stato pubblicato in S. Carandini e L. Mariti, op. cit., pp. 393-682.

[4] Questo giudizio, confermato nella pratica teatrale dalle numerose messe in scena di Luca Ronconi – La Centaura (1972 e 2005), Le due commedie in commedia (1984) e Amor nello specchio (1987 e 2003) – è stato formulato in primis da Siro Ferrone in Commedie dell’arte, a cura di S. Ferrone, Milano, Mursia, 1985, vol. II, p. 11.

[5] Nell’opera a stampa, Ismenia è accompagnata – caso unico nella produzione drammatica di Andreini – da un antefatto, che può essere così brevemente riassunto: nel VII secolo dopo Cristo, secondo la datazione fantastica di Andreini, il re di Scozia Aidano e suo figlio Filandro riescono a spodestare e uccidere il re d’Inghilterra Casimiro. La regina d’Inghilterra, Ismenia, ripara con la figlia Ermilinda e la balia sull’isola d’Irlanda – che Andreini chiama Ibernia, secondo un latinismo tradizionale – e ne prendono possesso. Ismenia e la balia, attraverso la magia nera cui entrambe sono dèdite, aizzano il re di Francia contro Aidano. Le sorti si capovolgono e Aidano è ricacciato nei suoi confini. Per impetrare la pace, il re scozzese invia un’ambasciata alla corte di Francia; tra gli ambasciatori salpano anche l’erede al trono Filandro, il generale Learco e il suo fidato consigliere Cerchiofalo Balestroni, dottore bolognese. Ismenia, informata del fatto dalle schiere infernali, provoca una tempesta per sterminare la stirpe nemica; gli scozzesi rompono sulle rive dell’isola, che viene retta secondo le leggi d’Arcadia e si innamorano di due ninfe, Nisa e Lilla, sotto il cui nome pastorale si cela in realtà Ermelinda, figlia di Ismenia e principessa d’Inghilterra. Per poterle sposare, i tre uomini acconsentono a deporre i propri abiti cittadini per vivere secondo natura. Qui ha inizio l’opera pastorale: Ismenia, attraverso ogni sorta d’incanto, impedisce ai nemici scozzesi di godere delle amate. Dalla Scozia giunge sul dorso dell’ippogrifo di Astolfo il mago Ruspicano, consigliere del re; ora che l’Arcadia si è rivelata un luogo da cui fuggire al più presto egli promette di riportare tutti a casa dopo aver vinto la maga Ismenia. Lo scontro infuria, prima tra i due campioni del bene e del male, Learco e il satiro Ulfone, poi tra i due maghi; Ruspicano, sfoderando un infallibile «focile», vince. La forza dell’amore, benigna magia della Commedia, trionfa sui bassi istinti della vendetta e dell’odio: Ismenia sposerà Aidano, così come si sposeranno i prìncipi Filandro e Erminda, i cortigiani Learco e Nisa e i servi Bernetta e Arlecchino.

[6] Si veda la lettera del 5 gennaio 1628 in I Gonzaga e l’Impero. Itinerari dello spettacolo. Con una selezione di materiali dall’Archivio informatico Herla (1560-1630), a cura di U. Artioli e C. Grazioli, Firenze, Le Lettere, 2005, Herla C1362, p. 458.

[7] Sui rapporti tra Martinelli e Andreini si vedano di S. Ferrone, La stampa delle creature, in Id., Arlecchino: vita e avventure di Tristano Martinelli, attore, Bari, Laterza, 2006, pp. 163-231 e Arlecchino rapito, in Id., Attori mercanti corsari..., cit., pp.191-222.

[8] Il gran mago del manoscritto casanatense, Li tre satiri e La nave del manoscritto 45 G5 della Biblioteca Corsiniana di Roma si possono ora leggere nei Canovacci della Commedia dell’arte, a cura di A.M. Testaverde, trascrizione dei testi e note di A. Evangelista, Torino, Einaudi, 2007, pp. 375-384, 433-440 e 467-473. Neri per primo riconobbe l’origine della fabula di questi scenari nella Fiammella, pastorale dell’attore Bartolomeo Rossi in arte Orazio stampata nel 1584 a Parigi, ove il mago non ostacola ma aiuta le maschere a conquistare le amate ninfe. Nell’intricata discussione sulle possibili fonti della Tempesta, tra le quali figura Die Shöne Sidea di Jakob Ayrer, la proposta dello studioso italiano ha goduto e gode tuttora di un certo credito, principalmente per l’ampio spazio dedicatogli, pur con qualche riserva, da Frank Kermode nella sua Introduction, in W. Shakespeare, The Tempest, edited by F. Kermode, London, Methuen, 1954, pp. xi-lxxxviii. Cfr. almeno H.H. Furness, Source of the plot, in A new variorum edition of Shakespeare. Vol. IX. The Tempest (1892), edited by H.H. Furness, New York, Dover Publications, 1964, pp. 306-351 e A. Testaverde, I viaggi europei dei canovacci, in Canovacci della Commedia dell’arte, cit., pp. LVII-LXI.

[9] Ivi, pp. 749-755.

[10] F. Scala, Il teatro delle favole rappresentative (1611), a cura di F. Marotti, Milano, il Polifilo, 1976, pp. 457-466. Anche nella Drammaturgia di Leone Allacci compaiono pochi titoli dai quali si possa evincere una trama analoga a quella dell’Ismenia; per lo più vi si trovano versioni drammatiche delle vicende di note maghe letterarie come Circe, Medea o Alcina. Proprio l’Orlando Furioso di Ariosto è, come vedremo, il terreno comune, l’intertesto più o meno dichiarato delle due opere e forse la spiegazione più convincente della loro somiglianza; cfr. L. Allacci, Drammaturgia di Leone Allacci accresciuta e continuata all’anno MDCCLV, Venezia, Pasquali, 1755.

[11] G.B. Andreini, Ismenia, opera reale e pastorale, dedicata all’ illustriss. e reverendiss. Monsig. Gio. Battista Gori Pannellini, vicelegato di Bologna, Bologna, Nicolò Tebaldini, 1639 [d’ora in poi Ismenia], I, i, vv. 110-139, p. 5. Nel trascrivere il testo andreiniano, letto nella copia della Biblioteca Nazionale di Firenze segnata Magl. 3.6.152, ho adottato le norme comunemente accettate dagli studiosi, uniformando l’uso delle maiuscole e della punteggiatura all’uso odierno, eliminando le «h» etimologiche, sciogliendo la tachigrafia «ñ», il simbolo «&» e volgendo in «z» il residuale latino «t».

[12] Ivi, I, i, vv. 162 -171, pp. 6-7.

[13] Può stupire, ma non tutti riconoscono il valore utopico e “inattuale” dell’Arcadia; a costoro Domenico Chiodo ricorda in un recente intervento ciò che era ben chiaro a Carducci e a Croce, ossia che le pastorali d’Arcadia sono espressione di «un pensiero critico verso le convenzioni moralistiche e verso l’ingiustizia sociale» (D. Chiodo, Corte e Arcadia nella tradizione dello spettacolo pastorale, in Il mito d’Arcadia. Pastori e amori nelle arti del Rinascimento. Atti del convegno internazionale di studi – Torino, 14-15 marzo 2005, a cura di D. Boillet e A. Pontremoli, Firenze, Olschki, 2007, p. 107).

[14] C. Pagetti, Astolfo sulla luna. Utopia e romance, Bari, Adriatica, 1996.

[15] Il termine “distopia”, diffuso dagli scrittori di science-fiction negli anni Cinquanta del Novecento, è qui usato nel senso di utopia al negativo, immagine del “mondo peggiore possibile”; cfr. A. Colombo, Utopia e distopia, Milano, Franco Angeli, 1987 e F. Jameson, Il desiderio chiamato Utopia, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 251. La necessità per l’Inghilterra, come per qualunque isola, di contrapporsi e dialogare con un qualsivoglia continente è l’oggetto delle conferenze raccolte in C. Ginzburg, Nessuna isola è un’isola. Quattro sguardi sulla letteratura inglese, Milano, Feltrinelli, 2002.

[16] Al fantastico nord scozzese Andreini era legato, probabilmente a causa di una ennesima suggestione ariostesca, sin dai suoi esordi letterari; gli scozzesi Filandro e Learco erano infatti già stati protagonisti della sua prima e unica tragedia, La Florinda stampata da Girolamo Bordone a Milano nel 1604. In Irlanda, per una parte della critica inglese, sarebbe ambientata anche La Tempesta di Shakespeare; secondo alcuni, il prototipo di Caliban non va cercato nei selvaggi delle isole Bermudas o i nativi americani, ma nell’incolto irlandese disegnato da John Speed in The Theatre of the Empire of Great Britain del 1611; cfr. W. Shakespeare, The Tempest, edited by V. Mason Vaughan and A.T. Vaughan, London, Thomson Learning, 2001, pp. 51-54.

[17] «[N]essun è servo qui, nessun signore»: Ismenia, II, ii, vv. 70-71, p. 43.

[18] B. Guarini, Il pastor fido, a cura di E. Bonora, Milano, Mursia, 1977, V.i.140-143, p. 215.

[19] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, introduzione di G. Schiavoni, Torino, Einaudi, 1999, pp. 67-68. La frase citata da Benjamin è di A. Hübscher, Barock als Gestaltung antithetischen Lebensgefühls. Grundlegung einer Phaseologie der Geistergeschichte, «Euphorion», XXVIV (1922), p. 542.

[20] «L’immagine dello spazio scenico – o più esattamente, della corte – diventa la chiave del comprendere storico. Perché la corte è lo spazio scenico più intimo» (Ibidem).

[21] «E rallegrato il cor col dolce vino, / gridarem viva, viva / il re de’ pescator, viva Arlecchino» (Ismenia, II, iii, vv. 140-142, p. 45).

[22] Ismenia, II, viii, vv. 714-724, p. 66.

[23] Ivi, III, iii, vv. 189-192, p. 80. Un esempio celebre, parte del patrimonio iconografico e tematico della Tempesta e più in generale del teatro di magia europeo, è il cerchio magico vergato dal Doctor Faustus che compare sul frontespizio delle edizioni del 1619 e del 1631 dell’omonimo dramma Christopher Marlowe, riportato anche in W. Shakespeare, The Tempest, edited by V. Mason Vaughan and A. T. Vaughan,cit., p. 65. Un’immagine più vicina a Ismenia per gusto e riferimenti letterari è La Melissa di Dosso Dossi, dipinto del 1531 oggi conservato alla Galleria Borghese di Roma che, noto come La maga Circe, rappresenta più probabilmente la maga ariostesca protrettrice della casa d’Este; cfr. Dosso Dossi. Pittore di corte a Ferrara nel Rinascimento, a cura di P. Humfrey e M. Lucco, Ferrara, Ferrara Arte, 1999, pp. 114-117.

[24] Già ne La Saggia Egiziana, dialogo in versi del 1604, l’immagine ricorre più volte: «Empio, e rio Mondo, che tra fronda e fronda / la rete, il laccio, e’l mortal visco tendi; / e tra l’erbe, e tra i fiori angue nascondi», «ecco tra fiore, e fior nascosto un angue» e «qual serpe tra i fior fugge strisciante» (G. B. Andreini, La Saggia Egiziana, Dialogo spettante la lode dell’arte scenica. Con un trattato sopra la stessa arte, cavato da San Tomaso, et da altri Santi. All’ill. et eccell. Principe il sig. don Antonio de Medici dedicato, Firenze, Volcmer Timan Germano, 1604, vv. 54-56, pp. 7-8, v. 399, p. 20 e v. 1091, p. 43).

[25] Si veda in proposito N. Gardini, Un esempio di imitazione virgiliana nel canzoniere petrarchesco: il mito di Orfeo, «Modern Language Notes», 110-1, Italian Issue, (Jan. 1995), pp. 141-143.

[26] Per la fortuna dell’emistichio virgiliano sino al verso petrarchesco si veda F. Petrarca, Trionfi, rime estravaganti, codice degli abbozzi, a cura di V. Pacca e L. Paolino, Milano, Mondadori, 1996, p. 168 n157.

[27] Mebane, dopo aver ricordato che era chiamata “tempesta” la fase del procedimento alchemico durante la quale si condensavano le impurità dei metalli, descrive così la funzione del mago shakespeariano: «il sortilegio che il mago opera con la sua arte è quello di trasformare la dissonanza in armonia e la tragedia in commedia, sul piano psicologico, politico e spirituale» (J.S. Meban, Rinascimento e magia. La tradizione occulta in Marlowe, Jonson, Shakespeare, Genova, ECIG, 1994, p. 230). Per il platonismo cristiano di Andreini ci affidiamo alle parole di Marco Lombardi: «rientrando nel gioco di analogie fra teatro “terreno” e teatro “celeste”, il Santo-regista è metafora di tutti quei Lelio, Prospero, Alcandre che, grazie agli artifici teatrali, ridaranno pace e riposo ai loro “discepoli” in una cerimonia d’iniziazione all’amicizia e all’amore» (M. Lombardi, La ‘Saggia Egiziana’ di Giovan Battista Andreini e il teatro nel teatro, «Rivista di Letterature moderne e comparate», vol. XXXIX, fasc. 4 (ottobre – dicembre 1986), pp. 274-275).

[28] «Prospero is therefore the representative of Art, as Caliban is of Nature. As a mage he controls nature; as a prince he conquers the passions which had excluded him from his kingdom and overthrown law; as a scholar he repairs his loss of Eden; as a man he learns to temper his passions, an achievement essential to success in any other activities» (F. Kermode, op. cit., p. xlviii). Opposto e, almeno nella nostra prospettiva, poco condivisibile il punto di vista di Jan Kott, per il quale nella Tempesta non c’è nessuna educazione ma solo la ripetizione del mito dell’Eneide. Per il critico polacco la conoscenza di Prospero si rivela inutile oltre che fallace e la sua rinuncia dell’arte magica equivale al fallimento della fede nel teatro come mezzo per migliorare l’uomo e il mondo; cfr. J. Kott, La Tempesta o la ripetizione, in Id., Arcadia amara. La Tempesta e altri saggi shakespeariani, Milano, Il Formichiere, 1978, p. 88 e passim.

[29] Ismenia, III, viii, vv. 703-707, pp. 98-99.

[30] Ivi, IV, ii, vv. 135-138, p. 112.

[31] Ivi, III, v, vv. 342-347, p. 85.

[32] Con romance la critica letteraria anglofona indica tradizionalmente sia i poemi cavallereschi di provenienza francese, sia la narrativa fantastica e amorosa sei-settecentesca, in opposizione al novel, il romanzo realistico inventato da Fielding, Defoe e Richardson. Qui, come si vedrà meglio in seguito, facciamo riferimento al romance non solo nella suddetta accezione ma anche per come è stato riformulato da György Lukács e da Northrop Frye. Per Lukács romance equivale a «dramma non-tragico», l’unico dramma possibile «nel mondo abbandonato dagli dèi della tragedia», i cui modelli sono gli ultimi drammi di Shakespeare (La Tempesta, Cimbelino, Il racconto d’inverno), i drammi di Ibsen (soprattutto Peer Gynt), le opere di George Bernard Shaw e di Paul Ernst. Essendo impossibile riassumere in questa sede la densità e l’ampiezza del pensiero estetico del giovane Lukács, per molti versi affine a quello benjaminiano, basterà ricordare che per lo studioso ungherese Prospero è con Socrate l’esempio più celebre di Saggio, quintessenza del romance e uomo non-tragico «arbitro del proprio destino» (G. Lukács, L’estetica del romance. Tentativo di fondazione metafisica della forma del dramma non-tragico, in Id., Scritti sul romance, a cura di M. Cometa, Palermo, Aesthetica, 1995, p. 93). Per il canadese Frye, invece, il romance – categoria per lui legata più alla narrativa che al teatro – rappresenta un superamento della commedia sul piano sia dell’identità individuale che della pacificazione sociale: «Le società gioiose che appaiono alla fine delle commedie sono di solito antiutopiche, basate su una specie di senso comune pragmatico e di buona volontà che trascende qualsiasi pianificazione sociale […]. [L]’Arcadia, la vita semplice di un gruppo ristretto di pastori che sono al tempo stesso amanti e poeti, sembra rappresentare qualcosa che ci porta entro uno stato di identità più alto di quanto non faccia il mondo sociale e comico» (N. Frye, La scrittura secolare. Saggio sulla struttura del «romance», Bologna, il Mulino, 1978, pp. 150-151).

[33] Ismenia, IV, ii, vv. 149-158, pp. 112-113. Tutta l’opera è costellata di rimandi e citazioni al Furioso e in particolare – come avremo modo di notare meglio a proposito del «focile» di Ruspicano – ai canti IX e XI, nei quali Orlando, unitosi alla spedizione del re d’Ibernia alla volta dell’isola Ebuda, è spinto dai marosi sulle coste d’Olanda dove sconfiggerà Cimosco e il suo «abominoso» archibugio; cfr. L. Ariosto, Orlando Furioso, a cura di C. Segre, Mondadori, Milano, 1964, IX e XI, pp. 170-193 e pp. 228-243.

[34] Anche questa inversione ha radici antiche, addirittura omeriche; già Odisseo, giunto all’isola dei Ciclopi, crede di essere approdato in una terra dove i pastori vivono pacificamente senza leggi e istituzioni; una volta sbarcato con il suo equipaggio e conosciuto Polifemo, però, si accorge che la libertà di un tale stato è illusoria e l’assenza di norme porta solo barbarie e dominio del più forte; come nota Alfred Heubeck: «nel vasto paese delle fiabe, accanto ai Feaci, dotati di tutto ciò che gli uomini debbono avere e possono augurarsi, c’è anche l’immagine capovolta, negativa: i Ciclopi non hanno nulla di tutto ciò» (Omero, Odissea. Vol. III (Libri IX-XII), a cura di A. Heubeck e G.A. Privitera, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, 1983, vv. 105-115, pp. 14-15 e p. 192 n106-115).

[35] Ismenia, V, xi, vv. 772-778, p.164.

[36] Ibidem.

[37] G.B. Andreini, La Ferza, Ragionamento Secondo contra l’accuse date alla Commedia (1625), ora in L. Falavolti, Attore: alle origini di un mestiere, Roma, il Lavoro, 1988, p. 75.

[38] Il «focile» che Ruspicano «trae dal seno» non è propriamente l’arma da fuoco che si intende oggi, ma l’innesco, benché l’uso della parola “fucile” nel senso odierno sia attestato già negli scritti di Raimondo Montecuccoli (1609-1680); cfr. Grande Dizionario della Lingua Italiana, a cura di S. Battaglia, Torino, Utet, 1970, vol. VI, p. 416. La funzione che qui riveste è però identica a quella che molti hanno ravvisato nell’archibugio ariostesco, da ultimo Giulio Ferroni: «l’arma da fuoco di Cimosco appare come un emblema della ferocia irredimibile del personaggio e dell’ambiente; prefigurazione di un crollo dei valori cavallereschi, che non a caso Orlando si affretta a gettare in fondo al mare» (G. Ferroni, Ariosto, Roma, Salerno, 2008, p. 270). Non va però dimenticato che sebbene Orlando getti in mare l’archibugio, il demonio suo creatore «lo fece ritrovar da un negromante, / al tempo dei nostri avi, o poco inante» (L. Ariosto, op. cit., XI, 22, 7-8, p. 228; cfr. anche I. Calvino, Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino. Con una scelta del poema, Milano, Mondadori, 1995, p. 76, A. Casadei, I poeti, i cavalieri, le macchine, gli spazi: scienza e tecnica in Ariosto e Tasso, in Id. La fine degli incanti. Vicende del poema epico-cavalleresco nel rinascimento, Milano, Franco Angeli, 1997, pp. 61-74 e A. Scurati, «Abominosi ordigni». Ariosto, la frode tecnologica e la distruzione dell’esperienza, in Id., Guerra. Narrazioni e culture nella tradizione occidentale, Roma, Donzelli, 2003, pp. 155-175).

[39] «Ecco cingo il tuo fronte / d’acute corna armato / con questo velo d’oro / che sarà fregio d’immortal decoro» (Ismenia, V. iii. 33-36). La possibile confusione tra “velo” e “vello” è confermata da due titoli, posteriori a Ismenia, contenuti nella Drammaturgia di Allacci: la Conquista del velo d’oro in Colco di Domenico Ghisberti (Monaco, 1674) e la Conquista del velo d’oro di Niccolò Minato e Antonio Draghi (Vienna, 1678); cfr. L. Allacci, op. cit., p. 211. Sugli “oggetti fatati” come “aiutanti magici” vd. V.J. Propp, L’oggetto fatato, in Id., Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Bollati Boringhieri, 1985, pp. 304-320.

[40] Allo stesso modo, Ismenia di Andreini ricorda, non solo per coincidenza onomastica, quella della Jerusalén Conquistada (1609) di Lope de Vega, variante spagnola della Clorinda tassiana; cfr. F. Pierce, The Jerusalén Conquistada of Lope de Vega: a reappraisal, «Bullettin of Spanish Studies», 20 (1943), pp. 11-35; E. B. Davis, El destino de Ismenia (Jerusalén Conquistada de Lope de Vega), in Juan Villegas (a cura di), Actas del XI Congreso de la Asociatión International de Hispanistas, Irvine, AIH, 1994, vol. II, pp. 66-73 e C. Latella, Clorinda e Ismenia, in Il personaggio. Figure della dissolvenza e della permanenza. Atti del IV convegno dell’Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura (Torino, 14-16 settembre 2006), a cura di C. Lombardi, Alessandria, Dell’Orso, 2008, pp. 503-508.

[41] N. Frye, Il mythos dell’estate: il romance, in Id., Anatomia della critica. Quattro saggi, Torino, Einaudi, 1969, pp. 247-273 e Id., La scrittura secolare. Saggio sulla struttura del «romance», cit., passim.

[42] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., pp. 6-9 e Id., Le affinità elettive, in Id. Angelus Novus. Saggi e Frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1995, pp. 163, 185 e passim.

[43] Proseguendo in questa direzione, Pagetti rintraccia nella lotta tra arte e natura presente nella pastorale barocca i segni delle “distopie” della letteratura fantascientifica: «The Tempest diviene, infatti, una sorta di prototesto fantascientifico, non in senso strettamente tematico, ma come narrazione della metamorfosi operata dal conflitto tra natura e scienza, miti primigeni e sogni del nuovo immaginario scientifico, che plasmano il paesaggio dell’isola utopica e del pianeta proibito» (C. Pagetti, op. cit., p. 29).

[44] S. Ferrone, op. cit., pp. 229-236. Il desiderio di un transfugo di rientrare nella civiltà è oggetto di uno dei primissimi scritti di Andreini che abbiamo già chiamato in causa, La Saggia Egiziana. In questa breve opera assistiamo al dialogo tra Ergasto, che ha abbandonato la civiltà perché disgustato dalle commedie, e una vecchia egizia esperta di astrologia, dottrine platoniche e aristoteliche che guarirà la sua agelastia dimostrando il valore e la necessità del teatro comico riformato.

[45] «Nel suo [di Andreini] programma c’è un eros riordinato, una mercatura teatrale legittima e rispettosa dei diritti altrui, la fine del nomadismo e l’insediamento in una città tollerante. […] Il tentativo di fondare, dall’alto del potere demiurgico e dittatoriale del capocomico, un teatro che fosse insieme comunitario e intimo, spirituale e mercantile, morale e cittadino, appassionato e ordinato, sfiora l’utopia» (S. Ferrone, op. cit., p. 261).

[46] F. Marenco, Arcadia puritana. L’uso della tradizione nella Prima Arcadia di Sir Philip Sidney (1968), Roma, Storia e Letteratura, 2006, p. 220. Di alcune trasposizioni teatrali dell’opera di Sydney si occupa F. Rota, L’Arcadia di Sydney e il teatro. Con un testo inedito, Bari, Adriatica, 1966.

[47] Più volte Andreini e i suoi dovettero fuggire da città in guerra tra loro. Nel 1629, agli albori della guerra del Monferrato che porterà alla grande peste del 1631, essi ebbero persino un ruolo attivo nelle trattative tra Carlo Gonzaga Nevers e l’imperatore d’Austria Ferdinando II; mi sia permesso rinviare in proposito al mio Il Sacrificio, lode spettante la celebrazione della Santa Messa di Giovan Battista Andreini, un’opera ritrovata, «Studi Secenteschi», vol. XLIX (2008), pp. 341-369.

[48] E. Bloch, Digressione sull’Arcadia e sull’Utopia in Id., Ateismo nel cristianesimo. Per la religione dell’Esodo e del Regno, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 246-253, ma anche, dello stesso, Spirito dell’Utopia, Firenze, La Nuova Italia, 1980 e Il principio speranza, Milano, Garzanti, 2005. L’utopia cortigiana dei comici dell’Arte non è però un porto naturale cui approdare senza sforzo. La forma di Utopia immaginata nelle isole di Andreini e di Shakespeare è blochiana nel senso della “pulsione utopica” che porta a concepirle, una pulsione sulla quale secondo Frederic Jameson poggiano sia la paradossale “utopia concreta” di Bloch, sia l’utopia “quotidiana” di Roland Barthes. Questa “pulsione” indica un desiderio collettivo, che si esprime attraverso allegorie teatrali e letterarie, un impulso forte ma non determinato in un programma politico di rinnovamento sociale; cfr. F. Jameson, op. cit., pp. 17-26.

[49] «Frye è egli stesso uno scrittore utopico che condivide con Bloch un “principio speranza”, capace di redimere anche un secolo come è il nostro, così atrocemente disastrato dagli esempi più disparati di utopia politica» (C. Pagetti, op. cit., p. 37).

[50] Ismenia, V, xii, vv. 870-872 e 896-902, pp. 168-169.

 


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