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Cesare Molinari

Cesare Molinari, Il consumo della civiltà

Data di pubblicazione su web 21/11/2008
Metropolis, George Grosz, 1916-17

 

Cesare Molinari è uno dei più importanti storici europei del teatro e dello spettacolo. I suoi scritti sono spesso, oltre che dedicati alle messinscene, ai registi, agli attori, alle drammaturgie e alle civiltà dello spettacolo, dall'antichità ai giorni nostri, anche densi di riferimenti alla storia sociale politica ed economica. Ma Molinari è anche un attento analista della nostra contemporaneità. Pubblichiamo qui di seguito un suo scritto originale dedicato all'osservazione della crisi di valori ideali e di prospettive del nostro tempo. Una riflessione che riguarda anche la società dello spettacolo ma soprattutto il deprimente spettacolo della nostra società.

Ci auguriamo che come dice il titolo della nostra rubrica questo intervento punga sul vivo qualche lettore e che si possa aprire una discussione più larga.

Parlando della sua villa di Donnafugata, dove si svolse il favoloso ballo descritto da Luchino Visconti nella sua versione cinematografica del Gattopardo, il principe di Salina soleva dire che una casa di cui si conoscono tutte le stanze non merita di essere abitata. Il romanzo di Tomasi di Lampedusa è ambientato attorno al 1860, e a quell’epoca la parola “consumismo” probabilmente non era ancora mai stata pronunciata da nessuno. Pure la battuta del suo protagonista ne costituisce un’eccellente definizione, almeno nella misura in cui il concetto è antropologicamente riferibile all’idea di “dépense” tanto fascinosamente illustrata da George Bataille. Il quale, per la verità, la connette a quella economia del dono (il potlach) che, in certe società ‘primitive’, aveva la duplice funzione di regolare in qualche modo lo scambio dei beni da una parte, ma dall’altra anche di istituire o consolidare i legami sociali.

 Le stanze vuote e inutilizzate del palazzo del principe di Salina non svolgono nessuna di queste due funzioni e neppure servono a quell’esibizione di potere e di ricchezza che ha caratterizzato tanta parte della vita dei ‘signori’ a partire almeno dal Rinascimento. Un’esibizione ben presto diventata competitiva e che è, a ben rifletterci, il fondamento economico di tanta parte della grande arte monumentale. In questa dimensione meramente economica rientra anche il puro consumismo del principe di Salinas, le inutili stanze del cui palazzo sono però servite a dare più lavoro a un certo numero di operai e muratori. A far girare l’economia, si direbbe oggi.

Nel significato più generale e generico del termine, il consumismo è dunque sempre esistito: Thorstein Veblen ne ha tracciato il percorso antropologico in quel grande libro intitolato La teoria della classe agiata, di recente rivisitato e riproposto all’attenzione del pubblico da Raffaele Simone. Peraltro neppure nella profetica opera di Veblen (che risale al 1899!) viene ancora impiegato il termine “consumismo”, il più delle volte sostituito dall’espressione “consumo vistoso”, anche perché Veblen è interessato soprattutto al significato sociale del fenomeno,  poi sviscerato sotto il profilo psicologico ed esistenziale da Zygmunt Bauman nel suo Homo consumens. Ma il problema del consumismo assume una particolare e addirittura decisiva rilevanza soprattutto come funzione dell’economia.

 In questo senso il consumismo ha assunto le caratteristiche specifiche che lo definiscono solo in epoca relativamente recente: si può azzardare l’ipotesi che le sue origini siano da rintracciarsi nella nascita dell’economia di scala, e quindi della produzione industriale, quando cioè si smette di produrre “su commissione”, senza sapere quanta parte degli oggetti prodotti in serie potranno essere assorbiti dal mercato, se cioè la domanda potrà soddisfare l’offerta – mentre la logica vorrebbe che sia l’offerta a soddisfare la domanda. Non per nulla la pubblicità nasce e si sviluppa contemporaneamente alla produzione di tipo industriale, ma solo un paio di secoli dopo il diffondersi della stampa periodica.

Certo, si potrebbe osservare che molti piccoli agricoltori non sapevano se erano in grado di vendere tutte le eccedenze del loro raccolto e che i ciarlatani vendevano i loro magici intrugli nel momento stesso in cui li reclamizzavano, ma in nessun altro ambito la quantità si è mai identificata in modo così essenziale con la qualità. Tuttavia per molti decenni – quasi per un secolo – dal consolidarsi dell’economia di scala (ovviamente con riferimento soltanto all’industria leggera) la più gran parte della popolazione rimase quasi totalmente esclusa dalla possibilità di acquistare prodotti non strettamente necessari. Fu solo quando la logica dello sviluppo industriale comportò la necessità di allargare proporzionalmente la domanda, solo allora stipendi e salari poterono essere lentamente adeguati in corrispondenza alla congiunta pressione delle organizzazioni sindacali – attorno agli anni Venti in America, ma, in modo pieno, soltanto negli anni Cinquanta in Europa. Ciò che ha permesso di sostenere che il capitalismo è la struttura economica che rende necessaria una distribuzione della ricchezza che permetta a tutti, o almeno alla maggior parte, un livello di vita decisamente superiore a quello della mera sopravvivenza, contro la formulazione marxiana del plusvalore, in modo da permettere al lavoratore di acquistare almeno una parte dei beni che ha prodotto.

E, pour cause, il termine “consumismo” comincia ad affermarsi nell’uso comune proprio in quegli anni, per essere consacrato con il film di Liliana Cavani, Mimì metallurgico ferito nell’onore, che è del 1972. Si cominciò allora a parlare di “bisogni indotti” espressione con cui si designavano oggetti non soltanto non necessari alla vita quotidiana, ma addirittura del tutto superflui e magari solo ingombranti, il cui acquisto era suggerito o perfino imposto dall’azione combinata della pubblicità e dell’emulazione – e Agnes Heller (1971) poteva sostenere, ma nel quadro di una più vasta analisi classificatoria, che è la produzione a creare nuovi bisogni. Ma forse questa tensione all’acquisto è invece determinata in parte dall’adeguamento allo standard  della vita sociale per cui una comodità prima considerata accessoria viene poi sentita come indispensabile (vedi il telefono), ma anche, e forse in primo luogo, da una sorta di istinto primario della razza umana per cui il possesso viene percepito come un valore in sé, collegato, ma neppure tanto strettamente, con l’idea del potere. Talché l’acquistare diventa un tratto antropologico ineliminabile, e comunque un piacere neppure connesso con il desiderio specifico di un oggetto qualsiasi: «fare shopping – si dice – è lo sport preferito delle signore americane». Ma direi non solo americane e non solo signore.

Comunque sia di ciò, è chiaro che un ruolo fondamentale nello sviluppo di questo costume o di questo istinto è stato giocato dalla pubblicità, la quale da una parte spinge il pubblico ad acquistare qualcosa di cui prima non sentiva né il bisogno né il desiderio, o, nel migliore dei casi, oggetti e strumenti nuovi, spesso a prescindere dalla previsione della loro possibile utilità, se non quella di sentirsi al passo con i tempi; mentre dall’altra diventa uno strumento decisivo della concorrenza, soprattutto nel momento in cui mille imprese diverse si impegnano a lanciare sul mercato prodotti sostanzialmente simili, spesso diversi solo per qualche dettaglio formale e talvolta per il prezzo, che peraltro potrebbe essere molto inferiore proprio se non gravato dalle enormi spese che comporta il reclamizzarli, spese che il produttore ritiene di poter ammortizzare grazie alla maggior quantità di merce venduta. Ma sulla grande importanza della pubblicità dovremo tornare.

Adesso sarà opportuno riprendere il filo del discorso. Se è vero che l’offerta stimola la domanda, è altrettanto vero, come già detto, che la domanda sostiene l’offerta. È questo il circuito dialettico su cui si fonda l’economia di scala. Si tratta di un circuito virtuoso o non piuttosto di una spirale perversa? Certamente di entrambe le cose. Perché se da un lato è chiaro che un crollo vistoso della produzione non più sostenuta da una congrua domanda comporterebbe un forte aumento della disoccupazione e quindi della stessa possibilità di sopravvivenza di milioni di persone, dall’altro tutti, compresi i più accaniti liberisti, si sono ormai resi conto dei rischi ecologici che comporterebbe un’incontrollata crescita dei consumi.

Tutti si sono resi conto di questo, ma d’altra parte quasi tutti, compresa una sinistra che ancora non sa cosa farà da grande, insistono sulla necessità della crescita economica e produttiva, come, per insopprimibile conseguenza, sul bisogno di stimolare i consumi o di sostenerli incrementando salari e stipendi. La crescita è dunque l’imperativo categorico perché il ‘sistema’ (come veniva giustamente chiamato nel Sessantotto) possa sostenersi: senza crescita c’è recessione, o, come minimo, stagnazione, che ne è l’anticamera, e che non permetterebbe di far fronte all’aumento delle esigenze anche primarie, tipo i nuovi pensionamenti o i diversi bisogni di assistenza.

Ma crescita di che cosa? Del PIL è l’unanime risposta, il Prodotto Interno Lordo che, come è noto, comprende tante cose (servizi e prodotti materiali), ma tante altre ne esclude, come per esempio i trasferimenti, cioè, spiega Lester C.Thurow, «quel flusso di pagamenti destinato soprattutto all’approntamento delle reti di sicurezza sociale». Il PIL resta comunque la costante e universale unità di misura della ricchezza, ma con la paradossale conseguenza che un paese in cui viene garantito un alto standard delle protezioni sociali potrebbe risultate più povero di uno in cui tali protezioni sono ridottissime o addirittura inesistenti. Così succede spesso che la crescita sia accompagnata da un aumento della povertà.

Ora, il PIL deve crescere almeno nella misura in cui aumenta la popolazione, ma se questa diminuisse, come succederebbe nei paesi europei senza l’immigrazione, il PIL potrebbe egualmente scendere con gravi conseguenze sulla competitività di quei paesi. Ne viene che la crescita del PIL diventa una sorta di variabile indipendente.

In buona sostanza, perché l’economia di un paese possa essere considerata ‘sana’, sia in termini assoluti che in rapporto ai paesi concorrenti, o meglio partner-concorrenti come tutti i paesi del mondo industrializzato oggi sono fra loro, quella economia deve costantemente crescere. Infatti un’impresa, sia essa industriale o commerciale o di servizi, deve produrre un profitto, parte del quale deve essere reinvestito in conto capitale, vale a dire per produrre ammodernamento e – soprattutto nel caso delle imprese manifatturiere, ma anche in quelle che forniscono servizi, si pensi in particolare al settore delle comunicazioni e dei trasporti – in ricerca e in innovazioni tecnologiche le quali, a loro volta, permetteranno di aumentare la produzione e\o di abbassare i costi per reggere la concorrenza, in ogni caso incrementando i consumi.

Crescita dunque, ma fino a quando o a quanto? All’infinito, viene voglia di rispondere. Ora, “infinito” è un concetto filosofico e matematico comparso abbastanza presto nella storia del pensiero, molto prima dello zero, proposto solo verso il V-VI secolo d.C. dai pensatori indiani: Aristotele definiva l’infinito come un processo, mentre il pensiero cristiano lo considera piuttosto una sostanza, attribuita in primo luogo a Dio, ma non solo: si pensi al titolo del capolavoro di Giordano Bruno, De infinito, universo et mondo. Oggi gli scienziati preferiscono definire l’universo come illimitato piuttosto che come infinito, anche in termini temporali, ma il concetto matematico permane: i numeri sono infiniti nel senso che non si può dire che c’è un numero ultimo nella serie positiva come in quella negativa.

Questa dotta digressione in realtà vuole soltanto avvertire che, se l’idea di “infinito”, o anche quella più umana di “illimitato”, comportano delle gravi difficoltà e dei paradossi sul piano puramente speculativo, tali difficoltà e paradossi aumentano vertiginosamente se quelle idee vengono applicate alla crescita economica. Da un lato infatti, per la sua logica interna, o almeno per la sua attuale logica interna, la crescita non può arrestarsi; ma dall’altro una crescita senza limiti non potrebbe che distruggere se stessa (oltre che il pianeta) poiché un’offerta infinita di beni prodotti in regime di concorrenza dovrebbe portare a una tendenziale riduzione a zero del loro costo al consumo e quindi all’arresto della produzione stessa. Sembra un ragionamento totalmente astratto, ma non bisogna dimenticare che, in proporzioni non così apocalittiche, varie crisi di sovrapproduzione si sono verificate nel corso degli ultimi 150 anni, portando alla distruzione dei beni in eccesso, e anche di beni primari, allo scopo di sostenerne i prezzi – come magnificamente raccontato da un vecchio documentario di Joris Ivens, Zuidersee, nel quale si sosteneva che l’eccesso di produzione aveva avuto il paradossale risultato di provocare una carestia, ed era anche connesso con la crisi finanziaria del 1929 (il film è del 1934).

Ma d’altra parte una crescita tendente a infinito, per usare un’espressione cara al linguaggio della fisica, potrebbe teoricamente portare a costi tendenti a zero, senza intaccare in modo catastrofico né il livello di occupazione, né la redditività delle imprese e quindi la loro capacità di investimento. Ma perché un simile utopico risultato diventi anche solo teoricamente possibile sono necessarie almeno tre fondamentali condizioni.

In primo luogo sarebbe indispensabile una radicale redistribuzione del reddito, sia all’interno dei paesi industrializzati, sia fra questi e i paesi detti “in via di sviluppo”. Per quanto riguarda i primi, tutti gli osservatori hanno rilevato che la forbice tra le categorie privilegiate e quelle meno fortunate (ossia, in parole più chiare, tra i ricchi e i poveri, tra prestatori d’opera e capitalisti, tra lavoratori e manager), mentre si era fortemente ridotta negli anni che seguirono l’affermarsi del capitalismo ruggente, ma soprattutto negli anni del New Deal, dando anche vita a una numerosa e forte classe media (concetto che ormai tende a distinguersi nettamente da quello di “borghesia”), si è poi nuovamente e  spaventosamente allargata a partire almeno dagli anni Ottanta, in non casuale coincidenza con il progressivo svilupparsi delle attività di ordine puramente finanziario rispetto a quelle di ordine produttivo, reso possibile dalla sempre più completa liberalizzazione dei mercati – la deregulation reaganiana. Questo fenomeno (in realtà sempre esistito, almeno da quando esistono le borse) ha permesso il rapido e incontrollato formarsi di enormi ricchezze, non è ben chiaro in quale misura ma certo in qualche misura sottratte a quello che dovrebbe essere il compito primario del capitale, vale a dire quello di finanziare (come cambia il significato delle parole!) la produzione e l’innovazione. Pure tale fenomeno sembrerebbe poter essere facilmente controllabile punendo fiscalmente (non penalmente se non nei casi, peraltro frequenti, di vera e propria criminalità finanziaria) le rendite di ordine puramente speculativo come, per fare l’esempio più semplice, gli investimenti azionari a brevissimo termine, ma anche, e sia pure meno duramente, tutte le rendite finanziarie. Nel programma della coalizione guidata da Romano Prodi per le elezioni del 2006 c’era anche l’innalzamento dal 12% al 20% della tassazione su tali rendite, reso poi impossibile dalla composita ed eterogenea formazione parlamentare. Il bello si è che tale manovra sarebbe stata molto impopolare perché moltissimi lavoratori sono oggi anche azionisti, cioè speculatori o, quanto meno, rentiers. E tuttavia tale provvedimento, che certamente avrebbe causato qualche iniziale difficoltà economica, nel lungo periodo avrebbe potuto portare a certi importanti risultati di ordine civile e culturale, proprio acuendo la contraddizione, che è in tanti di noi, fra l’anima dell’azionista e quella del cittadino, tanto acutamente illustrata da Robert B. Reich – a tutto vantaggio del cittadino.

In quale grande misura le questioni economiche incidano sulla vita civile e sulla cultura individuale diventa anche più chiaro se pensiamo al secondo problema connesso con l’idea di una crescita tendenzialmente illimitata: la riqualificazione dei consumi. Con il termine di “consumi” si intendono cose anche diversissime fra loro, poiché, per fare la distinzione più immediata e grossolana, ci sono degli oggetti che vengono realmente consumati, cioè più o meno integralmente  distrutti dall’uso come il cibo, mentre altri vengono soltanto usati per un tempo più o meno lungo per poi accumularsi o venire eliminati senza che la materia venga dissolta, creando quei “rifiuti” dai quali la nostra civiltà rischia di essere sommersa. D’altra parte si consumano anche i servizi. Ma anche qui bisogna distinguere tra i servizi che hanno bisogno di una a volte pesantissima base materiale, come i trasporti, e quelli che invece si risolvono in se stessi, come l’assistenza agli invalidi.

Una prima riqualificazione dei consumi dovrebbe quindi poter puntare da un lato sui beni durevoli (anche se bisogna tener conto del fatto che il bene durevole per definizione, cioè l’abitazione e l’edilizia in generale, richiede un grande uso di materiale, senza contare l’occupazione dello spazio che viene sottratto al verde deturpando il paesaggio e spesso mettendo a rischio l’equilibrio geologico, per cui sarebbe forse più saggio considerare in primo luogo la possibilità di ristrutturare edifici esistenti), e dall’altro sui servizi ‘leggeri’ tra i quali si può catalogare la cultura, nel senso specifico di cultura letteraria, storica, filosofica, artistica, ma anche giuridica ed economica e soprattutto scientifica. Vorrei chiarire che puntare sulla cultura detta umanistica non dovrebbe significare affatto sviluppare pletoriche facoltà di lettere, ma offrire a tutti, in costante aggiornamento, la possibilità di conquistare e incrementare quegli strumenti culturali e intellettuali che permettono di comprendere e interpretare la o le civiltà, come esse si sono formate nei secoli: le vecchie Università popolari e le nuove Università dell’età libera potrebbero indicare la rotta. In questo tipo di servizi si investe essenzialmente sulle risorse umane e solo in minima percentuale sulla strumentazione oggettuale: certo, anche i libri sono degli oggetti, ma di costo modesto e di relativamente piccolo ingombro, a parte il fatto che sono forse destinati a sparire, anche se fra il generale rimpianto.

È però chiaro a tutti che in un’economia di mercato una simile riqualificazione dei consumi non potrebbe certo venir realizzata d’imperio: i gusti, le mode e i desideri che determinano i consumi consistono in una sommatoria di atteggiamenti e di storie individuali talvolta indotti da fattori esterni, ma spesso oscuri nella loro genesi e nella loro configurazione: in molti casi il mercato risponde alle tendenze del pubblico, a una domanda le cui origini ovviamente non si cura di indagare, altre volte è l’offerta stessa a provocare la domanda, spesso, ma non sempre, con l’aiuto di una campagna pubblicitaria. Per fare un esempio di estrema banalità, le migliaia di oggettini e di bibelots che si vendono soprattutto nelle città turistiche, tipo le gondole veneziane made in China, non sono mai state reclamizzate da nessuno, il loro successo di vendite dipendendo soltanto dalla mera esposizione nella vetrina dei negozi e dal prezzo, che le fa preferire a prodotti artigianali ad alto valore aggiunto. Pochi personaggi sono più insopportabili di coloro che pretendono di essere i padroni del “buon gusto”, gli arbitri elegantiarum e tuttavia è probabile che la diffusione di un minimo di cultura artistica ed estetica potrebbe indirizzare certi consumi almeno verso un’oggettistica più selezionata. Anche se, bisogna d’altra parte ricordare, il mai abbastanza citato Veblen sostiene che proprio gli oggetti artigianali (cita in particolare la posateria) venivano preferiti a quelli industriali dalla media borghesia per imitare la raffinatezza degli aristocratici e dei veri ricchi, raffinatezza che sovrapponeva al puro giudizio estetico una sorta di più o meno cosciente «bellezza finanziaria». Oggigiorno il disegno industriale ha in parte superato, almeno in certi settori, questa tendenza, che tuttavia permane ad esempio nel moderno culto dell’antiquariato, dove, per dirla in termini marxiani, il valore d’uso viene sostituito dal valore di scambio, come succede del resto anche per gli oggetti ‘di marca’, per le griffes, il cui valore prevalentemente se non totalmente finanziario determina addirittura i desideri dei bambini, che oggi pretendono la cartellina e il vestitino firmati – con il risultato, non del tutto negativo, di dare vita anche a una fiorente industria del falso. Su questo tema Naomi Klein ha dato vita a una gustosa polemica con il suo No logo. In questo campo, comunque, è difficile uscire da una selva di contraddizioni.

La pubblicità è responsabile di molte cose, ma non certo di tutto, e sarebbe interessante analizzare statisticamente l’incidenza delle campagne pubblicitarie socialmente positive come quelle contro il fumo, la droga o l’alcol, contro la guida veloce o a favore della raccolta differenziata dei rifiuti. Credo che in molti casi tale incidenza si rivelerebbe modesta, almeno in rapporto a quella che reclamizza una marca di whisky o un Suv di grossa cilindrata, forse perché nel primo caso si tratta di pubblicità intese a modificare un comportamento e non a determinare un acquisto (ma anche un acquisto è, in fin dei conti, un comportamento!).

Tuttavia il peso della pubblicità nella vita economica è enorme e, se così posso esprimermi, strutturale: interi settori economici, e in primo luogo quello delle comunicazioni – dai giornali alla radio a internet – dipendono in maniera diretta dalla pubblicità, nel senso che ne sono in certi casi totalmente finanziati. Si potrebbe concludere che direttamente o indirettamente l’economia dei paesi industrializzati si regge (in quale percentuale?) sulla pubblicità, in quanto essa stessa contribuisce a formare il PIL, ma soprattutto in quanto lo incrementa pesantemente sostenendo i consumi e la domanda, facendo aumentare esponenzialmente i prezzi su cui si scaricano i suoi costi diretti, ma al tempo stesso riducendoli grazie all’incremento della concorrenza: un’altra spirale perversa che è al tempo stesso un circuito virtuoso.

C’è poi una forma di pubblicità indiretta, nascosta che agisce, si pensa, a livello subliminale. Si favoleggia che i grandi divi dei tempi dello star-system hollywoodiano ricevessero sostanziosi premi se nei loro film fumavano Luky Strike piuttosto che Chesterfield, e che i loro produttori trovassero buoni finanziamenti facendo comparire nei film automobili di questa o quella marca. Che poi assieme ai beni da consumare filtrassero attraverso i film anche comportamenti da imitare è cosa troppo nota per essere ripetuta. E tuttavia varrà la pena di spenderci una breve riflessione ulteriore, soprattutto con riferimento alla televisione, sulla quale pare si formi gran parte della cultura (intesa nel significato più ampio del termine) di una popolazione.

Ancora una volta c’è da chiedersi quali possono essere le ragioni del successo di questo o quel programma. La risposta è, in questo caso, ancora più difficile, mentre è facile constatare come le trasmissioni più diffuse e seguite siano, in linea di massima, proprio quelle che il pubblico a torto o a ragione considerato più preparato e colto ritiene le più stupide, noiose e vacue: in questo caso dunque i gusti della classe agiata e colta non sembrano influenzare quelli delle classi inferiori (se addirittura non avviene il contrario!). Di tali trasmissioni si possono individuare due tipologie principali: i quiz e i così detti reality show.

I quiz comportano premi in denaro e perciò si basano e in certa misura propagandano l’idea che, con una certa fortuna e un minimo di abilità, è possibile guadagnare molto denaro in breve tempo, al di fuori della necessità di realizzare un progetto o di impegnarsi in un lavoro, quasi un’implicita esaltazione del gioco in borsa o della lotteria – e in questo senso si radicano anch’essi su un antico istinto, la speranza nella fortuna, naturalmente senza indicare i rischi insiti nel gioco, come invece facevano tante commedie e racconti di fine Ottocento, famosa fra tutti una commedia intitolata La quaterna di Nanni, che prendeva di mira il gioco del lotto, descritto come fonte di illusione e di rovina.

C’è però un altro elemento alla base del successo dei quiz: la possibilità di esibirsi, qui connessa almeno all’idea di esibire un’abilità o una preparazione, mentre nei reality (tipo Il grande fratello o L’isola dei famosi) contenuto e forma del programma si esauriscono nella pura e semplice esibizione di sé. Ancora una volta, l’esibizione risponde a un’esigenza profonda dello spirito umano, quella di essere in qualche modo riconosciuti e apprezzati, ma è diventata fine a se stessa in quella che giustamente è stata definita “società dello spettacolo”, dove lo spettacolo stesso smette di essere comunicazione di contenuti per ridursi al mero dispiegamento del proprio (presunto) fascino o della propria spesso reale bellezza. L’icona e il simbolo di questa che potremmo chiamare l’economia dell’esibizione è certo da individuarsi nelle così dette “veline”, che non devono fare nient’altro che mostrarsi, il meno vestite possibile – e l’antica accusa di prostituzione che la chiesa rivolgeva alle attrici appare in questo caso più giustificata, anche se non più valida: il lavoro delle veline potrebbe essere considerato una sorta di ‘grado zero’ della prostituzione, che è essa stessa pure un lavoro, o almeno una prestazione: Brecht diceva che le prostitute sono gli unici lavoratori che non sono separabili dai loro mezzi di produzione – ma dai relativi guadagni sì, bisognerebbe aggiungere: il mestiere del magnaccia, come peraltro tutte le attività malavitose, contribuisce anch’esso alla formazione del PIL. E si potrebbe anche sostenere che questo tipo di esibizionismo coinvolge, o anzi addirittura assorbe l’esigenza tanto urgente per la democrazia di partecipare attivamente alla vita politica e sociale e costituisce il fondamento della politica-spettacolo apparentemente tanto propizia alla diffusione del dibattito delle idee, ma che invece si risolve in una sempre più totale personalizzazione della politica che a sua volta favorisce, se non determina, l’affermarsi di personaggi carismatici o semplicemente fascinosi e del conseguente populismo plebiscitario.

C’è da chiedersi se, ed eventualmente in quale misura, questo tipo di esibizionismo indotto possa aver concorso con la pubblicità nel favorire quella spinta all’acquisto di beni di lusso o semplicemente superflui che definiamo “consumismo” e che, anche se è determinata dalla logica stessa dell’attuale struttura dell’economia capitalistica, nonpertanto coinvolge la responsabilità economico-morale (per usare un inedito composto) di tutti e di ciascuno. Perciò la sfida verso una riqualificazione dei consumi che renda possibile l’auspicato “sviluppo sostenibile” e comunque fortemente rallentato va affrontata in primo luogo sul piano politico e culturale, oltre che, ovviamente, su quello economico e finanziario.

In una società liberale e democratica il controllo politico dei mezzi di comunicazione di massa non è né lecito né auspicabile. Tuttavia si potrebbe partire dal fortunato (?!) duopolio fra televisione pubblica e televisione privata – c’è già stata in questo senso un’iniziativa rimasta senza esito. Ma bisogna chiarire che in un’economia di mercato la mano pubblica non dovrebbe mettersi in concorrenza con l’iniziativa privata, non sul terreno in cui questa ha interesse a espandersi concorrendo al proprio interno. Partendo da questa considerazione la televisione pubblica dovrebbe dedicarsi unicamente a produrre programmi che, sopprimendo il così detto infotainment (informazione-intrattenimento), propongano una pura e il più possibile oggettiva informazione (o, in alternativa, un’informazione pluralistica che interpreti la realtà da punti di vista diversi), ma soprattutto programmi culturalmente significativi, capaci di proporre valori e stili di vita che contrastino la tendenza allo spreco, all’esibizionismo e all’avidità.

Facile a dirsi, evidentemente: il problema sarebbe come rendere tali programmi attraenti ed efficaci – abbiamo visto quanto modesti risultati abbia ottenuto la pubblicità contro la droga, l’alcolismo e l’alta velocità in auto.

D’altra parte la riforma della televisione dovrebbe essere solo un tassello di una complessiva azione culturale che, come tutte le battaglie di questo tipo, potrebbe dare risultati solo in tempi lunghi. Anche se è vero che tante mode e tanti atteggiamenti collettivi sono cambiati più rapidamente di quanto fosse lecito prevedere, certo grazie al concorso di molti fattori, parte dei quali esterni e imprevedibili: così il brusco cambiamento delle mode, dei valori morali e degli stessi gusti che si è verificato attorno al 1968 è stato determinato dall’esaurirsi del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta come dalla guerra del Vietnam, dall’invenzione della minigonna da parte di Mary Quant e da quella della pillola anticoncezionale. Comunque, fino a quando le amministrazioni comunali dedicheranno tanti soldi e tante energie per organizzare concerti e notti bianche (o notti brave?) e tante altre iniziative che confermano gli ideali della vita in festa insiti nel consumismo, ci sarà poco da sperare.

Sull’onda della  recente crisi economico-finanziaria molti liberisti di ferro hanno dovuto ammettere che, in certi casi, l’intervento diretto dello stato nell’economia diventa opportuno se non necessario. Insomma tutti o quasi sono improvvisamente diventati roosveltiani e keynesiani. Ed è capitato anche di sentire un autorevole giornalista di sicura fede liberista dichiarare che i tempi del “consumismo sfrenato” sono definitivamente tramontati.

Ma allora, come la mettiamo con la proclamata e costantemente ripetuta necessità di stimolare e aumentare i consumi? Aumentare significativamente i redditi delle famiglie meno agiate in termini reali significherebbe appunto stimolare i consumi, ma per ciò stesso anche rilanciare il consumismo sfrenato. Caso mai, la leva fiscale e altri strumenti potrebbero essere utilizzati per ridurre drasticamente i redditi più elevati, ciò che, anche se in termini negativi, contribuirebbe a ridurre l’ampiezza della forbice della disuguaglianza, ma a vantaggio prevalente dello stato il quale, pur astenendosi dal diventare imprenditore e gestore economico, potrebbe almeno aumentare e soprattutto migliorare i suoi servizi di carattere sociale, dedicare più risorse al funzionamento della giustizia e alla protezione dell’ambiente (e trascuriamo il troppo complicato problema del credito).

Si diceva in apertura che la forbice della disuguaglianza riguarda da una parte le disparità di reddito fra le categorie più povere e quelle più ricche di un determinato paese: è notizia di ieri che l’Italia si piazza al sesto posto nel mondo in questa poco onorevole classifica; ma dall’altra parte, e in maniera certamente più drammatica, riguarda anche l’enorme gap che separa i redditi (e in particolare il PIL pro capite) dei paesi industrializzati da quelli dei paesi poveri. È questo il terzo punto che mi proponevo di esaminare, ed è anche il più importante.

Il grande pubblico non sembra essersi reso pienamente conto delle enormi contraddizioni (del resto non tutte negative) indotte dalla globalizzazione. Si continua a parlare di “stati”, riferendosi con questo termine a quegli stati nazionali che si sono definiti tra il 1815 e il 1919, con i notevoli ritocchi succeduti al crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli stati nazionali, volere o volare, continuano a svolgere un importante ruolo economico non solo al loro interno, con la loro politica fiscale, con la più o meno latitudinaria regolazione del credito e del diritto societario, con le opere pubbliche e le commesse, ma anche sul piano internazionale favorendo le esportazioni delle loro imprese, attraendo o respingendo investimenti stranieri nel loro territorio. Recentemente alcuni hanno organizzato vere e proprie agenzie di finanza internazionale con i così detti fondi sovrani. Ma d’altra parte, ormai da molti anni, le grandi imprese hanno quasi tutte, in forme diverse, assunto forma multinazionale e sovranazionale, con il risultato che le imprese manifatturiere tendono a delocalizzare la loro produzione non soltanto in quei paesi in cui la mano d’opera è più a buon mercato, ma anche in quegli stati la cui legislazione è più favorevole alla loro attività. Più complessa la questione finanziaria, dove può succedere che un’impresa giapponese o libica possieda un robusto (e qualche volta perfino maggioritario) pacchetto azionario di un’impresa americana, mentre i ‘prodotti’ finanziari – già di per sé estremamente compositi, costituiti cioè da partecipazioni fra loro anche contraddittorie e spesso nascoste –  penetrano liberamente nelle banche di tutto il mondo, magari ‘infettandole’ come un virus può infettare i computer (titoli ‘tossici’).

Per sua definizione, la globalizzazione dovrebbe basarsi su norme e regolamenti appunto globali, per non risolversi in una pura anarchia che gli enti internazionali come il Fondo Monetario, la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio hanno cercato di evitare –  senza molto successo, anche perché, soprattutto quando si trattava di concedere aiuti e prestiti ai paesi in via di sviluppo, si sono mossi secondo i dettami del fondamentalismo liberista, imponendo a quei paesi condizioni che nel medio periodo li avrebbero portati a peggiorare la loro situazione economica, vietando, per esempio, l’imposizione di dazi mentre ai paesi ricchi era concesso di sovvenzionare robustamente la loro produzione agricola, ciò che metteva fuori mercato quella dei paesi poveri – come denunciato da Joseph E. Stigliz nel 2006. Mentre, per risultare equa oltre che efficiente, la globalizzazione richiederebbe, come molti credono, una compiuta, ma al tempo stesso duttile omologazione delle regole economico-finanziarie delle singole nazioni. Ma il fatto si è che una simile omologazione (per non parlare di una legislazione mondiale) non conviene a nessuno: non agli stati, che tengono a gestire autonomamente la loro fiscalità, ma soprattutto non alle imprese che, come detto, tendono proprio a sfruttare i vantaggi offerti dalle diverse normative, e tanto meno alle banche che vogliono gestire senza intralci la circolazione dei capitali, magari giocando sulla crescente volatilità dei cambi. Tutto ciò – come segnalato e illustrato da Sabino Cassese – ha finora impedito il formarsi di un diritto internazionale fondato su di un’unica autorità globale riconosciuta anziché sull’intreccio di transazioni fra i singoli stati o fra gli stati e le corporation, transazioni il cui rispetto è, a partire dal 1990, garantito da tribunali internazionali, il cui potere è però più teorico che pratico, in quanto essi possono emettere un giudizio, ma non imporre una sanzione, caso mai affidata alle autorità nazionali, vale a dire alle parti in causa.


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