logo drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | I lettori scrivono | Link | Contatti
logo

cerca in vai

Italo Moscati

Italo Moscati, Un filo di gramigna nella gomorra diffusa

Data di pubblicazione su web 27/10/2008
Gomorra, una scena del film

Il mitra kalashnikov. Lo stipendio garantito, ma che non basta mai. Tra l’uno e l’altro, la storia di ieri e di oggi. E di domani?
In Gomorra, film ispirato e diverso dal libro-romanzo-saggio di Roberto Saviano,  due sono le scene essenziali. Teatro concreto: Scampia, regno borbonico della criminalità con cui la gente di Scampia e tutti noi abbiamo imparato a convivere da anni, convivenza interrotta di tanto in tanto da qualche retata della polizia dovuta magari alle soffiate dei collaboratori di giustizia. Il backstage lo ha svelato Saviano, autore investigativo, cronista paziente, letterato rivelazione, pugile per stendere i nervi dopo il successo del libro.

La scena numero uno è quella dei ragazzi che, seminudi in mezzo all’acqua fetida di un mare di merda, giocano a sparare, in realtà fanno training, con il mitra kalashnikov –unico residuo del materialismo storico, del socialismo reale, dell’Unione Sovietica adesso spappolata. 
La scena numero due è quella dell’ufficiale pagatore incaricato dai boss della gomorra di versare denaro ai cittadini e pensionati che vivono a Napoli e zone limitrofe con la spazzatura nel cuore.
La scena dei ragazzi fa dimenticare quella che entra per prima nel film con i gomorristi che si fanno beautiful prendendo il sole elettrico al chiuso; e quella che viene dopo, con i gomorristi manager in attesa dei risultati dell’azione dei gomorristi d’assalto in prima linea a combattere e a far marciare gli affari. Una storia di tutti i giorni, storia accettata non solo in loco. Storia patria.

I ragazzi sono i gomorristi di domani. Crescono in quei valori avvolti nel silenzio, assorbiti per rispetto e per suggestione. Valori che abitano nei muri e nell’aria che si respira, case e dintorni di schifo: tacita necessità della violenza, l’ossequio tacito alla dignità di capi che li hanno partoriti più dei loro genitori legittimi; e poi i desideri, i sogni per il domani. Tutti i domani.

I ragazzi sparano nel mucchio del vuoto in mezzo all’acqua bassa e sporca. È scuola di tiro per garantirsi un posto al sole. Un posto al sole, titolo di una lunga serie di successo. Napoletana.
Sono bruttini, magri, glabri, in mutande, i ragazzi. Hanno le voci gutturali e sottili, gli ormoni girano a mille con un mitra in mano e il pistolino tra le gambe sempre puntato.
Sono un simbolo. Per questo li hanno messi nel manifesto del film di Matteo Garrone. Esprimono perfettamente, sincera e autentica come l’adolescenza incosciente e serena, una formula del poeta Thomas S. Eliott: nel presente c’è il passato, e c’è il futuro. Formula elastica. Anche nel passato c’è il presente, per non parlare del futuro che contiene entrambi.
Scena e manifesto sono un urlo feroce, un avvertimento: è così; seguito da una domanda tragica, fatale: nulla cambia o può cambiare?

Torna alla memoria un’altra formula, quella del principe Salina nella Sicilia del gattopardo e del gattopardismo. Molte cose, molte persone sono cambiate, molta acqua è passata sotto i ponti. Lo specchio infedele delle televisioni lo racconta ogni giorno, ogni minuto. Ma i gattopardi ci sono ancora. Visibili o invisibili. Vivono dovunque in Italia, preferibilmente nel Sud, dove i crimini e i criminali che sono il romanzo del cinema e delle tv (quanti sono i film sulla mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, la sacra corona unita?) occupano il territorio di quattro regioni. Non hanno bisogno né di castelli né di quarti di nobiltà, né di sangue blu. Comandano e vivono  tra il sangue rosso e i fanghi multicolori del degrado. Tra povertà e felicità di viverci.

La seconda scena, quella della dell’ufficiale pagatore con giubbotto antiproiettile, segna l’apoteosi di una pratica nazionale, il residuo di una mentalità creatasi nel tempo e arrivata al periodo fascista e poi al periodo della democrazia; e qui a lungo consolidata.
L’attore Gianfelice Imparato, con la sua faccia qui da ragioniere rassegnato e coinvolto, ci ricorda l’antica religione della burocrazia paternalista, caricatura della famiglia e dello stato, entrambe sono sempre piaciute nel paese del tricolore. 
È piaciuto e piace soprattutto lo stato erogatore, lo stato che paga i mendicanti di rango delle grandi imprese che non rischiano e una folla di mendicanti della  compatta corte dei miracoli dei ministeri o dei posti all’ombra della politica e delle istituzioni ministeriali dal ventre capace. Unica forma di egualitarismo riconosciuta e accettata da tutti: l’elemosina ricca o povera, una cava di pietra, anzi una pietosa torre di pgr, per grazia ricevuta, nella superstizione del prendere e del rivendicare.
Il ragioniere rassegnato e in pericolo perenne di morte è blandito, ricattato, minacciato dai clienti della gomorra, clienti che sono la forza lavoro, espressione di un’armonia nel dialogo fra potenti e mano d’opera che scavalca l’Inps e tutti gli enti di previdenza. Una macchina che funziona in modo capillare. 

Sono, quelle del film di Garrone che viene da Saviano, le immagini più forti e vere. Sono tra bagni solari dei boss, sparatorie, sirena della polizia, il fior della gramigna che cresce imperterrita. Una gramigna, erba cattiva, dalla strana bellezza. Il fiore del film.
La gramigna (i ragazzi avviati al futuro per cui si preparano, il ragioniere che sarà sostituito da un altro ragioniere con giubbotto antiproiettile) trasmette l’anima di un disagio che è già morte. Anche la spensieratezza è tortura in corso, tortura della realtà che c’è e non cambia
Vorrei avere capito il senso di Gomorra e del suo successo in questi ritratti che gli ho rubato, nei colori spietati, negli odori acuti delle periferie sporche, nei dolori che si sopportano e non guariscono. 
Vorrei avere capito anche che, per capire il film, bisogna stare dentro al momento in cui viviamo. Non soltanto nel nostro piccolo paese, periferia del mondo, terra di camerieri e di albergatori come celiava il capo del futurismo Filippo Tommaso Marinetti.

Marinetti credeva di sapere tutto. Aveva delle visioni: coprire i canali veneziani e mettere i tram in nome della contemporaneità. Si contraddiceva anche lui per disperazione, per vana speranza di cambiamento che lui chiamava velocità verso il domani. Ma  come poteva vivere Venezia di turismo e di turisti ricchi, e oggi poveri e di massa, senza i canali e le loro zaffate? Zaffate bene culturale. Un soffio di Acqua di Giò, poi all’Harry’s Bar.

Nella nostra piccola periferia con la sua gomorra  manca il fiato per respirare. E sappiamo perché. Ma non ci basta. Siamo legati al carro della globalizzazione. I miasmi li esportiamo. Nei terzi mondi e luoghi limitrofi.  Derrate di avanzi: dai  junk-bond ad ogni altro scarto, dagli elettrodomestici al trash televisivo, dalla moda al calcio. Però siamo ricambiati. Oggetti d’imitazione e spring rolls di fanghiglia. Carrette del mare cariche di “turisti” da rinchiudere dai centri di assistenza di Lampedusa e limitrofi. Hotel senza stelle.
Un disagio generale, sfuggente, troppo liquido, come direbbe Zygmunt Baumann.

Il film di Garrone vive su uno sfondo e non su un paesaggio (li abbiamo compromessi quasi tutti), come direbbe Pier Paolo Pasolini. I corpi vuoti armati di kalashnikov , tirati su a cocaina, si muovono su uno sfondo di pochi chilometri quadrati, casermoni e strade polverose o male asfaltate,  pile di auto e vecchi ciondolanti. Uno sfondo in cui i volti, le persone, sono assediate. Due volte: dalla gomorra interna e dalla impotenza dei poteri che non ce la fanno a sfrattare l’ordine criminale fondato sul disordine.

Più che ai film del neorealismo - definizione che esce regolarmente nel mito della realtà, realtà che sfugge quando pensi di averla trovata - Gomorra fa pensare al primo film di Pasolini, Accattone, 1961.
Lo sfondo del film del regista-poeta sono le borgate romane, davanti ad esso il volto indimenticabile di Franco Citti. Una storia fatta di vuoti (la società, la religione, la cultura) e di pieni (la voglia di vivere, la necessità di andare avanti magari incontro senza saperlo alla morte, tanto la morte sarebbe una liberazione). Storia italiana.
Qui serve una breve riflessione sul passato glorioso del neorealismo. I film di Roberto Rossellini (Roma città aperta, Paisà), Vittorio De Sica (Sciuscià, Ladri di biciclette), Luchino Visconti (Ossessione, La terra trema, Bellissima), Giuseppe De Santis (Caccia tragica, Riso amaro, Non c’è pace tra gli ulivi) - tutti compresi fra il 1943 e il 1951 -  oggi li possiamo guardare con occhi più precisi, sereni.
Essi nacquero perché la voglia di raccontare dei grandi registi che li realizzarono si materializzò nel trasferimento delle cineprese dagli studi chiusi (Cinecittà era occupata dai profughi) all’aperto, nelle città e nelle campagne, su uno sfondo di macerie e di desolazione, di paura e di fame.
L’occhio di quei registi fece un grande lavoro perché seppe dare valore al ronzio delle cineprese, e fece lievitare soggetti, sceneggiature, recitazione anche dei cosiddetti attori presi dalla strada.
Il lavoro compiuto si trasformò in un potente soffio artistico carico di passato e di eredità ricevute o cercate.
Dove andarono a prendere ispirazione e sensibilità quei registi?

In film diversi, compatti, filati, convincenti, ripeto diversi. Uniti al di là dell’insegna neorealista, quei registi  risvegliavano, riscoprivano, reinventavano il melodramma lirico, la canzone e la commedia popolari, Eduardo De Filippo, l’avanspettacolo, il varietà. La loro memoria pescava nell’esistente nascosto dal regime fascista impettito ma anche nell’epica delle pellicole di Alessandro Blasetti (Ettore Fieramosca, La corona di ferro, Quattro passi tra le nuvole) o nelle commedie sentimentali, ingenue, finissime di Mario Camerini (Gli uomini, che mascalzoni…, Grandi magazzini).  Tutte pellicole tra gli anni Trenta e Quaranta.
La reinvenzione diventò invenzione originale e creativa grazie ai duri sfondi della guerra. Mise in scena una volontà collettiva di ripartire verso un’altra Italia, l’Italia della democrazia, senza dimenticare (troppo) gli anni trascorsi, un sentimento generale nel quale confluirono i desideri e le speranze di scavalcare macerie ideologiche: il fascismo a cui andò il consenso di gran parte degli italiani; e le macerie dei bombardamenti dei Liberatori, le tombe dei militi noti e ignoti e dei partigiani caduti, il nodo alla gola dei morti presunti o dei reduci tornati.

Durò un certo numero di anni questa reinvenzione di emozioni e di linguaggi, cambiando, cedendo il passo al cinema del miracolo economico (l’esplosione dei comici, a cominciare da Totò) fino alla crisi del miracolo, e alla crescente protesta di nuove generazioni che subentrò e si svelò nella contestazione del 1968. Una crisi  raccontata prima da Federico Fellini con La dolce vita (1960) e poi da Pasolini con Accattone.

Storia italiana. Il neorealismo come grande sintesi melodrammatica, fatta più di emozioni di libertà e di un sogno del futuro che di idee, cedette al cinema di impegno politico. Quello di Francesco Rosi (I magliari, Salvatore Giuliano, Le mani sulla città),  Gillo Pontecorvo (La battaglia di Algeri), Giuliano Montaldo (Sacco e Vanzetti), Florestano Vancini (Le stagioni del nostro amore), Francesco Maselli (Lettera aperta a un giornale della sera), Elio Petri (A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso) Damiano Damiani (Il giorno della civetta), Ettore Scola (Trevico-Torino), Bernardo Bertolucci (Prima della rivoluzione), Marco Bellocchio (I pugni in tasca, La Cina è vicina, Sbatti il mostro in prima pagina). Film che scavalcarono gli anni Sessanta e approdarono al decennio successivo.

Che tipo di cinema è stato? Un cinema di sistemazione sociale e politica. Un cinema che trasmetteva la fiducia in una critica che fosse capace di modificare gli assetti politici, le maggioranze, le relazioni fra governi e opposizione. Un cinema-agenda che annotava non sempre con mordente i temi, i problemi, i nodi della attualità anche sepolta, da scoprire e rendere pubblica.
Soggetti, trame, personaggi denunciavano e alludevano a un cambiamento possibile, imminente, plasmato sui partiti su cui si investiva in vista di un futuro diverso, con il sottointeso di una visione caratterizzata, o viziata, da una utopia che si rifaceva volentieri a parole d’ordine e soprattutto a simboli di un vecchio, caro sol dell’avvenir che non si decideva ad arrivare, che non sarebbe mai arrivato.
C’è un titolo di Vancini, Le stagioni del nostro amore (1966), che sembra estrarre dal profondo di quel cinema d’impegno politico una dichiarazione che vale per tante altre pellicole di quel periodo. È la storia di un giornalista di sinistra che sta attraversando una acuta crisi esistenziale, lascia la moglie e torna ai luoghi della sua gioventù, terra (fra Lombardia ed Emilia) di resistenza e di rese di conti sanguinarie tra fascisti e antifascisti nei giorni della Liberazione. Il protagonista, il giornalista di sinistra, è Enrico Maria Salerno, repubblichino di Salò - forse una scelta di condivisione della memoria. Il film, non un bel film,  condensa un senso di disillusione e di impotenza che scorrerà sotto la contestazione del Sessantotto e gli anni seguenti.

Questa disillusione e impotenza germinerà e culminerà in Lettera aperta a un giornale della sera di Maselli (1970) in cui un gruppo di giovani e meno giovani di sinistra pensa di formare una brigata di volontari italiani per andare a combattere nel Vietnam. In Vietnam,  come accadde nel lontano 1936 ad altri volontari che andarono e parteciparono alla guerra in Spagna per contrastare il generale Franco e il franchismo.
Il film di Maselli finisce in un gioco infantile, con i “ volontari”, ingenui e chiacchieroni, che prendono a calcio e si passano barattoli vuoti. Disillusi e impotenti.
Sarà forse per effetto di stagioni di un amore smarrito, o turbato da sogni senza fondo e sfondo, che oggi ricordiamo più volentieri i film della cosiddetta commedia all’italiana, cancellando le riserve e i giudizi negativi di critici anch’essi molto impegnati a farsi affascinare dalle stesse stagioni del loro amore. Il sorpasso (1962) e I mostri (1963) di Dino Risi oppure i film di Mario Monicelli, i film con Alberto Sordi tra cui Il moralista (1959) di Giorgio Bianchi, Mafioso (1962) di Alberto Lattuada, Il boom (1963) di Vittorio De Sica. Meno sentimenti plateali, romantici, meno emozioni, passioni ideologiche più sguardi spietati sulle sgradevolezze e i lunghi peccati sociali d’Italia senza redenzioni.

Quel che è accaduto di recente lo sappiamo. Dai giornali e dalla tv rimbalza nei titoli di libri: La scomparsa dell’Italia industriale di Luciano Gallino (2003), La casta (2007) di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo e tanti altri che suonano il tam tam delle notizie infauste che nutrono la crisi che nutre la società italiana, la crisi che ci portiamo appresso da tempo e quella che viene da fuori e ci trova impreparati. Tam tam del panico.

Gomorra di Saviano è il libro dei libri che presenta il panico. Con la domanda sottointesa  a un film che non dà scampo: che si può fare? ma c’è ancora qualcosa da fare?
Garrone ha individuato, circoscritto, descritto, analizzato questo panico nella sua provocazione senza intenzioni che non siano serie, amare, persino dolorose. Un romanzo saggio scritto dall’interno di una vita di studio, partecipazione, passione sorvegliata, e  di una efficace capacità di rappresentazione. Un film che guarda con forza a una  dimensione letteraria e la guarda in faccia senza intenerimenti. Il romanzo è la cronaca di una morte annunciata e di un coma che non finisce. Il film è un funerale alle illusioni e alle letture ideologiche facili, consolatorie, insomma solo politiche dei politici di professione o di parte presa.
L’incontro con Garrone non poteva essere più riuscito. Garrone, prima del film, ha girato Terra di mezzo (1997), tre episodi ambientati nella periferia romana, prostitute nigeriane, giovani albanesi in cerca di un lavoro qualsiasi, insomma nuovi accattoni; Ospiti (1998), altri albanesi, italiani smarriti; Estate romana (2000), nel caldo della capitale e del Giubileo artisti, vagabondi, precari da sempre e forse per sempre; L’imbalsamatore (2002), cronaca nera, dunque sangue, amori probiti o arditi,  avvicinamento ai territori squallidi della camorra già Gomorra ma non ancora battezzata così; Primo amore (2004), incontro di un uomo che vuole scarnificare una donna, metafora dei sentimenti o di un’Italia smagrita, anoressica, in un’Italia circostante che s’ingrassa con il suo quieto vivere e i suoi “benesseri” che si rivelano ogni giorno più effimeri?

Cinque film, cinque titoli di un cammino ancora in corso. Sassi gettati nello stagno di un cinema anemico qual è quello italiano. In cui né GomorraIl Divo di Paolo Sorrentino, premiati al Festival di Cannes, fanno primavera. Le vecchie stagioni del cinema anni Sessanta sono appassite da tempo ma non si muovono. Nella vigna qualche frutto, qualche grappolo pieno di succo come Gomorra o Il Divo. Ma il resto? E dopo?
Un dato che mette i brividi. In trent’anni, grazie agli aiuti di stato, sono stati prodotti un migliaio di film di debuttanti, o quasi. Mentre Nanni Moretti si faceva i suoi – Io sono un autarchico (1976) - con il superotto. Eppure, i nomi sono sempre gli stessi. Si cerca l’Autore con la lanterna dei soldi pubblici. Ancora niente.
L’anemia del cinema italiano è tale che il rullare dà alla testa, incoraggia, esalta e fa pesare meno la situazione e le sue conseguenze.
C’è un aspetto su cui si sorvola: la comunicazione, intesa come fabbrica sensazionalistica di notizie o echi delle notizie, sta divorando il cinema. Soprattutto da noi. Noi che continuiamo ostinatamente a ragionare in termine di cinema d’arte, settima arte.
La vittoria al Festival di Cannes di Gomorra, migliore regia, e del Il Divo di Paolo Sorrentino, premio speciale, ha reso ancora più evidente il delirio di comunicazione a cui il nostro cinema è sottoposto. Il processo è rapido. Tra esaltazione, oblio, rassegnazione. Pochi giorni e il successo finisce nel dimenticatoio o nel monumento delle parole grosse, delle parole compiaciute. E così un film riuscito lo si consuma nei circoli informativi e lo si abbandona, lo si archivia.  
                                                 

***

Matteo Garrone, anni  quaranta, giocatore di tennis, pittore, ristoratore, figlio di un critico  teatrale e di una fotografa. Dopo aver girato, e raccolto i successi in giro per il mondo e quindi non solo al Festival di Cannes , è diventato padre. La madre di questo figlio è una giovane donna che ha conosciuto a Napoli prima delle riprese del film. 
Biografia asciutta. Poco da dire.
I giorni di gloria a Cannes di Gomorra e de Il Divo hanno suscitato un delirio. La parola d’ordine è o meglio era (si è fatta meno sonora): il cinema italiano è risorto.
Non è vero.
Il film di Garrone è benefico come la gramigna, sfida e spero intacchi i vasti campi di beatitudini che esistono e resistono, fili di ciak e flop (di qualità).








© drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it




 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013