logo drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | I lettori scrivono | Link | Contatti
logo

cerca in vai

Anna Maria Testaverde

Anna Maria Testaverde, “Valente Pittore ed eccellente Poeta”: Giovan Maria Casini tra drammaturgia e ‘primato della Pittura’

Data di pubblicazione su web 30/06/2008
copertina
Il saggio è pubblicato in ‹‹Culture Teatrali›› n.15, autunno 2006, pp. 15-33, interamente dedicato al rapporto tra teatro e arti figurative.

L’intensa ma discontinua vita spettacolare della corte fiorentina tra i secoli XVII-XVIII fu affiancata dalla costante attività drammaturgica dell’associazionismo delle confraternite e delle accademie, un fenomeno che rappresenta la più qualificata e collaudata alternativa spettacolare cittadina. A questo sistema ben radicato spettava pertanto la funzione, come è stato scritto, di suturare “le pause festive, ora con la ricaduta semiprofessionale del repertorio dei comici dell’Arte (per le accademie), ora con il pretesto delle ricorrenze liturgiche e calendariali (per le compagnie religiose)”[1]. All’interno di questo ambito trovavano assai spesso spazio le ambizioni e le passioni per la pratica recitativa di pittori professionisti per lo più conosciuti per il proprio esercizio e per la competenza in  altre forme d’arte. La partecipazione alla vita spettacolare fiorentina (ma il fenomeno era ovunque diffuso) non vide infatti gli artisti  soltanto nelle funzioni più ovvie di apparatori-scenografi, bensì anche come esperti di pratica teatrale di livello semiprofessionistico, soprattutto in forme di drammaturgia comica che richiedevano qualificate doti di improvvisazione: non è solo il caso del celebre Salvator Rosa, in arte Formica, ma anche di personaggi di minore fama, quale Giovanni Paderna il quale, impersonando il “Dottor Graziano, se ne portava di modo che ogni altra superava”, tanto da decidere di  “fare il comico, anzi il ciarlatano”[2] e tornare alla pittura solo in tarda età.

L’esercizio dell’arte recitativa, molte volte praticato come un doppio mestiere, non rivela soltanto una complessa formazione personale, ma esprime una condivisa concezione di apprendimento delle Arti. Le biografie d’artista non mancano di ricordare come la pratica della pittura si accompagnasse alla conoscenza della Musica, una dote che assai spesso si esprimeva nell’abilità canora o nella conoscenza di uno strumento. Se ben nota fu ai contemporanei l’interpretazione nella parte di Orfeo di Cristofano Allori “giovane di mirabil disposizione di voce, et adorno di molte altre virtù, e cantò con grazia, e vivezza al suon d’un gravicembalo, d’una tiorba, e d’un leuto piccolo”[3], altrettanto meritevole di memoria è il dilettantismo di alcuni personaggi più modesti, ad esempio Cesare Baglioni, uomo “spiritoso, vivace e faceto”, “il trastullo di tutti i pittori di sua patria”, il quale “ebbe genio di poesia; sonò assai bene strumenti diversi e nelle conversazioni fece sentire con gran gusto cantare in sulla lira curiosissimi strambotti”[4].

Abile nell’inventiva poetica ma anche come suonatore di liuto fu anche il pittore Ludovico Cardi detto il Cigoli, artista ampiamente presente nell’attività spettacolare della corte fiorentina, sia come apparatore di architetture stradali effimere, sia per le scenografie teatrali. Ma a proposito di questo artista, il Baldinucci mette a fuoco un’altra attività ‘dilettantesca’, non trascurabile della formazione artistica del tempo, ovvero l’applicazione alla Poesia (e alle Lettere in genere), attività ritenuta dallo stesso Cigoli una forma di comunicazione espressiva del tutto simile a quella figurativa:

In questi tempi medesimi […] non solamente egli attese alle fatiche dell’arte sua, ma diede anche luogo al coltivamento d’un suo bel genio di vaga e nobile poesia, la quale, secondo l’antico detto di quel greco, egli era solito di chiamare una pittura parlante e tanto vi si approfittò, che […] sortì d’essere accettato per uno della nobilissima Accademia della Crusca[5].

L’allusione alla “pittura parlante” (la Poesia) riecheggia un diffuso concetto, tratto da Plutarco, il quale attribuiva a Simonide il celebre aforisma: la pittura è poesia muta, la Poesia è pittura parlante. La stretta relazione tra Pittura e Poesia si era ormai già affermata nelle riflessioni teoriche dei trattati d’arte e di letteratura, apparsi a partire dalla metà del secolo XVI, i quali avevano fatto propria la famosa similitudine oraziana, ut pictura poesis (così è la pittura, così la poesia), evocata per giustificare l’idea di uno stretto rapporto[6]. La teoria radicava nei trattatisti l’idea che le Arti fossero da ritenersi sorelle e di conseguenza che il pittore-letterato fosse il fratello gemello del poeta-letterato, e che entrambi usassero strumenti di imitazione della Natura diversi ma simili nel contenuto[7]. Il Dolce, che definiva “gli scrittori esser pittori”, considerava una Pittura sia la Poesia, che la Storia e “qualunque componimento de' dotti”, ricordando che “il nostro Petrarca chiamò Omero Primo pittor de le memorie antiche”[8].

Le superstiti composizioni letterarie degli artisti testimoniano per lo più una produzione non sempre di eccellente qualità (“satiriche poesie” o poesie burlesche”) ma sufficiente per paragonare l’artista-autore all’ “antico Pacuvio, pittore insieme e poeta”[9]. D’altra parte la preparazione letteraria era ritenuta una condizione necessaria alla formazione del pittore, tanto che Giovan Paolo Lomazzo nella sua Idea del tempio della pittura non solo avrebbe poi definito “pazzo” “quello che pensa di poter essere pittore senza saper pur leggere e scrivere, essendo questo il fondamento di tutte le scienze”, ma avrebbe indicato la Poesia “né men giovevole (…) di quello che sia l’istoria”, ritenendola anzi “tanto congiunta, che si può dir quasi una medesima cosa con la pittura per infinite convenienze che hanno insieme, e massime per la licenza del fingere et inventare”[10].

La stima per il pittore letterato era comunque ancora assai viva nel Settecento, tanto che il Negri, formulando un lungo repertorio di scrittori fiorentini, annoverava tra i più celebri letterati  cittadini anche il poco noto accademico del Disegno Giovan Maria Casini, pittore di oscura fama, ma meritevole di essere definito “Valente Pittore ed eccellente Poeta” per avere egli composto “molti componimenti”, tra i quali  “una commedia intitolata La Padovana, con gl’intermedi dello stesso”, data alle stampe nel 1617[11]. Già nella sua Drammaturgia Leone Allacci aveva menzionato ed  inserito l’opera nella vasta produzione teatrale del secolo XVII[12], destinandola così alla memoria storica.

Diversamente la sua produzione artistica ha avuto ben altra sorte, rimanendo nell’ombra, per l’incertezza attributiva delle sue opere e la scarsità delle informazioni biografiche. Più fortunata invece la storiografia riguardante la produzione ritrattistica dei suoi figli, Domenico e Valore, artisti molto attivi presso la corte medicea e i suoi alti dignitari, probabilmente seguaci del percorso artistico già avviato dal padre Giovan Maria ma con minore fortuna[13].

Spetta comunque alla loro iniziativa se fu edita La Padovana e sicuramente avrebbe dovuto avere il medesimo esito anche un’altra commedia, intitolata Le gioie, scoperta tra le carte del padre:

Di qui è che ritrovando noi fra gli scritti di nostro padre una favola intitolata Le gioie, e sapendo che facilmente egli a scrivere solo si metteva a tempo rubato alla sua professione, per avventura potrebbe haver prodotto queste sue gioie di non intera perfezione; perciò c’è parso volendo metterle poi nel cospetto del pubblico per mezzo della stampa, di collocarle nella sublimità dell’Ill.mo nome suo, acciò ricevere possano senza l’impedimento di quelli che non conoscendo a lui valore, poco o molto che sia, ardissino totalmente d’avvilirle dallo splendore delle sue inclite virtù[14].
 

Tuttavia la commedia, provvista di una dedica ad uno sconosciuto personaggio di cui Domenico e Valore Casini si dichiarano “devotissimi servitori” non sembra essere mai stata pubblicata. La commedia, provvista di Prologo e di intermedi, fu però portata in scena da un gruppo sconosciuto di attori dilettanti, forse appartenenti, come il suo autore, ad un medesimo gruppo associativo. Un altro componimento adespota, resta inedito tra le carte del Casini[15].

Questo  “valente pittore”, originario di Monte Aceraia in Val di Sieve, ma divenuto cittadino fiorentino il 16 dicembre del 1615[16], già nel 1572 appare tra i componenti dell’Accademia del Disegno dove nel 1582 fu eletto Accademico[17]. Al suo interno egli ricoprì negli anni varie cariche, da quella di Festaiolo a Console, a Revisore di Conti ma divenne anche  Provveditore, quando nel 1579 fu eletto in sostituzione di Luca di Giovanni Geri, morto ammazzato, ma poi confermato in questa carica anche l’anno successivo, periodo durante il quale egli presentò in Accademia “Francesco di messer Bernardo Buontalenti”, figlio del celebre architetto-scenografo di corte[18]. I registri contabili dell’Accademia ci forniscono scarse ma consistenti informazioni sulla sua lunga militanza in accademia, all’interno della quale la sua condotta non fu forse sempre molto limpida, essendo costretto a restituire somme di denaro e un “vezzo di perle piccole tramezzato di bottoncini rossicci ch’era di Lorenza di Tomaso Francini pittore ch’era pignorato a conto dell’achademia”[19].

Altrettanto scarse sono le informazioni riguardanti l’esecuzione delle sue opere e la sua formazione artistica. La prima testimonianza risale all’ottobre del 1578 quando l’Accademia del Disegno, secondo le direttive del suo programma educativo, aveva messo alla prova alcuni giovani pittori (oltre al Casini compaiono i nomi di Cosimo Gamberucci, Gregorio Pagani, Ludovico Cigoli, Giovanni Caccini), affidando loro l’esecuzione di alcuni dipinti per la festa patronale di San Luca, i quali, una volta giudicati dagli esperti, sarebbero poi stati venduti. In quell’occasione l’artista aveva eseguito una pittura raffigurante “il Disegno con altre figure a tal similitudine […] di braccia 4 ˝ e 3/2 il telaio […] colorita a olio”[20].

Negli anni ’80 il suo nome appare anche nell’esecuzione della controversa pittura, ormai scomparsa,  per la facciata della Compagnia della Misericordia[21]. L’unica opera di sicura attribuzione resta l’affresco, eseguito nel chiostro grande della Chiesa di santa Maria Novella,  rappresentante l’Ambasceria di S. Antonino a Pio II. Nell’attribuirla alla mano del Casini il Fineschi ricorda che l’artista “studiò in Roma, a spese della Famiglia de’ Comi”[22], ma si tratta di un’informazione che trova una diversa interpretazione nel Necrologio dell’Orlandi nel quale si legge che questa lunetta nel chiostro grande “fu dipinta da Giovanni Maria Casini, a spese di Bartolomeo e Domenico de’ Comi”[23]. Un probabile rapporto di committenza può avere vincolato il pittore ai fratelli Comi, personaggi altrettanto munifici con altri artisti, soprattutto quelli aderenti alla Compagnia dell’Arcangelo Raffaello detta della Scala[24], una delle confraternite che si trovavano presso Santa Maria Novella[25]. Durante l’esecuzione dell’affresco nel chiostro, il Casini potrebbe avere però rafforzato il suo rapporto con Federico Zuccari (ammesso che non lo avesse già frequentato in precedenza a Roma, magari formandosi alla sua bottega), il quale proprio in Santa Maria Novella aveva ottenuto uno spazio per preparare i cartoni per i suoi affreschi della Cupola del Duomo[26]. Controversa invece l’ipotesi di una sua partecipazione all’esecuzione del ciclo pittorico commissionato allo Zuccari per la Chiesa Metropolitana[27].

Pur mancando ulteriori informazioni sulla sua produzione artistica (l’ultima notizia risale al 1594, quando eseguì una  Deposizione nella chiesa di San Salvatore a Pistoia), il Casini fu senza dubbio una personalità artistica accreditata sia in Accademia che a corte, tanto che, già nell’ottobre del 1588, nelle fasi di riorganizzazione del teatro mediceo, costruito all’interno degli Uffizi, il suo nominativo affianca quello di Francesco Rosselli e di Stefano Pieri, addetti a stabilire i capitoli operativi e le retribuzioni per le squadre dei pittori[28].

L’incarico di responsabilità ricevuto nel programma festivo per le nozze del granduca Ferdinando I, forse una sorta di sopraintendenza ai lavori per il teatro dinastico, testimonia l’apice della sua carriera artistica e il riconoscimento di un’attività svolta in gran parte all’interno dell’Accademia del Disegno, divenuta in quegli anni una fucina attiva nell’elaborazione dei programmi culturali della corte e nell’allestimento dei cerimoniali dinastici[29].

Forse fu proprio il suo rapporto  con il pittore Federico Zuccari, ad introdurlo in Accademia e nell’ambiente culturale di corte. Senza dubbio il Casini intratteneva con questo artista un rapporto di rispetto e di fedeltà professionale che potrebbe lasciare intendere un suo discepolato.  Nella dedica, premessa alla commedia La Padovana, scritta dal pittore il 21 gennaio 1582 [1583] e indirizzata a “Federigo Zucchero Padron mio osservandissimo”, “Virtiduoso et Eccellente Pictore”, il Casini esprime la riconoscenza e il desiderio di contraccambiare gli  “infiniti benefitii”, ricevuti “del continuo” e “senza merito veruno”:

Al Virtudioso et ecc.te  Pictore, il sig. Federigo Zucchero Padron mio osser.mo
Più volte ho meco stesso considerato virtuosissimo s.re mio in che modo io potessi far chiare al mondo l’ardente desiderio ch’ho sempre tenuto  et tengo di mostrarmi al segnio d’affetione ch’io per più ragionevolmente vi porto, così per le rare virtù che risplendano nel bel animo vostro, come anco per l’infiniti benefitii che del continuo da voi, senza mio merito veruno ho ricevuti, ma l’Altezza del grado vostro e la bassezza del mio stato non m’hanno dato opportuna occasione di satisfare a questo mio debito et onorato desiderio; ora finalmente volendo mandare in luce una mia commedia detta l’Innamorata[30] l’ho voluta accompagniare con l’onoratissimo nome vostro et certo a ognuno […] io più degnamente intitolare le fatiche da me fatte perché oltre all’alte rarissime parti in voi dalla natura concesse, siate a nuova talmente nella poesia esercitato, che benché pochi all’età nostra vi si ponno eguagliare le quali accompagniate al nostro antico et immortale stile del Disegnio et con la candidezza dell’animo, et […] [31]
 vita di vita cui promette fama gloria immortale, ma mentre io m’ingegnio incontrare l’alte doti dell’animo vostro  [….][32] potete essere giudicato adulatore, mi riserberò a più comodo tempo voi intanto riceverete questo mio picciol dono misurandolo con la vostra infinita cortesia et con la grandezza del animo mio. Di Firenze il dì 21 di Gennaio 1582 [1583].
Di vostra Signoria servitore Gio. M.a.Casini

 

La farraginosa prosa del Casini lascia inoltre intendere che il suo “picciol dono” era ben indirizzato, perché rivolto ad un ingegno “nella Poesia esercitato”, con il quale condivideva l’ “antico e immortale stile del Disegnio”. Dunque lo Zuccari, pittore-poeta, destinato a “fama gloria immortale”, avrebbe saputo ben apprezzare sue “fatiche”.

Questa attestazione di stima rivolta al celebre artista restò però inedita, come la sua commedia, per alcuni decenni, approdando infine ad una edizione a stampa per i tipi del Giunti di Firenze che sembra avere avuto una  buona diffusione editoriale. Ma il suo confronto con  le superstiti versioni manoscritte rivela alcune curiosità. Soltanto in tempi recenti è venuta in luce una versione manoscritta, forse da attribuirsi alla mano del Casini, in cui le cancellature, le correzioni e le aggiunte rivelano ripensamenti e interventi apportati nel corso della stesura, tanto che anche il titolo originario (L’innamorata) è stato cassato e vistosamente corretto, sia nella dedica che nell’intestazione della commedia. Nel codice che la contiene è anche allegato un fascicoletto con la descrizione dei sei intermedi che si alternarono ai cinque atti della commedia; la cui stesura non soltanto appartiene ad altra mano ma è stata redatta a posteriori, come bene si evince dalle didascalie sceniche, tutte annotate con tempi verbali al passato.

Diverso invece il carattere della versione manoscritta conservata presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, la quale, pur essendo del tutto conforme al testo riccardiano, è senza dubbio una copia corretta e successiva, preparata per l’edizione a stampa, modificata in alcune espressioni lessicali, ma sempre dedicata a Federico Zuccari. Nell’intestazione si  aggiunge un’importante precisazione, assente nel manoscritto fiorentino, poiché si precisa che la commedia fu “recitata in casa l’Ill.mo sig.re Sigismondo de’ Rossi, conte di Sansecondo alli VI di febraio MDLXXXIII [1584 uso corrente]”[33].

Il puntuale riferimento a Sigismondo de’ Rossi, in quegli anni Generale della Cavalleria medicea, personalità che avrebbe ospitato nel proprio palazzo l’allestimento della commedia, nonchè la dedica all’artista marchigiano, anch’egli Accademico del Disegno, colloca l’impresa drammaturgica del pittore Casini all’interno di una vivace attività teatrale cittadina. La commedia La Padovana non ha pertanto valore per la sua qualità drammaturgica bensì per i suoi riecheggiamenti alla cultura artistica  della corte fiorentina.

Alcuni decenni più tardi, la decisione dei figli Domenico e Valore di darla alle stampe il 15 aprile del 1617, alcuni mesi prima che il suo autore morisse (26 novembre) e venisse seppellito in Santa Maria Novella[34], sembra essere stata sollecitata dalla “richiesta di più nostri amici far vedere  in Scena, et comparire alla stampa la presente favola, composta da nostro Padre, nella sua più fiorita età”.  La prospettiva di un nuovo allestimento scenico, a distanza circa di trentacinque anni dall’esordio in casa dei Conti di San Secondo, aveva dunque invogliato i Casini a dare alle stampe il manoscritto paterno. Ma il confronto tra le due versioni manoscritte superstiti e l’edizione a stampa rivela una sorprendente eliminazione sia della dedica al pittore Zuccari sia del riferimento all’allestimento nel palazzo dei conti Rossi di San Secondo: le motivazioni sono ben intuibili. I figli, convinti dai conoscenti a recuperare un’opera drammaturgica del padre e metterla probabilmente in scena su qualche ignoto palcoscenico, dovettero considerare inadeguata la dedica allo Zuccari (magari il maestro dell’anziano padre) e preferirono sostituire questo pittore con un personaggio contemporaneo, sicuramente più vantaggioso alla loro professione: Giovan Francesco Guidi, segretario di legazione, poi reggente in corte imperiale, che appare talvolta come loro tramite negli incarichi della corte, nonché come loro committente per ritratti di famiglia[35]. Ad un’attenta lettura, la dedicatoria al Guidi altro non è che una sintetica parafrasi scritta dal padre allo Zuccari e qui diversamente impiegata:


Al Molto Illust. Sig.e Pad. Nostro Osser. Il signor Gio. Francesco Guidi Seg. di S. Altezza Ser.
Più volte, habbiamo tra noi stessi considerato molt’illus. Sig. Nostro, in che modo noi potessimo far chiaro al mondo l’ardente desiderio, che habbiamo sempre tenuto, e tenghiamo di mostrarle qualche segno d’affettione, che ragionevolmente li portiamo, per l’infiniti benefitii che del continuo, senza alcun merito nostro riceviamo. Ma l’altezza del grado suo, et la bassezza del nostro stato non ci hanno dato opportuna occasione di satisfare a questo nostro debito, et honesto desiderio. Hora finalmente, volendo noi, a richiesta di più nostri amici far vedere  in Scena, et comparire alla Stampa la presente favola, composta da nostro Padre, nella sua più fiorita età c’è parso accompagnarla con l’honoratissimo nome suo, et di vero che a niuno potevamo più degnamente intitolare queste fatiche da lui fatte, che a V. S. che è uno Armario perfettissimo di virtù; Sperando che sotto la sua protetione, habbia a esser difesa da’ seguaci di Momo, che lacerar la volessero. Riceva fra tanto V. S. questo nostro picciol dono, misurandolo con la sua solita cortesia e con la prontezza dell’animo vostro. Di Firenze il dì 15 Aprile 1617.
Di V. S. molto Illust. Devotiss. Servitori Domenico, et Valore Casini[36].

Nell’imminenza di una nuova rappresentazione teatrale, i Casini la dettero dunque alle stampe, aggiungendovi però le didascalie sceniche, trascritte in una forma più abbreviata rispetto all’originale, apposte con tono prescrittivo, per una precisa restituzione della messinscena originale:

Intermedio Primo
Veggasi in breve spazio, dopo il cadere delle cortine, qual asconderanno gli occhi degli Spettatori la Prospettiva, con non picciolo artificio uscire dalla piana terra la Natura, la quale sia nuda dal mezzo in su con sei Poppe, con crini hirsuti, pendenti fino alle spalle, con faccia né giovane né vecchia, & il resto fino a’ piedi sia a guisa d’un Caos, dipinto di varij animali, la quale cominciò a cantare in questa maniera [...] S’apra il Caos, e partorisca un Putto (il quale sarà sempre ne gli altri intermedii di questa Commedia) & di subito se ne torni dentro al Caos, il qual Putto canti le seguenti parole[37].

Nessuna documentazione fino ad oggi consente di confermare l’avvenuta ripresa della rappresentazione secentesca nè l’originaria messinscena, né tantomeno è stato possibile comprendere su quale palcoscenico sia mai stata recitata.

Tuttavia l’interpretazione dei contenuti della commedia, condotta sull’originaria versione manoscritta della Padovana, aiuta a delineare taluni interessanti rinvii e ad intuire forse le motivazioni della sua composizione. La lettura del Prologo e degli intermedi, interposti agli atti della commedia, giustificano non solo l’omaggio all’artista Zuccari ma anche all’arte della Pittura, che entrambi  professionalmente condividevano. Identificandosi nel personaggio del Prologo, il Casini espone la sua posizione concettuale nei confronti del contemporaneo dibattito sul "Primato delle Arti" e offre la chiave interpretativa della sua operazione drammaturgica. Egli aggiunge così la sua opinione ad una serie di contrastanti posizioni artistiche che nel Cinquecento era nate dalla tendenza a ricercare un’unità tra pittura,scultura e architettura, considerate "arti sorelle", perché tutte derivate dal Disegno[38]. Evidentemente egli diventa qui portavoce di una sintesi teorica che trova le sue ragioni nell’appartenenza alla Accademia del Disegno, fondata dall’architetto Giorgio Vasari che considerava “il disegno, padre delle tre arti nostre architettura, scultura e pittura”[39]. L’opinione del Casini viene esposta agli spettatori, affermando, con tono perentorio, la superiorità della Pittura rispetto a tutte le Arti, sia meccaniche che liberali, che sono anzi in essa tutte contenute:

Io reputo, nobilissimi spettatori, che tra tutte l’arti quella ritenga più nobiltà, e di maggior stima sia meritevole, la quale contenga in sé ogn’altra, senza esser contenuta: et che agl’effetti della natura più s’asomiglia. Tale è la Pittura, arte mirabile, e divina, che non solo alle meccaniche soprastà ma ancora a tutte le liberali in se stessa contiene; et più d’ogn’altra è, della natura imitatrice.

Pertanto, secondo il pittore, la Pittura contiene in sé anche l’arte della Retorica, perché “l’attitudini ben disposte, e la gratia de’ membri che si veggono nelle vaghe pitture, altro non sono che un parlamento, una persuasione et una retorica tanto attrattiva”, così come utilizza i medesimi strumenti della Dialettica “perché ella distingue con i chiari e con l’ombre, sofistica dimostrando il Rilievo, dove realmente non è et colla composizione de’ Colori così bene va sillogizzando, che viene a conchiudere le Figure colorite rilevate con moto, e con spirito”.

Altrettanto nella Pittura sono da individuare i simboli dell’Aritmetica e della Geometria:

Non vedete voi questa esser ripiena di tutti i numeri de l’Aritmetica? Non vi vedete la Proporzione, mentre che da un piccolo disegno ne risultano grandezze di figure immense? Non vedete che come dall’unità i numeri, così da una sola Figura procedono le Storie con moltitudine di diverse Figure, e quasi infinite? In questa si ritrovano tutte le figure della Geometria, perciochè altro non è, la Pittura, che un piano coperto di Linee, d’Angoli, di Superficie, e di Corpi, i quali con unito contrasto fanno la dimostratione di infinite bellezze.

Ma anche la Scultura e l’Architettura, nonché la Prospettiva, definite dal Casini “strettissime sue sorelle”, sono in lei riunite:

Ma che bado io più? Dove è Scultura, et l’Architettura, strettissime sue sorelle, se non in costei? Dove la Prospettiva, dove l’esercitio dell’Armi, et dove,  è finalmente, il pieno ritratto de la Natura, se non in lei.

E se la Pittura può essere identificata con altre Arti, la Musica è la più affine, per la capacità concertativa di tutte le componenti:

Se voi cercate la Musica in costei; guardatela per tutte le parti, che altro non troverete,  che Armonia concordata da diversi Dintorni, Colori, e sbattimenti, le quali cose a guisa di Consonanze perfette, et imperfette, di Tuoni, gravi, et acuti, et di Misure distanti, formano il Componimento.

Se poi se ne confronta la funzione ‘conoscitiva’, è la Filosofia la scienza a lei più prossima:

E che altro diremo noi esser la Pittura, se non una Filosofia, la quale con il desiderio di sapere (come denota il nome) ha investigate tutte le cose del mondo, et così ben raccolte, che quanto ne à moltitudine di libri si ricerca, tutto nelle buone Pitture si ritrova.

Ma a conclusione di questo esplicito schieramento del Casini all’interno del dibattito sulla supremazia della Pittura, la sua definizione di  “Pittura viva”, “pieno ritratto della Natura”, imitatrice della “verità, co moti, coll’attione, et con gl’effetti”, intende porla a confronto, se non identificarla, con la Commedia, interpretata quale ‘specchio della Vita umana’, affresco vivente in cui si esprimono i ‘chiari e gli scuri’ dell’animo umano:

Di lei adunque noi oggi rappresentarvi alcune figure, le quali vedrete tanto immitare la verità, co moti, coll’attione, et con gl’effetti, che mi rendo sicuro, che direte la nostra Pittura esser viva, la quale come Fiorentina sia, et Fiorentino il suo Autore, esce fuora con questo nome PADOVANA. Dateli adunque attenzione, si come nell’ammirare le buone Pitture usarsi suole. Et vedete, da i colori, et dalla latitudine, di che ella è composta, di cavarne un buon componimento per gl’animi vostri, conciosia, che le commedie non sien altro, se non un esempio, dove si scopre la chiarezza, e l’oscurità de costumi umani.

Se nel complesso la posizione espressa dal Casini riflette la piena condivisione del concetto di imitazione della natura come fine dell’arte, proclamato da Danti a Zuccari e poi Bellori, pur chiamando la Scultura e l’Architettura “strettissime sorelle” della Pittura, di fatto ne sancisce la sua superiorità perché “agli effetti della natura più s’asomiglia”. Inoltre la sua definizione di Pittura "arte meritevole e nobile", in quanto contiene in sé tutte le altre arti, “senza essere contenuta”, riecheggia quella proposta, ma in tempi posteriori, proprio dal suo "padrone" Federico Zuccari, quando questi dichiarerà “la Pittura, figlia & Madre del Disegno, specchio dell’alma natura, vero ritratto de tutti i concetti che inmaginare, e formare si possano”[40].

Se attraverso il Prologo, secondo l’uso terenziano, la poetica del pittore-scrittore, ha trovato spazio ed espressione, anche le personificazioni simboliche degli Intermedi  propongono il concetto di Arte nobilitata dalla fatica della mente o dell’animo, ampiamente condiviso e sostenuto dagli artisti del tempo. Il tema centrale degli intermedi rappresenta l’allegorica formazione 'artistica' di un Putto, il quale, partorito dal Caos della Natura, compirà un percorso iniziatico verso la Fama, la Virtù e la Gloria che lo trasformerà in adulto. Accompagnato da Pallade, conoscerà i doni del “tempio della Virtù” e grazie ad un ramo d’oro riuscirà ad allentare da sé i mostruosi “sette inganni”. Ma lungo il suo cammino incontrerà la Fatica “con giogo in mano, di faccia sterile et sbracciata, cinta di pelle di bove” che lo avvertirà della necessità di provare la difficoltà del cammino:

Ferma il veloce et temerario passo che in questo tempio alcun non entra che provato da me prima non sia. Per quelli s’entra e saglie alla gran soglia che stan soggetti al giogo, et fansi amica. Per cui virtù s’acquista la fatica […]

Soltanto l’accompagnamento dell’Amore e dello Studio, rappresentato “con un gallo sulla spalla, in mano una squadra, un archipendolo, un compasso et altri strumenti simili” (strumenti dell’artista), consentirà al Putto di trasformarsi in “giovane” al seguito della Fama:

Finita la Commedia comparse in Scena la Fama adorna d’infiniti velami con calzaretti et cappelliera ricchissima, con l’ale et dua trombe una per ciascuna mano et dietro il giovane con un dado finto di pietra quadrata per segno di perfezione vestito assai suntuosamente.

Anche nell’inedita commedia Le gioie la rappresentazione delle “buone Virtù”, paragonate alle “gioie” degli animi, costituisce la materia  “delle comiche azioni” del Casini. Ancora una volta spetta infatti al Prologo di ricordare agli spettatori di “riguardare la bellezza de chiari costumi”, riflessi nel componimento come “dentro a forbito specchio”, una similitudine che il pittore aveva anche proposto ne La Padovana. Le allegorie dei tre intermedi (Vigilanza, Ingegno, Fatica, Giovanil Desiderio, Pittura, Disegno, Architettura, Scultura e Prospettiva) ribadiscono ancora la necessità della fatica, ma anche dell’ingegno, per il conseguimento dell’ “immortal Fama” per coloro i quali si applicano alla Pittura. Ma in questa allegoria drammaturgica la posizione del Casini sembra tributare al Disegno il primato tra le Arti, mentre la Pittura, “nobilissima donna che tra l’arti più bella”,  affida ora il Giovanil Desiderio al Disegno “di quest’arte il principio, il mezzo e il fine”, con la speranza che possa “col girar de gli anni /sperar luogo tra quelli /che aqquistar [sic] con le tele e co’ colori /Nome di Mute Muse et non Pittori”[41].

Mentre il Prologo e gli intermedi delle commedie del Casini servirono a filtrare le sue posizioni teoriche di pittore del tempo, le trame drammaturgiche, lasciano intravedere prestiti tematici e richiami a forme comiche che riecheggiano i recuperi plautini tradizionali della drammaturgia regolare contemporanea. Ma per quanto riguarda La Padovana  il riferimento a La Cofanaria, commedia di Francesco D’Ambra recitata nel 1565 dalla Compagnia di San Bernardino, per le nozze di Francesco dei Medici con Giovanna d’Austria, e posta in scena sul palcoscenico del teatro provvisorio costruito nel Salone dei Cinquecento dall’architetto Giorgio Vasari, è piuttosto stringente[42]. In entrambe le trame comiche è il medesimo oggetto (“una cassetta di drappi”) a svolgere, secondo un cliché consolidato, la funzione di snodo-drammaturgico, al centro di una burla che risolverà infine gli amori contrastati di due coppie, il gioco del travestimento uomo-donna, gli scambi di ruolo. Il riferimento alla “cassetta di drappi” viene illustrato nella commedia La Padovana in una piccola incisione, posta come capolettera all’incipit del Prologo.

Il confronto tra le didascalie sceniche del testo del Casini e la descrizione degli intermedi descritti nel 1565  rivela poi, in talune parti, una pedissequa copiatura:

Intermedio secondo
Finito il primo atto, seguitandosi sempre l’incominciata favola da una delle quattro strade che per uso de’ recitanti s’erono nella scena lasciate, uscì l’istessa Pallade con il putto per la mano et mostrandoli il tempio della Virtù disse[43]. 

Ancora più fedele la descrizione dei costumi e il meccanismo scenotecnico introdotti nel quarto intermedio:

Dove che mentre diceva l’infrascritte parole, si vidde in un attimo quasi dal pavimento della scena nascere sette monticelli da quali mondi uscì sette inganni, et questi furno agevolmente conosciuti per tali per ciò che ciascuno aveva sopra la capellatura ma con diversa et graziosa attitudine una volpe quali in vero diedero piacevole et festosa veduta de’ riguardanti, avevano il busto poi tutto macchiato et [bindanato?] a guisa di pardo te il resto del corpo et le zampe et le code in sembianza di serpente. In mano altri di loro avevano trappole, altri armi, altri oncini o rampi, quali aggirandosi intorno al putto sempre mutamente con questo solo perché la commedia non venisse offuscata là dove il putto disse  i seguenti versi liberandosi da loro[44].

Sebbene l’edizione a stampa confermi che gli intermedi de La Padovana furono messi in musica con un grande dispiego di strumenti musicali ed eseguiti dai personaggi, soltanto nelle versioni manoscritte se ne ricorda il nome del compositore, Zanobi Ciliani. Ma l’attestazione di paternità a questo musico, iscritto al Ruolo di corte tra il 1579-1588 e protagonista di tre degli intermedi allestiti nel Teatro di corte nel 1589[45], altro non è che una dicitura copiata, con la sostituzione del nome di Francesco Corteccia:

et tutti questi intermedi furono accompagnati da una musica la quale cantava un madrigale avanti l’intermedio et uno dopo et fu tutta da musica accompagnata con gl’infrascritti in strumenti
Da quattro gravicemboli doppi
Da quattro viuole d’arco
Da dua tromboni
Da due tenori di flauti
Da un cornetto muto
Da una traversa
Da duoi leuti et per esser la stanza capacissima, rendeva gran melodia detta musica fu composizione di ms. Zanobi Ciliani in detta professione eccellentissimo[46].

Potrebbe trattarsi di una rielaborazione "letteraria" degli intermedi, inserita nel testo della commedia soltanto a posteriori, oppure di un effettivo recupero di motivi scenotecnici e costumistici per La Padovana, suggeriti da qualcuno che effettivamente aveva assistito al celebre spettacolo dinastico. Resta comunque interlocutoria l’ipotesi riguardante l’uso di un palcoscenico tanto ampio da poter ospitare effetti scenici pari a quello del teatro di corte, presupponendo l’esigenza di un assetto scenico che prevedesse “quattro strade” e un ampio sottopalco per la fuoriuscita dei personaggi, provvisto inoltre di un sipario (“le cortine”) per occultare la prospettiva.

Forse la risposta (dubbiosa ma credibile) è implicitamente contenuta nella dedica della commedia a Federico Zuccari e nell’allusione alla sua presunta rappresentazione nel palazzo di Sigismondo de’ Rossi. Entrambi infatti rinviano ad un contesto festivo che vide i due personaggi sopracitati, pur con ben differenti funzioni, partecipi attivi dell’evento dinastico. Tra tutti gli accademici del Disegno, coinvolti nella realizzazione degli apparati festivi dinastici, spettò al pittore Federico Zuccari l’esecuzione di quel celebre sipario dipinto che occultò il palcoscenico della commedia La Cofanaria e che ebbe vita fino a circa metà dell’800:

La tela grande alta 16 braccia e larga 22, con la quale si copriva la scena, dipinse, fingendovi dentro una grandissima Caccia fatta in un bellissimo Paese, Federico Zuccheri, da S. Agnolo in Vado, mostrando in ciò la gran cognizione che egli ha dell’arte della pittura[47].

Nel contempo anche il riferimento a Sigismondo de’ Rossi, all’interno del cui palazzo fu forse allestita la commedia del Casini, richiama ancora una volta l’evento dinastico del 1565. Sigismondo de’ Rossi, imparentato con Cosimo dei Medici, figlio di Giovanni dalle Bande Nere, era stato “allevato a Firenze presso al Principe Don Francesco”[48] e fu “carissimo a Cosimo de’ Medici, primo granduca, padre del suddetto Francesco”[49]. Egli aveva acquisito onori durante la conquista di Siena, aveva accompagnato il principe Francesco nel suo viaggio in Spagna, preso l’abito di Cavaliere di Santo Stefano e poi, negli anni Ottanta, aveva acquisito la carica di Generale della Cavalleria. Ma soprattutto aveva svolto in precedenza una significativa missione diplomatica, essendo egli stato mandato “in Ispruch molti mesi, in nome del detto Francesco […] appresso la Regina Giovanna”[50], per trattare le future nozze e ad accogliere successivamente la sposa nel suo ingresso ufficiale[51]. Il Conte fu dunque sempre “gratissimo” et “rimunerato et riconosciuto”  dalla corte della giovane coppia Medici, tanto che, poco dopo le loro nozze, “facendosi ogni dì più noto il valore, et la nobiltà di Sigismondo, hebbe per moglie Barbara Trappa Tedesca di nobilissima famiglia, amatissima et famigliare d’essa Regina (Giovanna)”.

Quale fosse la residenza fiorentina dei Rossi di San Secondo in Firenze, all’interno della quale sarebbe stata allestita la commedia La Padovana, resta ancora oggi incerto. L’eredità, percepita però dal figlio naturale Giulio nel 1613, ha però consentito di identificare la residenza di “un casamento o vero palazzo al Canto alli Alberti, popolo di Santa Croce”. Il presupposto palazzo è attualmente da identificarsi con il cosiddetto Palazzo Mancini, ubicato in una posizione urbanistica strategica, al fianco dei palazzi di Jacopo Corsi e Giovanni Bardi, gli artefici di quelle forme di ‘recitar cantando’ che forse anche nella commedia del Casini il musico Zanobi Ciliani aveva sperimentato.

Un probabile rapporto di committenza potrebbe avere legato il pittore Casini al Conte di San Secondo: egli potrebbe aver eseguito lavori sia nel palazzo fiorentino che in quella villa detta La Barona a Montemurlo[52], ereditata proprio in quegli anni da Sigismondo, che in precedenza era appartenuta, guarda caso, all’erudito Baccio Valori, personalità di rilievo del mondo letterario e in evidenti stretti rapporti di familiarità anche con il pittore Casini, tanto da tenerne a battesimo, nel 1590, il figlio Valore[53].

La drammaturgia del pittore Giovan Maria Casini trova dunque la sua motivazione in una possibile duplice professione, artistica e letteraria, maturata all’interno di un contesto che, seppure non facilmente documentabile, rinvia all’attività intensa svolta in quei decenni dall’Accademia del Disegno nei programmi celebrativi dinastici. D’altra parte fu proprio l’allestimento delle onoranze festive del 1565 a definire i programmi di propaganda tesi a mettere in luce la posizione prioritaria di Firenze, esaltandola come centro di un primato culturale e linguistico[54]. Fu proprio il Disegno “se non morto, certo rinato in questa città, e di mano in mano allevato e stabilito” a porsi come “primaria virtù” cittadina, a segnare nel 1565 il punto di partenza programmatico di un percorso festivo segnato dall’apoteosi della stirpe medicea e dalla rinascita delle Arti nella città stessa.

 II parte
























© drammaturgia.it - redazione@drammaturgia.it




 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013