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Luigi Squarzina

Luigi Squarzina, La motivazione civile e politica nella rappresentazione strehleriana dei drammi storici di Shakespeare

Data di pubblicazione su web 24/01/2009
Giorgio Strehler

E' scomparso a Roma il regista e storico del teatro Luigi Squarzina, uno dei capisaldi della regia italiana e europea del secondo Novecento. Desideriamo ricordarlo ripubblicando un saggio che ci aveva concesso qualche tempo fa.

 

Quando si tratta di Strehler, la mente corre a certi famosi, splendidi spettacoli – l’Arlecchino servitore di due padroni, L’Opera da tre soldi e il Galileo di Brecht, I giganti della montagna di Pirandello, oppure El Nost Milan; e per Shakespeare al Re Lear e alla Tempesta. Ma c’è uno spettacolo meno noto, eppure importantissimo, addirittura centrale e determinante nella carriera di Giorgio, ed è di esso che vi parlerò per svolgere il tema che mi è stato assegnato. E’ Il gioco dei potenti, in cui Giorgio nel 1965 condensò le tre parti e i 15 quadri del Re Enrico VI di Shakespeare, riversandovi la propria visione della Storia.

Il Piccolo Teatro della città di Milano fu fondato nel 1947. Nella prima stagione Strehler fece l’Arlecchino; e mentre il sipario di Via Rovello si apriva e chiudeva infinite volte in quella serata trionfale, in mezzo all’Europa scendeva quella che Churchill chiamò la cortina di ferro tra i paesi comunisti e le democrazie occidentali. Dunque la Storia ha bussato subito alla porta di Via Rovello, e non ha più smesso di farlo. Sarà il nostro vero argomento.

Non per nulla lo Shakespeare dei drammi storici compare già nel cartellone della seconda stagione, con La tragedia di re Riccardo II, nuova per l’Italia. Strehler l’allestì nei modi del teatro elisabettiano: il palcoscenico nudo; niente scenografie, solo quel che ne dicevano gli attori; alcuni elementi venivano portati in scena, come il trono, o un letto; una grande botola serviva per le apparizioni e le sepolture; la notte era indicata dal passaggio di un servo con una fiaccola o un globo illuminato; e così via. Il regista si serviva di quei mezzi “ingenui” quasi per spiegare ai suoi spettatori che una delle più grandi civiltà teatrali del mondo non aveva avuto bisogno di altro per toccare il sublime e l’orribile, confermando la vocazione del Piccolo: non soltanto offrire buoni spettacoli ma educare e ampliare il pubblico e servire una città, secondo il credo socialista dei suoi due fondatori e direttori.

E c’è una ragione precisa per soffermarci su quella prima presenza di Shakespeare. Il Riccardo II racconta l’antagonismo fra due fazioni inglesi con in mezzo un re dapprima autoritario e anche disonesto ma poi pentito e penitente, finché viene ucciso dai sicari. E’ il precedente del lungo e sanguinoso conflitto del 1400 noto come Guerra delle due Rose, la bianca e la rossa, simboli delle due dinastie degli York e dei Lancaster. Ebbene, questa guerra costituisce il soggetto dell’Enrico VI scespiriano e quindi dello spettacolo a cui, 17 anni dopo, Strehler darà un titolo dalla portata molto più vasta: il Gioco dei potenti. Intanto in quel 1948 in gioco c’era il destino dell’Italia, conteso nella gara elettorale tra il Fronte Popolare di Togliatti e Nenni e lo schieramento conservatore guidato da De Gasperi. Il Riccardo II andò in scena pochi giorni dopo il voto. La sinistra fu sconfitta, ci fu l’attentato a Togliatti; i socialisti si resero autonomi, vacillò l’unità sindacale: cominciava l’era democristiana, solcata da correnti interne spesso in subbuglio ma ancorata alla onnicomprensiva chiesa concordataria.

Grassi e Strehler continuano imperterriti nella loro linea, confortati dall’entusiasmo internazionale per l’Arlecchino e dal successo cittadino del Nost Milàn. Il Piccolo Teatro si rafforza, si avvicina a Brecht, Strehler frequenta il Berliner Ensemble a Berlino Est, e nel ’56 mette in scena L’Opera da tre soldi. Brecht a Milano segue le ultime prove, è entusiasta. Il successo è straripante, tutti canterellano le musiche di Kurt Weill, mentre le ostilità ideologiche non si attenuano, in concomitanza con le piazze sconvolte dalle dimostrazioni dei lavoratori e dalle repressioni del ministro Scelba. Sul «Corriere della sera» Eligio Possenti apre la sua recensione così: «Brecht è un autore comunista che lavora a Berlino Est». Dopo la morte di Stalin sono i mesi del “rapporto Kruscev” sui suoi crimini e della rivolta ungherese stroncata nel sangue, a cui conseguono dimissioni importanti dal Partito Comunista Italiano. D’altronde l’URSS lancia lo Sputnik con la cagnetta Laika.

Quasi subito incontriamo lo Shakespeare nel quale Strehler sperimenta uno stile rigorosamente epico, Il Coriolano: recitazione straniata, niente immedesimazione stanislavskiana degli attori nei personaggi, luce diffusa, eserciti di pochi soldati, un siparietto basso lascia intravedere il lavoro dei macchinisti, niente catarsi finale ma apertura dialettica come a dire allo spettatore «Cambia il mondo! ne ha bisogno». Non c’è da stupirsi se i recensori meno disposti accusano la regia di “freddezza”, invece da destra l’influente critico del «Tempo» di Roma la loda in quanto rispettosa delle contraddizioni sociali: e in effetti il mondo non solo è contraddittorio e ingiusto, ma è lacerato dalla Guerra Fredda sotto l’ombrello minaccioso dell’equilibrio atomico fra i due superPotenti. Io posso testimoniare che il Coriolano era ottimo.

Saltiamo molti anni e omettiamo molti bellissimi spettacoli per approdare al fatidico 1965. Nel ’62, dopo il fallimento del governo Tambroni, è nato il Centro Sinistra: un’alleanza che assumerà molte forme e come sappiamo non avrà vita breve. I socialisti ottengono, oltre alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, l’abolizione della censura preventiva sugli spettacoli, che era severissima e grottesca: proibita La Mandragola di Machiavelli, come pure La Governante di Vitaliano Brancati. Io, a Genova, posso allestire il proibitissimo Diavolo e il buon Dio di Sartre, Strehler dal canto suo presenta finalmente il Galileo. E senza più la spada di Damocle della censura, Giorgio si sente libero di realizzare, con audacie di ogni genere, quello che si rivela essere il suo progetto capitale di teatro storico-politico. Quanto Il  gioco dei potenti  fosse importante per lui lo si vedeva già dal fatto che per la prima volta il suo nome figurava in locandina sia come “libero adattatore” del testo che come scenografo e come costumista. Era una serie di punti esclamativi: questo sono io! leggetemi in questo spettacolo! qui volevo arrivare!

E anche noi stiamo arrivando alla questione che ci riguarda.

Allorché negli anni Ottanta lo nominano direttore della giuria del Festival del Cinema di Cannes, a chi gli chiede come mai non fa dei film, Strehler risponde che il regista di cinema dev’essere scrittore, e lui non lo è. Ma proprio in questo Il gioco dei potenti, diviso in due Giornate, è unico, spicca nel suo repertorio, perché contiene molto lavoro di autore. Citerò alcuni brani della Prima Giornata, seguendo il copione fornitomi dall’Archivio del Piccolo, che ringrazio sentitamente. La scena in giardino per la scelta fra le due Rose da parte dei gentiluomini, sudditi di Enrico VI, destinati a scannarsi a vicenda, assume accenti lirici e profetici. Assistiamo a una festa popolare strehleriana rallegrata da Arlecchino. Delle finte streghe dicono di aver recitato nel Macbeth, un anacronismo comico. Un episodio storico, la rivolta di Jack Cade, è ridisegnato da Strehler. Cade, un artigiano trascinatore di popolo, raduna un esercito di mendicanti, sfruttati, disoccupati, ex-carcerati, con i quali arriva a conquistare Londra approfittando del dissidio fra i nobili. Promette che tutti saranno ricchi e mangeranno a sazietà, le fontane getteranno vino, nessuno sgobberà più, chi sa leggere e scrivere verrà impiccato - finché i nobili garantiscono ai ribelli l’amnistia totale del Re e i popolani abbandonano Cade per tornare sudditi ubbidienti.

E’ qui che Giorgio cambia la situazione: i popolani, invece, vengono convinti ad arruolarsi  per la guerra contro la Francia e sfilano cantando inni patriottici. Una svolta politica e ideologica da par suo, sia per il pacifismo che per la condanna dello spontaneismo pseudorivoluzionario e dei massimalismi dilettanteschi. E soprattutto sono strehleriani i frequenti interventi dell’Attore/Presentatore, necessari per riassumere e illustrare le complicate alternative storiche ma riscattati da un linguaggio elevato eppure mai retorico, e arricchiti da considerazioni sui molti vizi e le pochissime virtù dei potenti, sulla vanità delle ambizioni e la caducità del potere, una corsa cieca verso la libidine dell’omicidio e il gorgo dell’annientamento. Ne risulta «l’angoscia della Storia», definizione felicissima di Agostino Lombardo che terrei come chiave di lettura. Niente di realistico o di ricostruttivo, tanto che nella Seconda Giornata il conflitto fra le Due Rose diventa, così dice la didascalia del copione, un balletto meccanico, ritmato da musiche ad hoc. E’ il movimento di due tende, una per ogni Rosa, che si alternano fra vittorie e sconfitte, mentre al centro una tenda più grande gira su se stessa mostrando da una parte la Rosa Bianca di York e dall’altra la Rosa Rossa di Lancaster. Ogni tanto il girotondo degenera in invettive volgari, scontri selvaggi, mattanze, un figlio uccide suo padre e un padre uccide suo figlio, e le tende spazzano via i morti. Il Re Enrico Sesto assiste imbelle. Quanto alla Regina, a conclusione dei suoi amori adulterini con il bel Duca di Suffolk, Margherita ha ricevuto la testa mozza dell’amante.

Il finale è una sinistra  festa di Corte, le coppie nobili ballano in una pace fittizia; al centro Riccardo, duca di York, il mostro gobbo e claudicante numero uno della Rosa Bianca, pronuncia il monologo di inizio del Riccardo III, «Il sole di York ha dissipato l’inverno del nostro scontento», annunziando i cadaveri su cui passerà per diventar Re. Il copione termina con Riccardo ballonzolante; le preziose foto dello spettacolo (sempre dell’Archivio) mostrano anche un Corrado Pani circondato da corpi esànimi, con la spada puntata a sfidare il cielo. Da notare che Pani in seguito avrà un incidente e resterà zoppo davvero.

In quel 1965 lo scacchiere mondiale mostra l’acuirsi e l’allargarsi della Guerra Fredda. Al tavolo dei potenti si gioca una partita mortale: lo spettro atomico è diventato nucleare, basterebbe un incidente a provocare la catastrofe. Dal 1960 si combatte in Corea, nel ’64 la conflittualità nel Vietnam, liberato dal dominio francese, ora scosso anche in Algeria, diventa guerra fra gli Stati Uniti e il Vietnam del Nord. La Lunga Marcia ha portato Mao a Pechino ma a Taiwan è nata una seconda Cina sostenuta dagli americani, che non riescono a eliminare Fidel Castro da Cuba; per non parlare dei Tedeschi che vivranno “separati in casa” da un muro micidiale. In Italia il benessere iniziato a metà dei Cinquanta anche grazie al Piano Marshall è cresciuto fino all’euforia ma ormai si profila una crisi economica e crescono i contrasti fra Partito Comunista e Centro Sinistra, due Rose che nessuna terza dinastia potrebbe unificare come in Gran Bretagna.

Il grandioso, fremente spettacolo al Teatro Lirico, recitato e agito da trenta attori, in primis Valentina Cortese e Franco Graziosi, è una straordinaria metafora non solo della situazione italiana passata,  presente e in prospettiva, ma anche della Storia in sé, altalenante sopra l’abisso. Senonché l’esito dello spettacolo non è all’altezza delle aspettative, pubblico e critica, nonostante i tagli e le revisioni, non premiano lo sforzo produttivo del Piccolo Teatro né le strenue fatiche mentali e fisiche di Giorgio. La sua insoddisfazione è cocente, una crisi. E adesso la Storia che lui ha processato sembra volersi vendicare. Il ’68 lo investe in pieno. La contestazione giovanile di ogni autorità costituita e delle strutture culturali lo trova consenziente, quantunque non proprio convinto – infatti prenderà le distanze dalle facilonerie e dai diritti senza doveri. Archivia la sconfitta e nell’imperversare delle agitazioni e dei mea culpa degli intellettuali, spiazza tutti lasciando la direzione del Piccolo al solo Grassi, da cui ormai non poco lo divide: Paolo, tetragono, continua a concepire il teatro come servizio pubblico, mentre lui pensa a un teatro “d’arte”. E fonda un gruppo indipendente, “Teatro e Azione”, con cui mette in scena La cantata del mostro Lusitano, radicale pamphlet anticolonialista, e il Brecht di Santa Giovanna dei macelli, sulla lotta fra capitale e lavoro. Due colpi di tamburo, azioni, oltre che grande teatro.

Tornerà in Via Rovello nei primissimi anni ‘70 come direttore unico; Paolo Grassi diventa Sovrintendente della Scala. E si ripresenta rinato, con un magnifico Re Lear, pantografandone sia la ferocia che la pietà. A quel punto...

Stiamo tirando le fila per l’epilogo. Perché un epilogo c’è, non poteva non esserci. A quel punto, dicevamo, è come se Strehler sappia già che ormai lo aspetta, inevitabile e desiderato anche se non prossimo, l’appuntamento scespiriano finale con La Tempesta, il cielo sereno dopo tanti uragani; e gli è chiaro che quando avverrà sarà l’addio a Shakespeare, il mago Prospero spezzerà la bacchetta magica. Ma prima gli rimane un conto in sospeso, quello con il suo Shakespeare. Così, interpellato da Salisburgo per il ’73, coglie l’occasione per tentare un nuovo, nuovissimo Gioco dei potenti. E’ sicuro di sé, uomo di intuito e non di calcoli, animato da un dèmone che lo trascina, come lui sa trascinare gli attori, i cantanti, i tecnici. Stavolta avrà i mezzi che chiede, quasi 50 giorni di prove, un grande palcoscenico a piattaforma ricavato da una sala di equitazione, la tecnologia più avanzata, uno stuolo entusiastico dei migliori attori austriaci, tedeschi, francesi, l’attenzione ammirata di tutta l’Europa. Le due Giornate di Agosto hanno un successo travolgente, applausi di venti e più minuti, pietà per le vittime, esecrazione per i carnefici - come nell’Italia del terrorismo rampante - non senza risate liberatorie.

Nel suo corpo-a-corpo con la Storia Giorgio ha vinto, anche contro se stesso. Dichiarerà: «Il primo Gioco dei potenti era nato come una visione onirica e fu un’altra cosa, monca, sulla scena» – mentre ora a Salisburgo gli è riuscito di «fare dei potenti i solisti della morte»: due immagini contrapposte, sogno e musica, che ci dicono la versatilità dialettica e la ricchezza poetica  del suo genio.

Perché è di un autentico genio che qui vi abbiamo parlato.










 
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