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Siro Ferrone

Siro Ferrone, Il Re Bello. Diario di una messinscena

Data di pubblicazione su web 06/02/2008
Il Re Bello

Pubblichiamo il saggio di Siro Ferrone (pp. 11-18) contenuto nel volume Il Re Bello. Diario di una messinscena, a cura di Isabella Bigazzi e Siro Ferrone, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2007.



Un esperimento ben riuscito

La pubblicazione del libretto e di alcuni apparati critici in occasione della preparazione e poco prima dell’andata in scena di uno spettacolo del tutto speciale come Il Re Bello di Roberto De Simone dall’omonimo racconto di Aldo Palazzeschi consentì di illustrare i meccanismi di un cantiere aperto disegnando la mappa dei lavori in corso. Questa seconda pubblicazione, che sopraggiunge largamente postuma, non vuole essere un atto di consuntiva commemorazione quanto piuttosto l’anello che tenta di congiungere quell’esperienza con il futuro della pratica teatrale universitaria.

Nell’occasione della preparazione dell’opera si sperimentarono, più con buona applicazione che con freddezza strategica, una serie di processi didattici e produttivi che coinvolgevano tanto gli studenti in via di formazione quanto professionisti già largamente sperimentati. Gli uni (provenienti dai corsi di laurea triennali di Lettere, di Dams e di Progeas, dall’Accademia di Belle Arti, dai corsi di Progettazione della Moda) e gli altri (musicisti e scenotecnici) avevano provato a impastare e dosare le rispettive competenze in contesti operativi offerti dalle istituzioni teatrali della città e della provincia (Teatro del Maggio Musicale e Teatro della Pergola a Firenze, Teatro Politeama e Teatro Metastasio a Prato). Ed avevano scoperto per esperienza diretta quanto ci fossero nel nostro territorio generose disponibilità e mediocri gelosie, indifferenze settarie e aperture incondizionate, pigrizie corporative e energie nascoste: insomma quell’incrocio di tensioni positive e di freni regressivi che fanno della civitas fiorentina la moderna incarnazione del motto che campeggia sulle armi dell’Accademia (non a caso) degli Immobili, nobile e antica istituzione medicea: «In sua movenza è fermo». In questo stato di immobilismo nevrotico – quasi sempre intrecciato ad un fittizio adeguamento alle mode di transito – concludere quel gesto musicalteatrale fu un’azione temeraria.

Osservando da vicino quel che fu fatto in quel periodo (furono quasi due anni di lavori e di sperimentazione) e quel che si è imparato a fare in corso d’opera, contrariamente a quanto potrebbero fare pensare le parole che abbiamo inanellato nei primi paragrafi del presente ragionamento, non deve far credere che ad abbandonare ogni speranza di lavoro teatrale stiamo pensando ma, al contrario, a dare continuità a qualche residuo di sogno, sopravvissuto alle aridità burocratiche e amministrative che hanno imperversato dopo la felice tempesta dell’evento. Dal quale del resto giungono tuttora messaggi che, a saperli leggere, paiono confortanti. Primo fra tutti il sopravvivere, neanche troppo nascosto, di speranze giovanili. Dal corso di laurea di Progettazione e Gestione dell’Arte e dello Spettacolo e dagli altri curricula universitari sono usciti diplomati che si sono inseriti, individualmente o con le loro associazioni (penso al gruppo di Arteriosa capeggiato da Francesco Fantauzzi), nel travagliato mondo della produzione culturale. Per parte loro, i due complessi universitari (il coro e l’orchestra) hanno ristrutturato i propri organici e, attraverso crisi positive, sono cresciuti in qualità e quantità costituendo adesso due organici vitali e operosi.

Nel corso delle ultime settimane di produzione emerse quello che è forse il principale quesito che si para di fronte a chi voglia integrare le risorse del professionismo teatrale e musicale con le aspirazioni del dilettantismo di qualità (consapevoli che in questo secondo fronte possono annidarsi – ma non ve ne è mai certezza – qualità e personalità destinate ad essere promosse nel primo fronte). La rigida separazione delle due anime che da sempre, integrandosi in pacifica osmosi, hanno fatto vivere e fiorire ogni forma di spettacolo ha determinato il deperimento, intimidito e talvolta umiliato, di quel dilettantismo di qualità che costituì l’humus di un’intera civiltà. Da quel territorio di mezzo sono spesso scaturiti talenti cantanti e recitanti, per non parlare dei virtuosi della scenotecnica e della costumistica, che difficilmente le preselettive scuole specializzate riescono a formare. La contaminazione di un’operosità fabbrile con lo studio teorico è una ricchezza preziosa che la scuola italiana predica e realizza abbastanza bene nel ciclo delle materne e elementari procedendo poi – auspice un arretrata gestione ministeriale – ad una amputazione progressiva del versante pratico a vantaggio del più consolidato protocollo didattico “teorico”.

Tutto il complesso didattico dispiegato dalle scuole medie (inferiori e superiori) si dibatte fra la percezione di quel che occorrerebbe fare e l’incapacità a farlo. Surrogati sorgono qua e là, a margine delle scuole pubbliche, grazie agli interventi spesso improvvisati di enti locali, cooperative volonterose, associazioni di genitori, furbi imprenditori. Scuole di musica, scuole di ballo, scuole di teatro, scuole di disegno, affiancano le scuole di calcio, basket, pallavolo,  judo, a integrare dall’esterno quello che i provveditorati poco previdenti e il ministero preposto all’istruzione non sono in grado di fare per motivi indiscutibili, primo fra tutti la scelta politica e economica di collocare l’educazione e la formazione espressiva dei giovani assai in basso nella scala delle priorità scolastiche. Mentre di fatto la percezione passiva dello spettacolo è in forte crescita. Come a dire che il male si estende e le medicine scarseggiano. E pensare che i Gesuiti avevano costruito con qualche secolo d’anticipo un sistema di studi (la ratio studiorum) che aveva anche nelle arti performative (dal teatro alla musica, dall’esercizio sportivo alla danza) i suoi fondamenti.

Per fortuna la resistenza al male è più forte della indifferenza al bene e i dilettanti non muoiono mai, il teatro in tutte le sue accezioni è una vocazione insopprimibile nell’essere umano come già ci aveva insegnato la Poetica di Aristotele.  E le buone vocazioni resistono, cercando in questo contesto meno felice il modo per sopravvivere. Infatti se diminuiscono gli spettatori che vanno al cinema, quelli di teatro paiono stabilizzarsi. E intanto riprendono vigore le compagnie spontanee dei dilettanti tanto fra i giovani in età scolastica quanto fra i meno giovani. Il processo richiede pazienza, i risultati non sempre sono immediati. Occorre restare indifferenti alle indifferenze del legislatore e lavorare, per quanto possibile, in autonomia. L’esperienza condotta dal centinaio di giovani coinvolti in divera maniera nella produzione della nostra opera è stata per questo significativa.

Ad una prima fase lunga e vischiosa, durante la quale l’appressamento al risultato finale pareva non finire mai, quando gli ostacoli pratici e materiali si sono infittiti, intrecciandosi con la burocrazia dei corsi di laurea e gli impacci di un curriculum accademico niente affatto elastico, ha fatto seguito una fase conclusiva dell’allestimento in cui tutti i processi formativi e il profitto specialistico si sono condensati. In quel momento la qualità del lavoro e, di conseguenza, i risultati  dell’impegno dei giovani studenti si sono evoluti e manifestati in maniera proporzionale alle difficoltà crescenti dell’impegno pratico. Nel fuoco delle azioni fisiche che l’incedere delle prove sceniche scandiva, tanto nei laboratori della sartoria (uno dei fulcri creativi più originali di tutta la produzione) quanto nelle sale-prova del coro e dell’orchestra come nell’antro buio del  Politeama di Prato, dei suoi camerini e del sottopalco, così come nel vasto palcoscenico della Pergola, in quel vivo contrasto di passioni ogni giorno si potevano registrare sconfitte e ritirate ma anche avanzamenti e illuminazioni.

E’ difficile raccontare un romanzo di così disparati intrecci. Basti dire che ci sono stati anche abbandoni e nuovi inserimenti, crisi di sconforto e applicazioni tenacissime. Insomma tanti psicodrammi che mi hanno fatto pensare a quanto sostenevano i teorici del neoplatonismo teatrale del primo Seicento, in qualche modo i precursori del teatro francese del Grand Siècle: essere il fuoco del teatro una grande medicina, destinata non alla catarsi degli spettatori ma soprattutto a quella degli attori; un vero e  proprio incendio rigeneratore che attraverso la passione incarnata sulla scena produce una combustione interiore che purifica lo spirito attraverso il corpo. Senza toccare un tema così sproporzionato ai nostri modesti intenti e risultati, si può però dire che al termine di quella lunga catarsi dalla parte interna del palcoscenico moltissimi dei partecipanti si sono sentiti cambiati. Hanno potuto percepire nella propria persona fisica cosa significa essere, nello stesso tempo, responsabili e compartecipi. La condivisione della responsabilità collettiva calata nella coscienza e nell’azione individuali ha preso corpo in un evento di cui si poteva verificare armonia e funzionalità davanti a un pubblico esterno.

Nell’opera messa in scena ognuno ha potuto riscontrare – oggettivata – la qualità del proprio impegno individuale, la capacità di trasmettere questo impegno alla sensibilità altrui, e nello stesso tempo ha potuto misurare l’importanza della integrazione del proprio lavoro con quello degli altri, insieme alla necessaria umiltà che questa complementarità implica prima, durante e dopo il raggiungimento dello scopo produttivo. Se nel Coro Universitario ci sono state crisi e fratture, ricomposte solo in parte al termine delle repliche, tanto che una serie successiva di travagliati passaggi ha condotto alla risttrutturazione del complesso e al suo completo rinnovamento, questo va considerato come un fatto positivo, quasi una malattia esantematica che ha rafforzato l’organismo di partenza. Lo stesso è stato per l’orchestra che ha metabolizzato gli ostacoli e i malanni prodotti da un training inconsueto e probabilmente molto al di sopra delle condizioni di lavoro fino a quel momento sperimentate giungendo però a produrre miglioramenti e affinamenti inaspettati.

Una riflessione a parte merita l’impegno speciale che a questa impresa ha dedicato un Maestro della scena e dell’opera in musica quale è Roberto De Simone, affiancato nella circostanza da un gruppo di generosi collaboratori, primo fra tutti il giovane aiutoregista Mariano Bauduin. E’ stato nel corso della verifica scenica che abbiamo potuto apprezzare un metodo di “drammaturgia consuntiva” del tutto opposto a quanto spesso è dato di vedere anche sulle scene di più  autorevoli e monumentali teatri. Lo spettacolo è andato componendosi non per somma di pregiudiziali parametri stabiliti a tavolino o per aggregazione di prefabbricati appartenenti alla personale poetica dell’Autore, ma seguendo una metamorfosi dettata dalle condizioni materiali di lavoro. In altre parole i limiti di partenza (un cast composto di dilettanti o di apprendisti, un budget limitato, la mobilità dei luoghi delle prove, la variabilità di una parte del personale scenico) sono stati assunti come stimoli per una creatività ‘all’improvviso’.

De Simone ha insistito, nelle conversazioni con gli studenti e con il resto della compagnia, sulla differenza tra il teatro all’italiana e la regia alla tedesca: nel secondo caso prevale un rigido piano di lavoro da cui discendono le fasi operative dell’allestimento che non deve mai deviare dai parametri di partenza neppure nei dettagli; nel primo caso invece la costruzione dello spettacolo procede per illuminazioni suggerite dal lavoro stesso, seguendo deviazioni e ‘improvvisazioni’ che naturalmente il regista non inventa all’ultimo momento ma estrae da un repertorio accumulato nelle esperienze di lavoro precedenti. E’ il gioco combinatorio di colori immagini e note depositate nella memoria del regista-autore che presidede alla materializzazione scenica. Alcune parti musicali sono state composte e aggiunte in corso d’opera tenendo conto sia delle qualità che, soprattutto, dei limiti dei giovani vocalisti e del complesso corale o orchestrale. Lavorare sui limiti non è una rinuncia alla ricerca della qualità ma un più intelligente negoziato dell’arte con la materia, dei sogni con la resistenza del reale. Ed è così che anche la povertà dei mezzi a disposizione diventà occasione di ricchezza.

Questa procedura è stata resa possibile da un altro punto di partenza della poetica di De Simone, del resto pienamente condivisa fin dalle origini del progetto dal gruppo direttivo dell’Università di Firenze (con me Maurizio Agamennone, Isabella Bigazzi, Nicola Paszkowski, Valerio del Piccolo, Teresa Megale): il metodo parodico. Senza stare qui a rivendicare alla parodia un ruolo decisivo in tutta la storia del teatro (anche musicale) moderno e senza ricordare l’allestimento, in questa chiave realizzato da De Simone per il Don Giovanni di Mozart, basterà sottolineare come verso la medesima direzione andasse la scelta della novella di Palazzeschi, Il Re Bello, come testo d’avvio per il libretto destinato ad essere musicato. Una drammaturgia parodica basata sulla contaminazione di generi e stili diversi se non lontani, sul riuso sorprendente e inconsueto di fonti e forme del passato, sul rovesciamento di formule sperimentate, sul ‘meticciato’ delle arti e sulla confusione degli stili: musica colta e popolare, strumenti musicali archetipici e violini, rappers e complessi folk, cori verdiani e controtenori. Il tutto disposto secondo una miscelazione di accoppiamenti giudiziosi e improvvisi spostamenti registici, realizzati anche nel corso nella prova generale quando si è visto il Maestro De Simone decidere e poi precipitarsi a realizzare un bellissimo ‘raddoppio’ vocale nella fossa orchestrale tra la voce dell’evvellente professionista Alain Aubin (nella parte della Regina) e la cantante incaricata di interpretare la parte della femmina-maschio protagonista come Re Bello.

Molti sono gli episodi di un ipotetico diario delle prove da cui si potrebbero estrarre i campioni di una procedura registica realizzata in medias res. Naturalmente fu questa la parte più arrischiata dell’operazione, quella che gli spettatori hanno visto solo nello stato cristallizzato della rappresentazione. La condizione aeriforme della messinscena non ha smarrito i giovani apprensisti teatranti, li ha anzi tranquillizzati. La precarietà del lavoro di cartapesta delle costumiste e degli scenotecnici, le scuciture del coro e dell’orchestra, la fragilità delle coreografie, hanno trovato pace in questo metodo continuamente slittante fra improvvisazione programmata e riuso del repertorio. E’ stato questo il metodo che ha tenuto insieme una tanto precaria fantasia e una tanto furiosa voglia di esistere scenicamente.

Furono quelle le ragioni di un successo e sono queste le ragioni di un possibile futuro. Come quella produzione, ogni altro accostamento di giovani in via di formazione alle arti sceniche della musica e del teatro non può avvenire che evitando il rispetto dei cerimoniali professionistici. Certamente è utile osservare e studiare i punti d’arrivo possibili delle discipline teatrali in atto nel nostro paese – per quanto questi siano orribili o tollerabili o inimitabili – ma è altrettanto indispensabile tracciare, a fianco di quelli, altri percorsi ben distinti, obbedienti meno alle ragioni del sistema esistente che alle necessità di un’educazione all’espressione, alla creatività non sottomessa a protocolli vincolanti, a successi determinanti.

L’educazione all’espressione (della parola, del canto, del gesto, del corpo, delle emozioni) è fattore basilare su cui si può impiantare, una volta venuto il momento, una qualunque più avanzata attività artistica; se quel momento è destinato a non venire, resterà comunque l’adestramento al controllo e al governo della propria interiorità in relazione con gli altri. La ragione prima dell’esistenza di ogni teatro risiede in questo principio di comunicazione costituito dalla trasmissione dall’interno all’esterno dei ritmi del pensiero e del sentimento, oltre che dall’esercizio di una memoria e di un ascolto capaci di far uscire ognuno al di fuori di se stesso senza tradire la propria natura. Un corso di educazione permanente potrebbe fornire a molti studenti la palestra in cui integrare le fredde nozioni teoriche con una pratica di comunicazione capace di confrontarsi non solo con i contenuti ma anche con l’ascolto di un ‘pubblico’.

Ma ci può essere anche il bisogno di andare oltre come del resto accade in paesi dotati di una più avanzata cultura teatrale, laddove l’esercizio scenico fa parte della normale pratica scolastica, come ad esempio l’Inghilterra, ma tenendo conto che in Italia quasi nessuna scuola media superiore prevede un’attività curricolare riservata alla scena. L’Università potrebbe – senza aspettare interventi ministeriali che non verranno – prestare un maggiore ascolto a quei gruppi teatrali costituiti in parte da studenti o ex-studenti che autonomamente, in assenza di quelli che un tempo erano i Cut (compagnie teatrali universitarie), intrecciano gli studi con la pratica della recitazione. Senza obbligare questi nuclei a piegarsi alla progettualità di cattedre specializzate o meno e senza proporre vincoli di subordinazione o finanziamenti privilegiati, potrebbero essere trovate delle forme di collaborazione che consentano qualche forma di osmosi tra studio teorico e esperienza in corpore vili, con la mediazione di quelle strutture dello spettacolo che siano disponibili.

In tali nuclei autonomi potrebbero trovare accoglienza – con la mediazione dei docenti delle materie dello spettacolo – gruppi di studenti che volessero mettere alla prova la loro vocazione o i loro rudimenti nell’arte. Per parte sua l’Università può operare affinché queste ‘società’ miste possano trovare accoglienza in strutture tecnicamente dotate, capaci di fornire agli uni e agli altri partecipanti al progetto i supporti materiali per condurre una simile esperienza. In questo modo l’Università diventerebbe il garante di una collaborazione innovativa. Senza diritto di veto artistico ma con una funzione di monitoraggio e orientamento degli esperimenti. Recuperando anche in questo settore disciplinare una funzione di collegamento tra studio e società civile.

 



 

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Il Re Bello.
Diario di una messinscena
(Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2007)




 
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