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Italo Moscati

Italo Moscati, TV di qualità, un tema astratto

Data di pubblicazione su web 11/01/2008
Pier Paolo Pasolini

Ultimi giorni del 2007, ultimi scandali in televisione. Il caso di Daniele Luttazzi col suo Decameron censurato da La 7 (che risponde in nome della libertà e dell’etica professional-aziendale). Il caso delle intercettazioni sulla fiction della Rai. Una bufera a lunga scadenza.

Non saranno gli ultimi scandali… C’è da crederlo.

Tra un caso e l’altro, due parole famose, un po’ appassite, affiorano con prepotenza, e bisogna considerarle. Al di là di esse, c’è spesso soltanto la gran chiacchiera sui programmi di Rai, Mediaset, reti generaliste e reti satellitari (sotto l’egida di Sky). Le parole, che ci rimbombano nelle orecchie, sono: “servizio pubblico” e “qualità”. Quasi sempre vengono usate insieme, ma non sempre poiché capita che a chi le pronuncia una interessa più dell’altra, a seconda degli obiettivi e delle necessità. Ad esempio, per precisare meglio chiamando in causa un soggetto ben noto, cioè il mondo della politica (ineliminabile quando si tratta di televisioni), i politici di tutti gli schieramenti invocano il “servizio pubblico” per dire nella sostanza che essi hanno il diritto di essere rappresentati in Rai, tutti, partiti forti e partiti anche di minoranza. In nome appunto del “servizio pubblico”, ovvero perché la Rai “deve” garantire opportunità per tutti. Noi spettatori sappiamo poi che dalla commissione di vigilanza al consiglio di amministrazione della Rai scaturiscono dettagliati orientamenti che vengono immessi nei programmi e nel palinsesto generale.

Ad esempio, riguardo alla “tv di qualità”, le voci che si alzano sono improntate a un’esigenza lodevole ma generica, molto generica.  La “tv di qualità” è una espressione generica, anzi astratta, perché come definirla è semplicemente faccenda molto, molto opinabile. C’è chi trova il teatro di Luigi Pirandello come una delle massime espressioni di qualità anche quando va in tv, e non ha torto; ma c’è chi trova irresistibile, che so, un comico come Roberto Benigni, o un cantante come Celentano, e ne difende il livello di qualità, e neanche costoro hanno torto. I piani sono diversi. Il bello o il brutto della tv, la qualità o la non qualità rischiano di confondersi sul video, vengono messi sullo stesso piano della logica livellatrice del piccolo schermo, specchio della realtà ma anche produttore di realtà per cui si rovescia la situazione e il piccolo schermo diventa specchio di chi la guarda, degli spettatori.

In questo senso, sul filo del paradosso, ma non poi tanto, si può sostenere che nella “tv di qualità” entra a pieno titolo anche il trash. Cos’è lo sappiamo bene: dilaga nei reality show e nelle trasmissioni del mattino e del pomeriggio, oltre che nelle serate del varietà o nelle soap opera o in certe fiction. Però il trash non sempre è riconoscibile a prima vista, anzi è subdolo e potente. Nelle annose vicende del teatro leggero o del cinema comico più commerciale ci ha abitato a lungo, e volentieri, riscuotendo grande successo. I film di Totò, Peppino De Filippo, Macario, Rascel, eccetera hanno vissuto momenti da vera e propria “spazzatura” (sciocchezze in libertà), ma a distanza di anni questi momenti sono stati giustamente, come si dice, sdoganati. Ha funzionato il termoconvertitore della storia, o meglio del tempo che passa e che finisce per riscattare e addirittura riabilitare sul piano qualitativo.

Non si pensi che “servizio pubblico” e “qualità” stiano solo all’interno del territorio della Rai. C’era una volta in cui, come nelle vecchie favole, la Rai in regime di monopolio si identificava con il “servizio pubblico” e cercava complessivamente di dare “qualità” considerando il fatto che le era stato imposto di proporre una “tv pedagogica” capace di tirare giù dalle biblioteche i grandi romanzi da sceneggiare (da I promessi sposi a L’idiota o Resurrezione) o di far scuola agli analfabeti (la trasmissione Non è mai troppo tardi) o di condurre inchieste nelle zone più povere e disagiate del paese per farle conoscere e stimolare una lingua comune e comuni modelli di vita.

La Rai ad un certo punto, da fine degli anni Settanta in poi, ha dovuto fare i conti con una situazione fortemente modificata. Le tv private e soprattutto la tv commerciale - condensate in quella che oggi si chiama Mediaset - hanno spedito nel passato il regime di monopolio, correggendolo in un duopolio che resiste e che nessuno finora è riuscito a scalfire. La tv commerciale, ossia Mediaset ma anche La 7 (piccola concorrente), non si limitano a fare il loro gioco appunto commerciale ma tengono molto a ricordare che si propongono anche come “servizio pubblico” rispettando (cercando di rispettare) il pluralismo culturale e politico, fornendo informazioni culturali a vasto raggio senza (troppe) esclusioni, garantendo notizie e opinioni in grado di completare il panorama di fatti e orientamenti. In nome di queste intenzioni, e delle applicazioni pratiche, chiedono virtualmente di essere ammessi nel giro della tv virtuose, quelle appunto di “servizio pubblico”.

Dopo tutto, chi può dire quel che accadrà nel prossimo futuro? Quale futuro non si può dire, visto i tempi delle riforme nel nostro paese, ma un futuro che potrebbe delinearsi se la Rai riducesse le sue reti, avesse ancora problemi con il canone di abbonamento (molti non pagano e per i super75 chi pagherà? Lo Stato?) e insomma venisse indotta a rivedere il “contratto di servizio” con lo Stato o addirittura a privatizzarsi del tutto, aprendo il mercato a quanti vorrebbero aggiudicarsi il “contratto” e fornire un “servizio” che non potrebbe che essere diverso da quei “servizi” resi fino ad ora.

Sono passati molti anni, oltre sessanta, da quando un uomo di teatro, Paolo Grassi, alleato con Giorgio Strehler, chiese e ottenne che il neonato Piccolo di Milano, primo teatro stabile italiano, venisse sovvenzionato dallo Stato e da enti pubblici in nome del “servizio pubblico”. Diceva Grassi, grossa personalità di potere e uomo dal fine fiuto politico, che il teatro doveva essere considerato indispensabile come il gas, l’acqua, l’elettricità. I partiti gli diedero ragione, non senza discussioni e contrasti. La Rai-Tv non c’era ancora, c’era la Rai radio, che veniva dall’Eiar dell’epoca fascista. Statalismo di ieri. Grassi partecipava alla tendenza dello statalismo all’altezza dei tempi. Vinse la sua battaglia. Il teatro diventò “servizio pubblico”, la Rai con l’aggiunta delle lettere TV s’incamminò sulla stessa strada, con una forma sociale di società per azioni. Diversità fra teatro e tv, indispensabili per le caratteristiche delle due realtà, ma unica sorte, unico destino: farsi gestire dalla politica e dei partiti, invocando la sacrosanta autonomia di azione.

Autonomia artistica, culturale, creativa, sia pure fino ad un certo punto. Già, i partiti sul Piccolo e sugli altri Teatri Stabili stavano sul collo come cani da guardia, come ricordano coloro che hanno studiato i contrasti nei consigli di amministrazione sulle scelte da fare i nome del pluralismo. Per un autore, diciamo così, di sinistra, doveva essercene almeno mezzo di centro o di centrodestra. In Rai-Tv l’autonomia c’era fintanto che i direttori generali potevano imporre i mutandoni alle ballerine e costringere Dario Fo ad abbandonare Canzonissima in quanto responsabile di una scenetta satirica sulle morti bianche. Come si vede, le parole “servizio pubblico” (rapporti con i partiti in prima istanza e poi in seconda con gli abbonati e i telespettatori) e “qualità” (idee e cultura che non violassero un “contratto” e soprattutto pratiche di controllo vigili, talvolta molto vigili, in un ventaglio di forme di censure sempre più sottili o grossolane a seconda dei casi). Quelle grossolane servivano e servono a ricordare agli addetti ai lavori della Rai-Tv che il padrone e i padroncini stanno attenti e anche la distrazione viene subito recuperata se tra i partiti (padroni o padroncini) si leva una critica o anche solo un lamento.

Nonostante tutto, riforma Rai-Tv del 1975, anni seguenti, viaggiando fino ai giorni nostri, lo scenario di fondo non è molto cambiato nella sostanza.

La “qualità” è andata di pari passo. Dalla “tv pedagogica” la qualità con o sensa virgolette ha dovuto fare i conti con il mercato della comunicazione audiovisiva. Se la Rai–Tv ha fatto la politica dei piccoli passi di cambiamento, la tv commerciale, Mediaset avanti a tutti i canali, ha accelerato ritmi e contenuti, ha preso dalla Rai-Tv persone (da Mike Bongiorno a Paolo Bonolis) e poche idee, e ha soprattutto aperto la porta a una sorta di americanizzazione dopata, nel senso che mentre negli Usa i canali tutti commerciali conservano in gran parte della programmazione una certa cautela nelle proposte e nel proibito (in particolare nel sesso e nelle esibizioni dei corpi femminili) e in altre parti della giornata sfogano il trash (liti furibonde, risse, insulti), qui da noi Mediaset ha evitato cautele (corpi sexy a go-go, buona dose di risse e di insulti) e ha creato uno stile disinvolto e spesso vivace, riuscito, polemico, satirico (Striscia la notizia ad esempio), diventando un modello imprenscindibile. Mediaset si è imposta. Ha rovesciato la situazione. Ha vinto la battaglia di egemonia. Rai-Tv è stata “costretta” ad inseguirla e a copiarla. Allo scopo di non perdere risultati alti negli ascolti per non perdere i contratti pubblicitari. Il “contratto” con lo Stato veniva rinnovato ma quel che contava e conta sono ormai i contratti con le ditte che investono in spot e spazi di richiamo commerciale.

La “Tv di qualità” ha ceduto il passo alla “qualità della Tv”, ossia al rendere compatibili spettacoli e programmi nelle prime e nelle seconde serate con l’appeal  pubblicitario. Rai e Mediaset si guardano in cagnesco sugli ascolti ma sanno che ne dipendono. Mediaset lo sa di più, e difende con le unghie e i denti la sua capacità di fare concorrenza. Rai si preoccupa dei tg e del varietà o della fiction, e del resto della programmazione cercando di salvare il retaggio del passato (peraltro continuamente limato), modificandosi a seconda delle modifiche del rivale. La “qualità della Tv” si invera in questo confronto basato sulla reciproca sorveglianza, sulla tendenza a copiarsi a vicenda, sulla caccia ai format acquistati o da acquistare presso terzi, Endemol (la casa produttrice dei format e non solo) o società create ad imitazione di questa casa potente in tutto il mondo e specie in Europa. Diventa una “non qualità” in senso tradizionale.

Che cos’è la “non qualità”? E’ lo spettacolo che abbiamo sotto gli occhi. Tutti i giorni. Una tv di abitudini e di ripetitività. Una tv che parla di se stessa, senza posa. Una tv che usa tutto, a cominciare dalla cronaca nera, come un serial senza fine, come intrattenimento. La “Tv di qualità” resta un argomento da convegni e da opinionisti. Ma nessuno sa bene cosa sia. Ognuno ha un’idea che sembra comunicare con quella o quelle degli altri ma non è così. L’idea di “Tv di qualità” che ha la destra non è quella che ha la sinistra. Un esempio. Nel periodo di governo di centrodestra la Rai ha mandato in onda decine di programmi sul fascismo e sul nazismo, o tv movie o fiction su personaggi e temi come il futurismo o le foibe, come risarcimento rispetto ai tempi in cui la Rai controllata da governi di centro sinistra mandava in onda programmi sulla Resistenza e di denuncia sociale (visti dalla destra non di rado come attacchi alla destra stessa). Dunque, un “servizio pubblico” che varia di significato e di uso a seconda dei cambiamenti di maggioranza.

La forsennata lotta sull’avvicendamento (e le vendette) sui contenuti si è intanto rivelata perversa sui linguaggi, sullo stile, sulle forme dell’intrattenimento. Rai e Mediaset si assomigliano, le proposte sono talvolta scadenti, le scelte sono solo parzialmente soddisfacenti o insoddisfacenti. Non c’è neanche bisogno di dimostrarlo. Viene fuori una contraddizione stridente. Non si può fare più una televisione come prima ma neanche si può fare più una televisione come abbiamo. Perché? Perché è una televisione che subiamo e cerchiamo meno, anche se l’abbiamo in casa e ci adeguiamo. I dati di ascolto o il numero degli spettatori premiano poco chi innova ed esaltano invece chi conferma, come gli show di Adriano Celentano o di Roberto Benigni. Questi due grandi arrivano sul video con canzoni, pause e discorsi della montagna o montagnola, Adriano; o con Dante, invettive, slanci e impertinenze toscane, Roberto. Ma sappiamo che ci conquistano sulla base di una magia di ripetitività. Sappiamo che per il resto, a parte qualche fiction riuscita o qualche puntata di talk show di approfondimento, non c’è molta tela da tessere. Le due Penelopi, Rai e Mediaset, tessono la stessa tela e attendono Godot piuttosto che Ulisse, mentre i Proci (politici e pubblicitari) passano per riscuotere ciò che ritengono di loro spettanza.

Godot non arriva. Arriva il Dottor House. E ci dice che siamo tutti malati di ipnotismo e di fascinazione subalterna. Se non si muovono gli autori, i programmisti, i giornalisti, i manager illuminati le cose andranno avanti così. Gli ipnotizzatori sanno quel che vogliono: farci tutti simile alle Desperate housewives, disperati, uomini e donne, tra le quattro mura domestiche, davanti all’ultimo televisore a cristalli liquidi.

Conclusione? Perplessa. Ma ottimistica. Serpeggia rispetto al passato una consapevolezza nuova. La comunicazione televisiva si moltiplica. I canali aumentano. Il pubblico cerca dove può o sa, dalle reti generaliste a quelle satellitari. Usa lo schermo domestico per proiettare quel che compra come dvd, film o documentari. La scelta si allarga. I confronti fanno bene. Il “servizio pubblico” e “la Tv di qualità” sono sempre più parole che rimandano a significati astratti. In questo vuoto, si fa strada un obiettivo: sfatare la televisione come mezzo e come momento della verità e della libertà di opinione. Per dimostrare che la strada c’è, è stata indicata e stenta ad essere praticata, ecco di seguito un'esperienza esemplare. Un’esperienza di incomunicabilità di cui far tesoro per superarla. Oggi c’è abbastanza forza fuori dalla Tv per imporre al suo interno quella misura, quei dubbi, quel desiderio di usarla bene e meglio, una svolta vera. L'esigenza di farla è sentita. Qualcuno l’aveva già avvertita. E’ bene ricordarlo.

Lo ricordavo. Ricordavo Pier Paolo Pasolini in uno studio in bianco e nero davanti a Enzo Biagi, il grande giornalista e scrittore scomparso, per la trasmissione Terza B: facciamo l’appello. Ma avevo dimenticato un fatto importante. Quella puntata della trasmissione sarebbe dovuta andare in onda il 27 luglio del 1971 ma fu sospesa per una vicenda giudiziaria che coinvolse Pasolini direttore responsabile di Lotta Continua. Sarà poi presentata in video quattro anni dopo, il 3 novembre 1975, all’indomani del suo assassinio.

Avevo dimenticato? o non lo sapevo? o non avevo dato molto peso a questo rinvio e al valore della trasmissione?

PPP partecipava alla puntata accanto ai suoi compagni di scuola del Liceo Galvani di Bologna, città dove Pasolini nacque e dove io stesso ho vissuto per anni dopo la mia nascita a Milano. Uno dei nessi che ci lega, come ho cercato di raccontare nel libro Pasolini passione. In realtà, quando vidi e tornai a vedere la puntata, il valore di quel tempo occupato dal poeta-regista negli studi della televisione (televisione che sottoponeva a giudizi molto duri) mi parve e mi pare chiaro, e ad esso ho fatto e faccio riferimento ogni volta che ripenso al mondo del piccolo schermo, ai suoi problemi, al suo fascino, alla sua vitalità che si rinnova di continuo. Anche adesso quel valore mi giunge forte, arricchito dalla lettura del libro di cui sto scrivendo poche righe di premessa: Schermi corsari, del bravo Gabriele Policardo per la bella collana diretta da Franco Monteleone. Azzeccato il titolo che rimanda, come tutti noi attenti a Pasolini, alla sua vita e alla sua opera, a quegli Scritti corsari che restano un documento essenziale per capire non solo l’Italia degli anni sessanta e settanta, un’Italia sballottata tra crisi interne verso traguardi civili e sociali in corso di ansiosa definizione e un mondo che anch’esso cercava nuovi equilibri, nuove prospettive. Ci si dimentica spesso, a questo proposito, che PPP viaggiò moltissimo e che pensava tra l’altro che la vera rivoluzione potesse partire addirittura da New York, la città dei grattacieli da lui visitata e amata in un’epoca di esplosioni artistiche (l’avanguardia del Living Theatre di Julian Beck, ad esempio) e di ribellioni violente (la lotta al razzismo dei neri dei quartieri poveri).

Azzeccato il terreno di studio scelto da Policardo. Quello della televisione e della comunicazione, considerando un punto importante, spesso eluso: il rapporto da cercare con entrambe le dimensioni, intrecciate, cariche di storie e di zone inesplorate, spesso misteriose. Il poeta-regista, autore di una inchiesta cinematografica rimasta fondamentale, intitolata Comizi d’amore (1964), lavorò non poco in e con la televisione, per la quale girò servizi e rilasciò interviste. Se Comizi d’amore è il tentativo riuscito di mostrare con pacatezza l’inquietante ritratto del nostro paese ancora legato a visioni spesso inqualificabili sull’amore e sui sentimenti, sul piccolo schermo gli interventi di PPP sono tutti molto interessanti, e ancora vivi, come dimostra questo libro che copre finalmente un vuoto nella ricerca sul “corsaro” Pasolini.

Azzeccato infine il contributo dello stesso libro nell’individuare il nocciolo del problema e della posizione del “corsaro” nella comunicazione televisiva.  Il dialogo tra Biagi e Pasolini è lo specchio rivelatore di una situazione che appare quasi allucinante. La situazione di una incomunicabilità profonda all’interno della forma di comunicazione più potente e invasiva: quella della televisione, di ieri e di oggi (la lezione della lunga citazione che Policardo fa su Terza B: facciamo l’appello vale anche al presente, dato che la televisione anzi le televisioni sono diventate una palude di incomprensioni e quindi di incomunicabilità organizzata).

Dice Pasolini in Terza B che aver ritrovato i suoi amici di liceo nello studio non è bello, anche se loro - incontrandosi dopo tanti anni - sono riusciti ad andare oltre i microfoni e i video, ricostituendo qualcosa di reale; e ciò mentre la situazione creata nello studio risultava «brutta, falsa». Biagi quasi si risente e invita il suo ospite a dare una spiegazione. Pasolini dice semplicemente che si trova con gli altri dentro la logica di un medium di massa e che questo medium non può che «mercificarci e alienarci». (Vale la pena di notare che, fatta la tara al vetero linguaggio marxista molto usato all’epoca, il poeta-scrittore sembra anticipare la sorte di tante persone “prese dalla vita” che finiscono in certe trasmissioni pubbliche e private dei nostri giorni e vengono triturate in quella fabbrica di trash in produzione continua). Biagi dice che il dialogo lì nello studio sta avvenendo in grande libertà e senza alcuna inibizione. Il suo illustre ospite, con la sua voce sottile e garbata, gli risponde che non è vero. «Perché?», gli domanda il grande conduttore. Qui la risposta di Pasolini è nello stesso tempo reazione e lezione di comportamento, e teoria della comunicazione. Dice che lui non può dire quel che vuole e che deliberatamente si autocensura, perché se non lo facesse direbbe parole troppo sincere e vere che potrebbero danneggiare lui e il pubblico davanti al televisore. Lui potrebbe essere accusato di vilipendio e il pubblico potrebbe non capire per via della ingenuità e della sprovvedutezza di «certi ascoltatori».

«Certi ascoltatori». Allora, la maggioranza del pubblico televisivo, sempre meno sprovveduto rispetto all’inizio dei programmi Rai (gennaio 1954), ma non sempre messo nella condizione di avere gli strumenti necessari per comprendere quando il medium presuppone “un rapporto da inferiore a superiore”. Ovvero, Pasolini rifiuta di servirsi del mezzo televisivo per non violare, violentare chi sta guardando e ascolta, davanti al tabernacolo delle immagini e delle parole che si offre come veicolo di verità, unico veicolo di verità. (La Rai era sola a produrre e a trasmettere, era un monopolio. La situazione non è cambiata molto con l’avvento delle televisioni commerciali e con il cosiddetto duopolio, Rai e Mediaset. I “veicoli” sono aumentati, ma la verità dov’è? e chi sono i maestri di verità che vanno in onda?).

Concludo. Questo libro è un viaggio documentato e garantisce un’agevole lettura col passo di una ricerca che fa riflettere e lascia interrogativi aperti. Quelli appena ricordati, scaturiti da Terza B: facciamo l’appello,  e altri ancora che il lettore scoprirà nelle teche dei ricordi e di quella storia in costruzione del presente che è e resta la televisione. Niente affatto diabolica. Realtà, invece, mutevole e colma di trappole e di aperture che vale la pena di conoscere a fondo. Facciamo l’appello. I “curiosi” come Policardo cominciano ad aumentare di numero. Le speranze non sono perdute. Anche grazie al “corsaro”.










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