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Paola Valentini

Paola Valentini Presenze sonore. Il passaggio al sonoro in Italia tra cinema e radio

Data di pubblicazione su web 25/10/2007
Copertina
Pubblichiamo un estratto del libro di Paola Valentini, Presenze sonore. Il passaggio al sonoro in Italia tra cinema e radio, Firenze, Le Lettere, 2007, pp. XIII+273, €  19,50.

5.1. Voce ex machina

Il cinema e l’ambiente culturale italiano degli anni Trenta conservano, seppur per un breve arco di tempo, una forte volontà di mettere esplicitamente a tema la questione della voce meccanica sapendola cogliere nella sua potenza e nella sua novità.

Certo non mancano accese invettive verso i «films ciarlieri o fracassosi», o contro il fatto che «cacciata fermamente per la porta, la parola è stata capace di rientrare per la finestra», o sul ridimensionamento dei dialoghi pena il rischio di un vacuo «cinema di chiacchiere», o ancora sulla strenua difesa della più potente «sfida del silenzio»;[1] tuttavia, come si è già visto esaminando da vicino le teorie dell’epoca, è la nozione di voce a serpeggiare più frequentemente nelle discussioni e a svelare, anche dietro le più accanite opposizioni, una consapevolezza notevole della reale portata dell’innovazione sonora. In particolare, anche e soprattutto da parte dei detrattori del sonoro, è subito chiara una cosa: l’imporsi con forza della voce, il suo potere ipnotico, la «voce unica e autoritaria della macchina» come ben l’aveva definita Pirandello.

È un’area che porta diretti all’ambiente radiofonico: se infatti la consapevolezza della potente voce ventriloqua si afferma con forza e chiarezza nel cinema italiano è perché ancora una volta tutto un mondo mediale circostante si sta interrogando su analoghi oggetti e al suo interno in particolare la radio. Qui infatti la voce è al centro, da un lato, di una ricerca espressiva che punta innanzitutto su di essa e le sue capacità suggestive, dall’altro, di modalità produttive sempre più alla ricerca di un consenso e dell’esercizio “occulto” di un potere.


Per quanto riguarda il primo aspetto, le testimonianze non mancano; la teoria e la critica radiofonica è ricca di osservazioni sulla suggestione della voce che anche nelle semplici cronache, soprattutto se incarnata nel potere politico, evoca spesso imponenti adunate di popolo e intere «piazze raccolte in religioso silenzio», ammutolite appunto sotto la grande voce autoritaria, sia quella del Duce stesso o del maresciallo Cadorna.[2] Naturalmente, in quest’ottica si impone una grande attenzione alla nuova figura dello speaker, al potere del «reporter radiofonico», come viene definito da Giovannetti, che «deve per la radio comporre le parole in un periodo nuovo, tutto elettrico, in cui ogni parola sia pronta a trasformarsi in un turbinante nucleo d’immagini» e che assume «l’incarico di fare assistere ad un avvenimento un’immensa folla invisibile e non solo di farvela assistere ma di tenervela interessata sino alla fine».[3] Dunque, la radiofonia dell’epoca produce un nuovo protagonista fatto di pura voce pronto ad attraversare tutto il paesaggio mediale ma anche una parola che crea immagini e una voce che tiene avvinghiati, aggancia il pubblico senza tregua alle immagini che genera.
È infatti innanzitutto la voce in generale ad essere al centro dell’interesse. Tra i più acuti osservatori, naturalmente, ritorna Enrico Rocca, che coglie in profondità la natura della voce.


Ma, più ancora dei suoni e dei rumori, la parola subisce per radio gli effetti dell’invisibilità. Essa comincia, per così dire, a perder di peso specifico e tende a volatilizzarsi. […] Appartiene ad un essere umano, ma non è che voce, significato, espressione.
L’elemento invisibile in cui è immersa, lo spazio irraggiungibile in cui risuona l’hanno come sciolta dalla persona fisica del parlatore.
Per tornare ora alla voce non sarà difficile constatare che l’invisibilità radiofonica, provocando il divorzio, prima piuttosto raro, tra l’individuo che parla e la sua parola, offre alla voce così isolata le più nuove occasioni di nuovi sponsali. […] Rifatta terrena, questa voce disincarnata potrà con altrettanta facilità vincere lo spazio. […] Un’inflessione mutata farà di un uomo in carne ed ossa un trapassato, di una donna un angelo, di un clima reale un’atmosfera di sogno.
A tal punto l’invisibilità ha fatto della parola un’altra cosa da quella che conosciamo: estremamente volatile, ma straordinariamente proteiforme; nuda di complementi ottici, ma carica d’inconsueto potere suggestivo.[4]


Come emerge dalla sua lucida analisi, la voce radiofonica è dotata, grazie alla invisibilità, di un inconsueto potere suggestivo, il potere che deriva dal non essere ridotta ad alcuna materia ma di aleggiare incorporea, volatile, sui corpi e lo spazio: un destino non dissimile da quello cinematografico. Dall’altro lato, è una voce che per sua stessa natura tende a catturare non tanto la massa quanto l’individuo, agire non tanto per estensione quanto in profondità, esercitare il suo potere non tanto sulla dimensione pubblica quanto in quella privata se non intima. Rocca riconosce apertamente gli «effetti ipnotici di una voce» ma ci tiene anche a sottolineare che «L’oratore che scambia l’altoparlante per le trombe di Gerico non si rende conto che la radio, pur avendo tutto l’aspetto di un fatto pubblico, ha una destinazione prevalentemente casalinga e niente affatto comiziaiola».[5] Naturalmente è passato del tempo: all’ascolto collettivo nei teatri e nelle piazze di cui parlano i primi resoconti di «Radiorario» è ormai subentrato l’ascolto raccolto nel salotto e nel cuore della casa; tuttavia quello che è importante sottolineare è non tanto una vaga connotazione oppiacea della radio quando appunto il potere che la voce ha sull’uomo, una forza che i mezzi meccanici hanno elevato a potenza fino a quel momento inaudita.

Per quanto riguarda il ruolo della voce nella politica del consenso è indubbiamente un terreno più complesso e di cui ancora sfugge un quadro completo: se l’intervento del Duce in materia di comunicazione è stato sviscerato, manca uno studio completo che tratteggi il ruolo che la sua immagine e soprattutto la sua voce, riprodotte e diffuse, svolgono nell’immaginario collettivo. Anche il nascente regime intuisce il potere dell’arma radiofonica e la sua potenzialità di vera protagonista della politica e del consenso degli anni Trenta. Così, sulle pagine del «Radiocorriere» Mussolini viene indicato come il «perfetto oratore della radio» per il suo modo di parlare «netto, conciso, preciso» e si osserva come «nella mente popolare è napoleonico, forte, dominante. Lo si immagina facilmente nell’atto di pronunziare un’orazione davanti a una folla di antichi romani».[6] Tuttavia, l’impatto è meno “mediatico” che altrove: non abbiamo suadenti voci che conversano accanto al caminetto, come nel ben noto esempio roosveltiano, né articolate strategie propagandistiche pianificate da Goebbels coi numerosi interventi radiofonici di Hitler; l’intervento del fascismo continua ad essere molto legato all’area dichiaratamente d’informazione, sia essa la voce di Radio rurale o la diretta proposta dei comizi di piazza del Duce che vivono la radio niente di più che come cassa di risonanza.

Eppure, sotto altra luce, anche l’Italia si mostra vittima del potere ipnotico della voce. Senza volersi spingere a un’analisi di matrice kraucaueriana, affiora indubbiamente come «inconscio» nella radiofonia dell’epoca – e si travasa nel cinema – la suggestione, la paura, l’attrazione fatale per la voce del potere.[7] Così poco a poco le voci femminili che caratterizzano la prima radio, tra tutte quella di Maria Luisa Boncompagni che «Radiorario» celebra dedicandole la copertina nel 1925 perché «È la nostra dicitrice, dalla voce chiara, dal timbro armonioso, dalla modulazione perfetta»,[8] cedono il passo a voci reputate più “credibili” quali quelle maschili, introdotte come obbligatorie per il Giornale radio proprio a partire dal 1930, ormai all’alba del cinema sonoro: più vicine alla voce del Duce di cui si elogiava, tra i vari discorsi trasmessi radiofonicamente, di poter udire «particolarmente bene quello di S. E. Mussolini, per la chiarezza e la cadenza delle parole».[9] Ancora una volta, questa potenza della voce ex machina solca trasversalmente l’intero paesaggio mediale; così il più famoso speaker radiofonico del periodo – come ricorda, con le sue continue citazioni Una giornata particolare (E. Scola, 1977) – Guido Notari, vincitore del concorso EIAR, diventerà anche voce ufficiale dei documentari e dei cinegiornali LUCE e svelerà infine anche il suo volto in alcuni film a fine anni Trenta.

È un territorio, si diceva, tutto da esplorare e al tempo stesso, per quel suo carattere di «inosservato e ricorrente» sfuggente a una evidente definizione. Eppure appare piuttosto chiaro che allo stesso modo funzionano alcuni film italiani degli anni Trenta, in cui abita un tipo di voce che soggioga ed esercita un potere chiaro sullo spettatore: non più semplicemente nei confronti dell’immagine ma nei confronti della realtà a cui fa riferimento. Una voce che ha a che fare quasi direttamente con la voce del Duce diffusa dagli altoparlanti del tempo.

 
5.1.1. Le ombre parlano

Prima di analizzare alcuni esempi di come la voce, spesso per il tramite della radio, si presti nel cinema degli anni Trenta a sorta di alter ego dell’autorità e del potere costituito e attesti la sua forza attraverso il dominio cui sottopone le immagini, è importante soffermarsi sull’ampio impiego fatto del fuori campo sonoro in molti film, nei quali il gioco sul potere della voce e la sua rivalità con il visivo sono particolarmente evidenti.

Uno di questi è indubbiamente Darò un milione.[10] Il film di Mario Camerini, infatti, documenta in modo piuttosto forte il potere ingannatorio e ipnotico della voce nei confronti del visivo, connettendolo quasi immediatamente, da un lato, alle facili trappole di un sonoro non supportato dal visivo, cioè dalla visibilità della sua sorgente, dall’altro, in maniera più o meno diretta ed esplicita alla radiofonicità insita in queste voci.

La prima sequenza è emblematica. L’incipit infatti esordisce su una quasi assoluta indecidibilità sonora: sul volto di Gold sporto dal parapetto dello yacht, si ode una musica ma non se ne rintraccia assolutamente la sorgente, né le immagini successive aiutano a decifrarla, complicando se mai ulteriormente il gioco; la possibilità di proiettarla nel fuori campo della extradiegesi è infatti inibita dal basso volume della musica, mentre viceversa il campo pullula di potenziali ma non definite sorgenti sonore: lo sfavillante e rumoroso luna park a riva ma anche l’illuminato salotto dello yacht, nel quale la scena successiva ci mostrerà infatti la presenza della radio. Lo spettatore è portato a riformulare in continuazione le sue competenze, posto in una situazione di completa indecisione, ha un’unica certezza: qualcosa risuona ma da dove non è lecito affermarlo. Le immagini successive non fanno che rafforzare questa sensazione di impotenza: a riva Blim lancia una bottiglia in mare, ma questa volta è l’assenza del rumore a colpire, a tale assenza fa invece da risposta l’inquadratura successiva, in cui la macchina da presa avanza velocemente sul volto di De Sica: un suono dunque che manca e una sorgente sonora che invece che produrre un rumore produce letteralmente, con quell’avanzamento della macchina da presa, l’immagine.

Questa prima sequenza dunque evidenzia l’ambito in cui si muove il film, un terreno in cui l’immagine non ha alcun primato sul visivo, in cui il suono è un materiale assolutamente eterogeneo e autonomo che non sempre è possibile ancorare all’immagine ma che vi galleggia sopra ritardando i suoi effetti, prolungando i suoi poteri oltre i bordi dell’inquadratura. Perché dunque uno stile radiofonico? Già impressionisticamente si nota che Camerini non sgancia semplicemente l’immagine e il suono per poi connetterli arbitrariamente e in modo puntuale, ma in qualche modo sfrutta il sonoro come una specie di flusso che ora si integra ora si solleva sul visivo, ora trova in esso una giustificazione, ora lo cattura in una sorta di cortocircuito, ora a sua volta crea delle immagini. Vengono dunque in mente da un lato certe osservazioni di Ettore Margadonna, sulla radio come «rubinetto sonoro capace di versare a fiotti un fluido cristallino, donatore d’oblio, suscitatore di sogni», dall’altro la polemica sulla “cecità” dell’ascolto radiofonico e sulla integrazione visiva da parte del pubblico che oppose ad esempio Rocca ad Arnheim.[11]

La sequenza successiva, con l’incontro tra Anna e Gold, non è che l’esibizione del gioco innescato dall’incipit, l’agone si sposta dal discorso alla storia e questa volta la vittima chiamata in causa non è più lo spettatore ma lo stesso protagonista. Gold infatti, risvegliatosi in un campo di panni stesi al sole, è attratto dalla voce di Anna che cerca il suo cane; il gioco di luci sulle lenzuola stese gli fa credere che la voce possa provenire da dietro un telo, dove una donna non proprio attraente è intenta al suo lavoro, ma l’apparizione della giovane smaschera il suo abbaglio. Il gioco è reso complesso e accattivante dall’isotopia tra voce e immagine: l’ombra dell’anziana donna di fatto risponde con la mimica e i gesti agli incitamenti e i consigli di Gold e il discorso sembra procedere coerente quand’ecco che scostato il velo (o il sipario) voce e ombra si sfaldano e il corpo di Anna che appare a Gold esattamente dalla parte opposta è ben diverso dalle presupposizioni fino a quel momento formulate. Proprio come lo spettatore dell’incipit, Gold si perde dietro a dei suoni, non riesce a giustificarli, a dare loro un’origine, e quando crede di aver trovato la soluzione ecco che tutto si rivela un abbaglio: quell’ombra sul lenzuolo steso (e di qui sullo schermo) e quella voce che pur proviene dalla parte opposta (e di qui dall’altoparlante), lo hanno perfettamente ingannato.

Se quindi la scena rimanda all’indecidibilità, e più direttamente alla fallacia, nell’attribuzione del suono, tuttavia essa ci dice anche qualcosa di più sulla radice di questo stile radiofonico, che, parafrasando Pirandello, possiamo sintetizzare in un motteggio: se le voci provengono da non si sa quale meccanismo, allora anche le ombre possono parlare.

La polemica che Pirandello aveva mosso al cinema parlante pochi anni prima, spesso sintetizzata nella lapidaria sentenza «le immagini non parlano, si vedono soltanto; se parlano, la voce viva è in contrasto insanabile con la loro qualità di ombre», è assai nota, ma come si è già visto l’apparente condanna maschera una non banale sensibilità nei confronti della componente acustica.

e infine la constatazione chiarissima che le labbra di quelle grandi immagini in primo piano si muovono a vuoto perché la voce non esce dalla loro bocca, ma viene fuori grottescamente dalla macchina, voce di macchina dunque, voce di macchina e non umana, sguaiato borbottamento da ventriloqui accompagnato da quel ronzio e friggio insopportabile dei grammofoni.[12]

La ventriloquia di cui parla Pirandello è un termine con il quale, dalle teorie di Béla Balázs a quelle di Rick Altman fino alla teorizzazione dell’acusma fatta da Michel Chion, come si è visto, molti teorici hanno sintetizzato il fascino ambiguo del cinema sonoro. Seppur in negativo, anche Pirandello coglie nel dualismo e nello scollamento tra immagine e suono il nucleo del cinema sonoro e soprattutto parlante; ma soprattutto non può non colpire quell’insistito accanimento sulla «voce di macchina» accoppiata alle immagini. Macchina appunto, ma macchina che, portando alle conclusioni il ragionamento, ha condotto dal ronzante disco inciso alla più perfetta macchina dell’attenzione, dalle grottesche voci a quelle suadenti, presentificanti della radio.

Darò un milione dunque esplica, più direttamente di altri film italiani del tempo, una precisa concezione del cinema sonoro dietro la quale è evidente l’impatto della radio e la necessità ormai di convivere con suoni autonomi da un visivo e con voci dotate di potere incontrollabili.

[…]

 
5.2.1. Voce filmica e presenze radiofoniche: La signora di tutti

Se c’è un film simbolo della vocalità nel primo cinema italiano, questo è sicuramente La signora di tutti,[13] film che da un lato con la sua particolare storia di donna rimanda indubbiamente a quell’area femminile in cui maturano molte teorie moderne sulla voce, dall’altro introduce la protagonista proprio attraverso un canto e un grido: nella sequenza iniziale, dove Isa Miranda si presentifica attraverso il disco che suona la sua canzone, prigioniera della voce meccanica; e nella sala operatoria, dove il suo «No, no, non voglio» trapela dal volto pure prigioniero delle macchine chirurgiche. Dunque un personaggio posto fin da subito come pura voce – quasi fosse, si vedrà, una presenza radiofonica – e però una voce pressoché privata di portato concettuale e sospinta ora verso il territorio della musica ora verso quello del rumore: un’icona femminile sempre presente ma sempre annullata, una donna che è voce ma una voce che vive sull’impotenza discorsiva.[14]

La signora di tutti rappresenta sicuramente un momento cruciale del cinema italiano: il film – a differenza di molte opere del periodo – gode di un discreto successo e certamente di una amplissima notorietà; mostra la volontà di andare oltre quel provincialismo di cui spesso viene accusata la produzione nazionale coeva, anticipando la costruzione e il mito di lì a qualche tempo di Cinecittà. Soprattutto è un film – nella prospettiva di questo studio – che si fa simbolo della “via italiana” alla voce e al suono, della forma di rappresentazione sonora particolare che il cinema italiano, a contatto con tecnologie sonore filmiche e radiofoniche, viene maturando.

L’impatto della radiofonia su La signora di tutti è a ben vedere pervasivo e ha a che fare non solo con la presenza della radio ma, come si è detto, con la materia espressiva del film sonoro e con le sue possibili strategie discorsive, prima tra tutti la presenza di una voce particolare. A ben guardare, al centro del film prima e forse più che il suono specificamente radiofonico c’è il suono riprodotto, c’è quella rivoluzione mediale generalizzata, di cui radio e cinema fanno parte ma che non si esaurisce con essi. Il film di Ophuls ne è un documento prezioso, non solo perché esordisce come si è detto sul primo piano visivo e sonoro di un disco, ma anche perché mostra un mondo realmente animato – in modo anche inquietante, come si è visto – da questi nuovi dispositivi di registrazione e riproduzione sonora.

Nella prima sequenza del film, il produttore (Lamberto Picasso) appare circondato da una serie di dispositivi sonori su cui la macchina da presa indugia in un’accurata panoramica, presentandoci in azione solo il grammofono dal quale esce la voce morbida di Gaby; qualche scena più avanti, all’annuncio del tentato suicidio di Gaby, vedremo questa macchineria infernale in azione: telefoni che suonano, altoparlanti e microfoni che anticipano i moderni “vivavoce”, citofoni interni, campanelli di comunicazione. Dopo aver offerto la tranquillizzante visione di un disco che suona, di una nuova potenzialità espressiva, Ophuls mostra una sensibilità e un’ossessione quasi hitchcockiana per il suono e mette in scena la realtà di un mondo profondamente modificato, in cui la voce si duplica e si diffonde. Non a caso è un film in cui l’effetto eco è quasi abusato, con quei «Non voglio, non voglio» e quei «Vergogna, vergogna», ambigui flashback sonori che perseguitano Gaby e la cui funzione più che drammatica sembra a questo punto decisamente simbolica: è la costante allusione a quell’amplificazione del suono che costituisce l’aspetto più importante della rivoluzione sonora, che permette di sganciare e diffondere nel mondo e sull’immagine i nuovi oggetti sonori, non più mezzi ma presenze autonome con cui imparare a convivere.

La radio, dunque, diventa innanzitutto una grande metafora per parlare del suono riprodotto e della sua problematica consistenza; qui, come in molte altre pellicole parlare del suono radiofonico significa spesso affrontare più o meno indirettamente il suono filmico e la problematicità del suo statuto “tecnico”. Ancora una volta La signora di tutti offre un esempio insuperato. Da un lato, di contro alla prassi dell’epoca che si avviava a diffondere in maniera massiccia la postsincronizzazione, Ophuls opta per la presa diretta. Egli dunque alimenta la grande illusione di un suono realmente prodotto da quell’immagine che vediamo sullo schermo saturandone l’eterogeneità; questa illusione anzi viene amplificata: le voci si “allontanano”, seguendo i personaggi che si muovono, e addirittura realisticamente si perdono quando le persone sono di spalle: è quanto succede ad esempio nella sequenza in cui, davanti alla sala operatoria, l’impresario e il produttore camminano avanti e indietro lungo il corridoio. Nello stesso tempo, il film non lascia intatta quest’illusione di realtà: non solo perché sintomaticamente a parlare sono spesso le ombre e solo con esse lo spettatore è invitato a godere del sincronismo (l’impresario che cerca Gaby all’albergo; Alma che vaga tra le stanze), ma perché Ophuls si diverte a sporcare continuamente queste voci, mescolandole ad esempio al sigaro che è quasi sempre tra le labbra degli uomini, macchiandole dell’accento esotico della Pavlova e, soprattutto, rendendole balbettanti, incerte, ripetitive come nel caso di Gaby. Anche qui si ritrova la somiglianza con alcune soluzioni di Mario Camerini, con le strane voci che popolano i suoi film, dall’accento e l’inflessione straniante di Assia Norris alla pronuncia un po’ biascicata di De Sica, dovuta all’ovatta per riempire le guance troppo scavate: ancora una volta il desiderio è quello di mettere in luce non l’estro del regista o la soluzione formale individuale, ma in qualche modo una traccia di processi comuni che attraversano il cinema e il panorama mediale dando luogo a una serie di nuove sfide percettive per lo spettatore che il discorso del film non sa ignorare.



[1] Le citazioni sono tratte rispettivamente da A. G. Bragaglia, Il film sonoro, Milano, Corbaccio, 1929, p. 36; A. Cecchi, Il cantante di jazz, «L’Italia letteraria», 28 aprile 1929 ora in Ombre bianche. Critiche cinematografiche 1929-1930, a cura di A. Tinterri, Sellerio, Palermo 1989, pp. 37-39; cit. da p. 39; G. Miracolo, Il film sonoro, «Comoedia», XI, 7, 15 luglio – 15 agosto 1929, pp. 21-22; cit. da p. 21; L. Ferrero, La voce al cinematografo, «Comoedia», XI, 4, 15 aprile – 15 maggio 1929, p. 16.

[2] Anon., Trasmissioni da Pallanza, dalla Fiera di Milano, dal “Lirico” e da S. Siro, «Radiorario», IV, 23, 3 giugno 1928, p. 1. Le osservazioni fanno riferimento alla trasmissione pubblica del messaggio ai combattenti italiani del Maresciallo Cadorna la sera del 24 maggio 1928.

[3] E. Giovannetti, Il cinema e le arti meccaniche, Sandron, Milano 1930, p. 183.

[4] E. Rocca, Panorama dell’arte radiofonica, Bompiani, Milano 1938, pp. 27-29, mio corsivo.

[5] Ivi, pp. 76-77.

[6] G. Telesio, Parlare alla radio, «Radiocorriere», VII, 52, 26 dicembre-2 gennaio 1931, p. 18.

[7] Penso naturalmente al Kracauer di From Caligari to Hitler, Princeton, Princeton University Press, 1947, tr. it. Da Caligari a Hitler, a cura di L. Quaresima, Torino, Lindau, 2001.

[8] Anon., Maria Luisa Boncompagni, «Radiorario», I, 24, 27 ottobre 1925, p. 3.

[9] Anon., Il discorso di Mussolini sulla “battaglia del grano” ascoltato per radio in tutto Italia, «Radiorario», II, 42, 16 ottobre 1926, p. 1.

[10] Gold (Vittorio De Sica), stanco della sua vita di milionario, abbandona a nuoto il sontuoso panfilo in cui è a bordo con alcuni ricchi amici e decide di nascondere la sua identità e di fingersi un mendicante, destinando un milione a chi sarà disinteressatamente generoso nei suoi confronti. A dare rinomanza alla cosa ci pensa il mendicante Blim (Luigi Almirante) che ha assunto i suoi vestiti e che, parlando con i giornalisti, scatena una vera e propria caccia al milionario tra i barboni della città in un’ipocrita gara di carità, che comprende una giornata e un pranzo gratis al circo gestito da un furbo impresario (Franco Coop). Gold nel frattempo avrà ritrovato tuttavia la gioia per la vita, grazie all’amore di Anna (Assia Noris), una bella ragazza, soubrette nel circo, che ignara della sua reale identità lo aiuterà e gli troverà un lavoro fino al riconoscimento e al fidanzamento finale con ritorno sul panfilo.

[11] Inchiesta sulla radio, «Il Convegno», XII, 7-8, 25 agosto 1931, pp. 361-437; in part. pp. 413-416; Rocca, Panorama dell’arte radiofonica, cit.

[12] L. Pirandello, Se il film parlante abolirà il teatro, «Anglo-American Newspaper Service», giugno 1929 ora in Pirandello e il cinema, a cura di F. Callari, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 120-125.

[13] Il film inizia con il tentato suicidio di Gabriella, la diva Gaby Doriot (Isa Miranda); mentre i medici tentano di salvarla, la donna narcotizzata inizia a ricordare la sua vita. Dopo l’espulsione da scuola, dovuta al suicidio di un professore invaghito della ragazza, la vita di Gabriella è dominata dall’incontro con la famiglia Nanni: il coetaneo Roberto (Federico Benfer), innamorato impacciato, la madre Alma (Tatiana Pavlova), costretta su una sedia a rotelle e a cui la ragazza fa da dama di compagnia, e il marito Leonardo (Memo Benassi) completamente ammaliato dalla giovane donna con la quale, in seguito alla morte della moglie per un tragico incidente, scapperà. Il rimorso tuttavia porterà Gabriella ad abbandonare l’uomo per provare a farsi una vita propria, proprio poco prima che costui in grave crisi finanziaria venga arrestato. Gabriella, rifugiatasi in Francia, diventa la famosa diva; la morte di Leonardo Nanni, appena uscito di prigione e travolto davanti al cinema in cui è presentato in anteprima il film La signora di tutti, che vede Gaby protagonista, origina tuttavia un grande scandalo. Sola, dopo aver verificato l’impossibilità di una nuova vita con Roberto Nanni, che ha sposato e messo su famiglia con sua sorella Anna (Nelly Corradi), Gaby decide infine di farla finita. L’ultima scena riporta al presente, dove ha fine l’operazione chirurgica e i medici decretano la morte della donna.

[14] Sull’impotenza discorsiva femminile nel cinema classico hollywoodiano vd. K. Silverman, The Acoustic Mirror. The Female Voice in Psychoanalysis and Cinema, BloomingtonIndianapolis, Indiana University Press, 1988; A. Lawrence, Echo and Narcissus. Women’s Voices in Classical Hollywood Cinema, BerkeleyLos AngelesLondon, University of California Press, 1991.













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