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Cristina Jandelli

Cristina Jandelli Breve storia del divismo cinematografico

Data di pubblicazione su web 21/10/2007
Marlene Dietrich

Pubblichiamo un paragrafo (pp. 69-77) dal volume di Cristina Jandelli, Breve storia del divismo cinematografico, Venezia, Marsilio, 2007.

 

 

La donna che anche le donne possono adorare

La caratteristica più rilevante dell’immagine divistica di Marlene Dietrich è stata tratteggiata con grande efficacia da Richard Dyer che la definisce «cristallizzata». Le sette regie di Sternberg nei primi anni trenta, secondo lo studioso, ne modellarono la futura continuità: per il resto della lunga carriera, anche negli spettacoli dal vivo come cantante, l’immagine divistica di Marlene restò per sempre fissata, ancorata a quel tempo[1]. Rispetto al mito, Dietrich e Garbo sono due incarnazioni della dea classica Artemide/Diana. Ma Greta Garbo è dotata di una androginia spirituale e psicologica, mentre Marlene Dietrich rappresenta una forma di androginia esplicitamente erotica. In Rodolfo Valentino la carica destabilizzante dell’alterità si rivela attraverso un’identità sessuale incerta. La Garbo nasconde l’omosessualità dietro il mistero. Con la Dietrich per la prima volta la rappresentazione del fascino femminile è esplicitamente orientata verso la conquista spavalda di entrambi i sessi.

Fin dal primo incontro agli studi dell’Ufa con Sternberg, la Dietrich, secondo la figlia, ne resta conquistata, perché, in vista del provino, il regista le ha fissato personalmente gli spilli a un vestito e si è occupato dei suoi capelli prima di chiederle di cantare in inglese. La sua padronanza della tecnica cinematografica e il perfezionismo nella costruzione della sua immagine seducono Marlene, che nei film tedeschi non si riteneva fotogenica. Sternberg, invece, sa come renderla più bella. Der Blaue Engel (L’Angelo azzurro) è il primo film sonoro prodotto in Germania e viene girato in versione multipla, inglese e tedesca. La Dietrich ottiene da Sternberg di realizzare da sola i suoi costumi. Mentre il regista sta montando il film, il 29 gennaio 1930 la Paramount, distributore americano di L’Angelo azzurro, telegrafa alla Dietrich la propria offerta: le propongono un contratto settennale con stipendio iniziale di cinquecento dollari alla settimana e aumenti fino a tremilacinquecento dollari il settimo anno (nel 1934 arrivò a guadagnare trecentocinquantamila dollari annui, somma iperbolica, tra i maggiori redditi degli Stati Uniti).

La Dietrich, preoccupata di dover dipendere dalle scelte della Paramount e di poter perdere Sternberg, fa aggiungere una clausola accessoria rilevante e onerosa per lo studio: spetterà a lei la scelta del regista dei suoi film. Rivaleggiare con la MGM, che aveva sotto contratto la Garbo, rendeva affannosa per gli altri studios la ricerca di star femminili europee. La Dietrich possiede il dono del canto, carta vincente per imporsi nel cinema sonoro a cui la Divina inizialmente rifiuta di aderire. Dopo il successo di Morocco (Marocco, 1930), in cui Marlene recita il ruolo di chanteuse e si esibisce in due canzoni, la Paramount si accorge di poter rivaleggiare con la Metro. Il giorno successivo alla prima di L’Angelo azzurro, la stampa berlinese proclama la Dietrich una star: la sua apparizione ha offuscato la grande prova d’attore di Emil Jannings, ma l’attrice è già altrove, sta viaggiando sul transatlantico che la porterà in America.

L’incontro con Travis Banton, il costumista della Paramount, rivela una nuova affinità elettiva. Banton mostra per Sternberg la stessa ammirazione e condivide con la Dietrich una resistenza alla fatica fuori dal comune. È di questo periodo la foto di Marlene vestita da yachtman diffusa dalla Paramount con la seguente frase di lancio: «La donna che perfino le donne possono adorare». L’aveva scattata Sternberg, mentre la Paramount aveva tentato inutilmente di proibire alla scritturata di mostrarsi in pubblico in pantaloni: il glamour di quell’immagine “dal vero” neutralizzò definitivamente i timori censori dello studio.

Sul set di Morocco l’operatore è Lee Garmes: la collaborazione del direttore della fotografia che per Shangai Express (1932) otterrà l’Oscar è in realtà meno duratura di quella con Sternberg. Garmes la fotograferà solo nei primi tre, ma il morbido flou con cui avvolge Amy Jolly in Marocco resterà leggendario: luce dal nord alla maniera di Rembrandt per valorizzare gli zigomi dell’attrice, scene girate di notte ma illuminate come in pieno giorno[2].  Il puntiglioso lavoro congiunto di Sternberg, Dietrich, Banton e Garmes per dar vita all’immagine divistica della Dietrich è oramai noto e in grado di sfatare la leggenda tramandata da lei stessa secondo cui, fotogramma per fotogramma, non faceva altro che ubbidire, prussianamente, con massima disciplina, agli ordini di Sternberg. Ecco cosa scrive in proposito, durante le riprese di Marocco, al marito rimasto in Germania:


Con Jo von Sternberg sul set c’è poco spazio per un’altra persona di temperamento. Ma devo riconoscere che è uno strumento perfetto per tirar fuori le emozioni. È riuscito a ottenere ciò che i parrucchieri giudicavano impossibile senza schiarire i miei capelli. Ha cambiato la sfumatura del colore con le luci, usando il controluce con tanta abilità che sfiora solo le punte dei capelli, creando come un’aureola. È un poeta che scrive con le immagini anziché con le parole; e invece di una matita usa la luce e una macchina da presa. Io sono un prodotto, il suo prodotto; sono interamente opera sua. Mi scava le guance con le ombre, mi ingrandisce gli occhi, e io resto affascinata dal volto che appare sullo schermo e ogni giorno attendo con ansia i rushes per vedere come apparirà la sua creatura[3].


Negli Stati Uniti l’uscita di Marocco, nell’ottobre del 1930, precede quella di L’Angelo azzurro, che viene distribuito nel dicembre dello stesso anno, seguito da Dishonored (Disonorata), proiettato per la prima volta nel marzo del 1931. In pochi mesi la cantante di cabaret berlinese diventa una star cinematografica mondiale. Ma neanche la nuova responsabilità può trattenerla dal desiderio di portare con sé la figlia ad Hollywood. La Paramount si mostra preoccupata per questa evidente dissonanza con l’immagine di donna fatale di cui la Dietrich sembra una perfetta incarnazione. Poi prende il sopravvento la strategia che gli studios continueranno ad applicare per decenni e che Thomas Harris rintraccia nella costruzione dell’immagine mediatica di due dive agli antipodi come Grace Kelly e Marilyn Monroe[4]: il materiale biografico autentico viene impiegato con grandissima efficacia sulle pagine dei periodici per diffondere l’immagine della persona-star. È Maria Riva, la figlia della Dietrich, a raccontare come nel suo caso si definisce la nuova immagine divistica:

I dirigenti dello studio, all’inizio tanto riluttanti ad accettare l’immagine completamente nuova della Dietrich madre, parvero soddisfatti. Capivano di avere fra le mani un’ottima occasione. La Dietrich non era soltanto il simbolo del “sesso”, la donna del “mistero”, la creatura “sofisticata”, per non parlare delle famose gambe; adesso era una Madonna. Difficilmente la Metro avrebbe potuto fare di meglio! Certo la Garbo non sarebbe riuscita a trovare una figlia dall’oggi al domani! Il reparto pubblicità ebbe l’ordine di stampare migliaia di cartoline con l’immagine della Dietrich e della figlia e di distribuirle ai fan impazienti[5].

All’apice della fama, Marlene Dietrich non è solo oggetto di venerazione da parte dei fans: viene vezzeggiata e coccolata da un’élite di personalità pubbliche che fanno a gara per mostrarsi degne delle sue attenzioni. Nel 1934, di ritorno dall’Europa dopo una traversata oceanica, Maria Riva descrive l’arrivo con la madre nella casa di Los Angeles ironizzando sulla sua particolare percezione dalla normalità. Per Maria e per sua madre è ordinario ciò che per le persone comuni appare irraggiungibile e irreale come la sua immagine.

Disfacemmo i bagagli e disinfettammo le assi dei gabinetti. La de Acosta e “i ragazzi” telefonarono. C’erano fiori mandati da Brian, Maurice [Chevalier], Cooper, Jaray [inventore e costruttore], Lubitsch e Mamoulian, e telegrammi inviati da Hemingway, Dorothy Parker, Scott Fitzgerald, Cocteau e Colette. La Paramount fece consegnare il mio nuovo cane e Jo [Sternberg] si fermò a pranzo. Tutto era rientrato nella “normalità”[6].  

Il rapporto fra Dietrich e Sternberg sul set viene descritto dalla testimone tendenziosa[7] come una sfida continuamente lanciata l’uno all’altra per ottenere il massimo risultato possibile da ogni segmento di inquadratura. Ma i burrascosi rapporti personali fra i due rischiano di trasformare questa professionalità maniacale in un gioco sado-masochista massacrante per entrambi[8]: «Anche se erano violenti solo a parole, e si ferivano con le menti taglienti e le lingue al vetriolo, c’era sempre la possibilità che un giorno o l’altro arrivassero a un punto di saturazione (…). Odiavo entrambi perché erano così furiosi e perché mi spaventavano»[9]. La teoria di Laura Mulvey, secondo cui il cinema di Sternberg è pura «scopofilia feticista» dove lo sguardo del regista (maschile) si oggettiva nel feticcio-Dietrich[10], trascura il contributo dell’attrice alla costruzione della sua immagine: l’oggetto dello sguardo è in realtà intimamente complice, perché la Dietrich è anche un soggetto che si autocontempla. Infatti non manca mai sul set un’enorme specchio semovente da lei “inventato”: lo fa sistemare sempre accanto alla cinepresa per vedere ciò che il regista sta per riprendere. Lo userà anche quando a dirigerla saranno altri registi. Sternberg è consapevole di questa cooperazione artistica e le scrive, in un cablogramma che invia al termine della prima collaborazione sul transatlantico Bremen diretto a New York: «Hai permesso alla mia macchina da presa di adorarti e a tua volta hai adorato te stessa»[11].

Per Shangai Express la Dietrich e Travis Banton lavorano sull’immagine del personaggio cinematografico a partire da una scelta dell’attrice che andrà a costituire il suo look. Come in Marocco, la star vuole apparire vestita di nero per sembrare più snella, e l’abito dovrà essere coperto di piume. Dopo lunghe e laboriose selezioni, la Dietrich opta per quelle dei galli da combattimento, «nere con una luce propria, sottili e curve»: è la materia prima a partire dalla quale Travis Banton disegnerà il costume per la prima apparizione di Shangai Lily[12].

Certo, a Sternberg vanno attribuite le scelte professionali decisive per la Dietrich, dal primo provino alla definitiva rottura della collaborazione dopo The Devil is a Woman (Capriccio spagnolo, 1935). È Sternberg, per esempio, a rifiutarsi di dirigerla in The Song of Songs (Il Cantico dei Cantici, 1933) e a suggerirle di far ricorso al suo diritto contrattuale chiedendo come regista Rouben Mamoulian, cosa che in effetti la Dietrich farà[13]. Ma sul set si gioca una partita ad armi pari, dove folgoranti intuizioni elementari costituiscono l’apporto della star, come quando, durante le riprese di The Scarlett Empress (L’imperatrice Caterina, 1934), mentre Lubitsch e Sternberg sono impegnati a litigare, lei chiede che venga posata sul tavolo della vera uva. «Ho preso un grappolo e ho cominciato a mangiare gli acini, uno alla volta. Lentamente. Jo ne farà un primo piano! Ha approvato… Io l’ho fatto solo per dare a Caterina qualcosa da fare, invece di starsene seduta sotto il peso di tutte quelle terribili perle»[14]. Grazie a un atteggiamento volutamente provocante, l’attrice sbaraglia la passività del personaggio con un’azione fisica semplice ed efficace. Ancora, per Capriccio spagnolo la Dietrich vuole conferire a Conchita profondi occhi scuri da donna latina. Di nascosto a Sternberg, si fa mettere delle gocce di atropina negli occhi per dilatare le pupille, ma non riesce a recitare perché completamente accecata e allora gli confessa tutto:

Jo l’ascoltava con tenerezza. «Cara, perché non mi hai detto che volevi gli occhi scuri? Posso darteli io!». Raggiunse il riflettore che doveva illuminare mia madre, lo spostò leggermente, strappò un pezzo di carta dal blocco degli appunti, lo fissò al bordo superiore della lampada e disse: «Devi sempre chiedermi quello che vuoi, io posso dartelo». L’indomani mia madre era al settimo cielo. In saletta di proiezione lanciò un grido di gioia quando si vide con gli occhi scuri da spagnola. «Sì, sì! Ci sei riuscito! Un genio! Sei un genio». «È stata un’idea meravigliosa, cara. Come al solito, sapevi esattamente che cosa mancava. Comunque saresti stata perfetta anche con gli occhi chiari». «No. Adesso va bene!»[15].

Quando la Dietrich crea il suo personaggio, Sternberg si pone al suo servizio. Quando è il regista a ideare soluzioni determinanti, la Dietrich pretende da se stessa un’esecuzione perfetta e non si stanca mai di ripetere le scene. Per la presentazione del personaggio di Conchita, secondo la descrizione di Maria Riva, Sternberg si allena a sparare perché intende inquadrare un palloncino che, scoppiando all’improvviso, farà apparire in modo originale il volto della Dietrich e, dato il pericolo costituito da un eventuale fallimento del bersaglio, vuole essere lui stesso a prendere la mira. Chiede però all’attrice di restare impassibile al botto per dare allo stesso tempo il senso dell’inaccessibilità e dell’irrealtà della sua apparizione. La Dietrich si sottopone a prove estenuanti per neutralizzare il potente riflesso condizionato di sbattere le palpebre ma la performance alla fine  viene, come sempre, correttamente eseguita[16].

È Sternberg a mettere fine al loro sodalizio professionale. È lui a esigerlo, ad affidare la Dietrich nelle mani di Lubitsch che odiava, a comunicare la sua decisione alla stampa e infine a scrivere, come fosse la battuta di una sceneggiatura, alla sua Lorelei il telegramma del commiato: «Danke, es war himmlisch, auf wiedersehen»[17]. Le foto per il lancio di Capriccio spagnolo non recano, come acutamente nota la Riva che più di una volta si sofferma sul mistero della fotogenia materna, alcuna traccia del dolore per una separazione contro cui la Dietrich aveva lottato strenuamente:

Le immagini che uscirono da questa seduta sono fra le più superbe che si conoscano della Dietrich. Splendono, sfolgorano, incantano… e dietro i suoi occhi non c’è nulla che distragga dalla perfezione. È appunto questa la disciplina del mestiere. I problemi personali erano esclusi. Nulla, assolutamente nulla poteva infiltrarsi e rovinare il prodotto. Non erano ammesse scuse per le trascuratezze emotive. Basta lasciare che un’angoscia personale traspiri una sola volta perché l’obiettivo la riveli, registri la vulnerabilità segreta dell’attore e diventi suo nemico. Solo i grandissimi attori riescono a volte a sfruttare la sofferenza personale per potenziare un’interpretazione. Se a mia madre mancava qualcosa in fatto di talento, lo compensò con la disciplina[18].

Dopo Capriccio spagnolo la Dietrich rinuncerà a creare un’immagine diversa, limitandosi a perpetuare quella plasmata con Sternberg. Prolungare la costruzione dell’immagine filmica sternberghiana dopo l’abbandono del Maestro significa potenziarla anzitutto attraverso un ispessimento dell’immagine mediatica. Fino a quel momento la Dietrich aveva evitato la mondanità hollywoodiana. Dopo vi si getterà a capofitto. Obbliga Banton a creare nuovi costumi non per il set ma per le sue esibizioni in pubblico, a partire da una semplice idea cui dare forma. Quando in privato vuole incarnare il suo personaggio divistico, le basterà dipingersi le sopracciglia con la curva proibitiva di Capriccio spagnolo. Per un party hollywoodiano assediato dai fotografi, che richiede ai partecipanti di travestirsi da chi si ammira di più, la Dietrich fa realizzare da Banton un costume da Leda inscenando il mito del cigno bianco che seduce una vergine: la diva si presenta alla festa con riccioli corti da statua greca, inguainata dallo chiffon bianco, con la testa del cigno appoggiata su un seno e le piume a ricoprirle metà del corpo, accompagnata da un’amante attrice vestita da Dietrich, in  frac e cappello a cilindro. In seguito, quando non sarà più possibile “rubare” i suoi collaboratori (fra cui la parrucchiera personale) alla Paramount, con cui aveva rescisso il contratto, disegnerà da sola costumi e acconciature che gli appositi reparti degli studios dovranno solo eseguire. Infine, nelle tournée internazionali della maturità, sul palcoscenico riproporrà i costumi disegnati da Banton per i film di Sternberg. L’accostamento che Susan Sontag ha tracciato fra la figura della Dietrich e il concetto di camp andrà accolto dunque come chiave di lettura che investe l’immagine della star dentro ma anche fuori dallo schermo:

Carattere distintivo di camp è lo spirito della stravaganza. È camp una donna che passeggia con un vestito fatto di tre milioni di piume (…). È camp lo scandaloso estetismo dei sei film americani di Sternberg, e in particolare dell’ultimo, The Devil is a Woman… In camp c’è spesso qualcosa di démésuré anche nelle intenzioni, e non soltanto nello stile dell’opera[19].

La parabola divistica di Marlene Dietrich appare fuori misura ed estranea all’immagine dell’ordine sociale inscenato dallo studio system hollywoodiano dopo l’avvento del New Deal e l’introduzione del Codice Hays istituito per moralizzare la dissipata mecca del cinema. L’ostentazione della bisessualità, intesa come aperta trasgressione dei codici morali borghesi, caratterizzava la comunità teatrale berlinese dei secondi anni venti, nella quale l’attrice cantante si era formata. Il suo personaggio cinematografico appare infatti spietato con l’altro sesso già prima dell’incontro con Sternberg: in Ich küsse Ihre Hand, Madame (Il bacillo dell’amore, di Robert Land, 1929) la Dietrich, brillante divorziata, porta il nome maschile di Laurence Gerard e, da autentica dominatrice, all’uomo che dichiara di essere disposto a fare qualunque cosa per lei, risponde «Va bene. Puoi portare a passeggio il mio cane». Egocentrismo crudele e fredda insolenza, attribuiti da Sigfried Kracauer al personaggio di Lola Lola, che gli sembrò delineare una nuova incarnazione del sesso, appaiono tratti distintivi della personalità divistica della Dietrich, originalmente abbinati con il romanticismo decadente, lascito della femme fatale degli anni dieci e venti, che affiora da ogni sua interpretazione.

Di davvero inconsueto, nei suoi personaggi, c’è la malizia autoironica, il gioco della sconcezza che turba e ammalia chi guarda e la diverte: l’atteggiamento con cui in Marocco, vestita da uomo, annusa con sguardo compiaciuto il fiore che le viene porto da una spettatrice per poi baciarla sulla bocca, è lo stesso che si ritrova nelle occhiate spavalde e gigionesche che Caterina la Grande, con il colbacco sulle ventitré, riserva ai soldati schierati in rivista: li scruta, perlopiù dal basso all’alto, come a saggiarne la virilità. Le donne fatali dietrichiane appaiono costantemente allusive, dominatrici, fredde e fiere di esercitare una seduzione implacabile su entrambi i sessi che gratifica il loro narcisismo. La Dietrich impone l’immagine di una sessualità esplicita e trasgressiva in evidente dissonanza con gli anni trenta: in questo rappresenta il canto del cigno dell’età del jazz. È una star dislocata che ancora oggi continua a incarnare un modello esemplare di alterità imperiosa, un’icona del camp di ogni tempo.






[1] R. Dyer, Star, Torino, Kaplan, pp. 83-84.

[2] La testimonianza di Lee Garmes è riportata in C. Higham, Marlene Dietrich, Milano, Dall’Oglio, 1979, pp. 106-109.

[3] M. Riva, Marlene Dietrich mia madre, Piacenza, Frassinelli, 1993, p. 87.

[4] T. Harris, The Building of Popoular Images. Grace Kelly and Marilyn Monroe, in «Studies in Public Communication», n. 1, 195, trad. it. F. Pitassio, Attore/Divo, Milano, Il Castoro, 2003, pp. 158, 164.

[5] Riva, Marlene Dietrich, cit., p. 100.

[6] Ivi, p. 293.

[7] Su Maria Riva cfr. S. Arecco, Marlene Dietrich. I piaceri dipinti, Genova-Recco, Le Mani, 2006, pp. 38-40. 

[8] Cfr. G. Studlar, In the Realm of Pleasure: von Sternbeg, Dietrich and the Masochistic Aestetic, New York, Columbia University Press, 1988.

[9] Riva, Marlene Dietrich, cit., p. 106.

[10] Cfr. L. Mulvey, Visual Pleasure and Narrative  Cinema, «Screen», anno XVI (1975), n. 3, 1975, pp. 6-18.

[11] Riva, Marlene Dietrich, cit., p. 73.

[12] Ivi, p. 106.

[13] Ivi, p. 139.

[14] Ivi, p. 271.

[15] Ivi, pp. 312-313.

[16] Ivi, pp. 313-315.

[17] «Grazie, è stato paradisiaco, arrivederci». Ivi, pp. 321-326.

[18] Ivi, p. 327.

[19] S. Sontag, Contro l'interpretazione, Milano, Mondadori, 1967, p. 371.










 

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Cristina Jandelli,
Breve storia del divismo cinematografico
(Venezia, Marsilio, 2007)





 
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