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Italo Moscati

Chiedi alla valigia... Romanzi, film, Eduardo, Totò, l’emigrazione

Data di pubblicazione su web 13/06/2006
Antonio De Curtis, Totò
Ho rubato il titolo a John Fante, lo scrittore italoamericano, autore di Aspetta primavera Bandini (1938) e Chiedi alla polvere (1939). L’ho rubato da questo secondo libro di cui è stato fatto di recente un film come era accaduto anni prima anche all’altro. Bei film, usciti da romanzi belli e intensi che raccontano la storia, anzi le storie di un figlio di abruzzesi che diventa americano, che non si dimentica anzi della sue origini, e che oggi viene riscoperto dopo decenni di silenzio.

Di John Fante riscoperto, noi veniamo a sapere che ha lavorato molto per Hollywood come sceneggiatore. Come accadeva nel primo Novecento quando centinaia di italiani (emigranti o figli di emigranti) davano un contributo di lavoro e di talento alla Città dei Sogni, come hanno cercato di dimostrare Paolo e Vittorio Taviani nel loro Good Morning Babilonia (1987).

A proposito. Le date sono importanti per tutti ma in special modo per chi ha preso la valigia e si è messo in viaggio per terre assai lontane o per terre meno lontane; ci ha messo dentro le speranze senza sapere che la valigia quando non verrà più usata continuerà a conservare queste speranze. Se la valigia stessa dovesse andare perduta o peggio distrutta, le speranze mai invecchiate saranno stipate nella valigia della memoria inscidibilmente imprigionata per sempre nel ricordo di quel bagaglio che non c’è più.

Chiedi alla polvere ma soprattutto alla valigia, per capire che cos’è la polpa, la pulp (senza fiction) dell’emigrazione. Pulisci le scarpe e fa appello alle braccia per reggere il peso delle speranze che sarà sempre e comunque più leggero dell’immobilità.

Io ho chiesto ad una valigia quando ho dovuto occuparmi dell’argomento in due momenti diversi ma a stretta vicinanza l’uno dall’altro. Non so come, accadde che a qualcuno che cominciava a produrre un cd-rom venne l’idea di chiedermi di partecipare alla realizzazione di un’opera vasta proprio sull’argomento insieme allo storico Emilio Franzina, autore di pregevoli studi. Con Franzina preparammo il progetto poi, al momento di passare a una fase successiva, tutto si arenò e fu un peccato.

Fu un peccato e, per me, fortunatamente l’occasione di provare una voglia di rivincita. Dovetti aspettare per averla, la ritrovai un paio di anni dopo. Venni invitato a partecipare a un bando indetto dal gruppo di esperti di emigrazioni, raccolti intorno all’editore Donzelli su commissione del Comitato Italiani nel Mondo, per la realizzazione di un documentario ispirato a due volumoni compilati benissimo a cura degli stessi esperti, intitolati Storia della emigrazione italiana - Partenze e arrivi. A collaborarvi questi illustri signori avevano chiamato il meglio degli studiosi.

I libri erano irti di saggi, tabelle, documentazione. Perfetti per raccontare fatti, personaggi e problemi, poco adatti a trasformarsi in linguaggio per il cinema o la tv, ma indispensabili per mettere in moto il cervello e proporre un soggetto da trasferire in immagini.

Mi aiutò, scrivendo il soggetto, l’inizio del film di Giuseppe Tornatore, La leggenda del pianista sull’Oceano (1998), tratto dal libro di Alessandro Baricco. Lo ricorderete. Accompagnata dalla magnifica musica di Ennio Morricone, la macchina da presa inquadra la tolda di uno di questi piroscafi che portavano nel paese della Statua della Libertà, nel porto di New York, migliaia e migliaia di italiani emigranti. Quando s’intravede la Statua sullo sfondo, un ragazzo tra gli altri esulta e poi si arresta. La macchina da presa entra letteralmente -sembra- negli occhi del ragazzo in cui si riflette la stessa Statua. Come dire: gli sguardi erano (sono) lo specchio di una speranza di terra promessa.

Avendo in mente quella efficace immagine, io sentivo che lo specchio esisteva e soprattutto esiste ancora. Le navi o i canotti che arrivano sulle coste italiane portano forse gente che ha negli occhi lo spettacolo di una società del benessere, e generosa, la nostra?

Partendo da qui ho poi realizzato il documentario che ho chiamato Occhi sgranati, raccontando in 42 minuti la storia dell’emigrazione, ovvero un’applicazione del gioco di specchi. Il documentario è piaciuto agli esperti e poi al pubblico che lo ha conosciuto in tantissime proiezioni fatte in diverse parti d’Italia, in festival, convegni, manifestazioni, presso sedi di associazioni.

Avevo un segreto da sfruttare. In quegli occhi avevo inserito quelli del signor Alceste. Alceste non c’è più, è morto, aveva parenti che sono andati in America e si sono stabilito a Bayonne, nel New Jersey, trovando lavoro, mettendo su famiglia e facendo eredi. Anche lui era un emigrante nel modo che cercherò di esporre brevemente, a ciglio asciutto,confidando di offrire un piccolo caso come un’opportunità, l’opportunità di avvicinarsi al sapore di fondo, di vita, di esperienza, di chi ha saputo chiedere alla valigia e ha avuto risposta.

Ecco, per stare nel tema, un pezzo della storia dell’ emigrante Alceste, che era -lo chiarisco subito- mio padre nato a Napoli all’inizio del 1900, nella grande stagione dei viaggi e degli arrivi nelle terre promesse.

Un padre che come emigrante si rivelerà all’improvviso, in un giorno del 1944, inverno, alla periferia di Bologna. Si rivela proprio a me, e non lo potrò mai dimenticare.

La periferia, dunque. Bologna, dunque. Nei mesi, nei lunghi giorni che mancano alla fine della guerra.

Tutto si svolge in un angolo dimenticato della via Emilia, la strada che porta a Rimini e all’Adriatico. Una fettuccia di asfalto sdrucito dalle bombe, dritta come un righello di scuola, che si s’incunea nell’abitato e poi si smarrisce in un reticolo di vie e viuzze.

Nell’ottobre 1944 a lasciare il segno profondo sull’asfalto sono i carri armati Leopard dell’esercito tedesco. Vanno e vengono dalla Linea Gotica dove gli alleati guidati dagli americani e dagli inglesi premono per abbattere le tenaci resistenze dei soldati di Hitler e degli scampoli delle truppe della Repubblica sociale di Mussolini.

I carri mimetizzati passano fra ali di bambini che li guardano sempre stupiti, affascinati dall’impotenza e dai lunghi cannoni che escono da cabine blindate dove brillano occhi cerchiati di polvere dietro strette fessure, storditi ed eccitati dal rumore dei cingoli che vanno a ritmo veloce, da fox trot. Gli adulti non guardano e non si soffermano; c’è la lunga fila da fare ai negozi con la tessera annonaria in mano, e c’è il parroco che chiama le sue pecorelle smarrite per la paura perché diamo una mano alle famiglie in cui un malato si lamenta o si piange un disperso sui fronti di battaglia.

I bambini si divertono. Gli americani hanno appena bombardato.

E’ stato bello svegliarsi nel cuore della notte e rifugiarsi in cantina fra i sacchetti che si possono bucare per fare uscire la sabbia e costruire con essa un gran castello come sulla spiaggia. E’ bello che la mamma abbia preparato la colazione di caffelatte e di vecchio pane abbrustolito. Bello che il signore anziano del pianerottolo sia già pronto a fare una partita a carte sotto le bombe. E’ bello spiare dalle finestrelle i lampi della contraerea che fanno a gara con i razzi sparati nel cielo nero. E’ bello toccare il piccolo seno della ragazzina perché, come dice lei che è più grande e assicura l’autore del gesto, così fanno gli adulti in divisa prima di partire per andare a fare la guerra. Bello pensare che l’indomani si andrà a caccia delle schegge acuminate delle bombe esplose che si collezionano ormai come piccoli gioielli da scambiare al mercatino dei giochi proibiti. E’ bello, anche se il gatto è morto da ore e puzza un po’, seppellire quei peli e quelle quattro ossa con tutti gli onori militari. Ogni giorno così.

Ma la vera festa in mezzo alle feste ordinarie si scatena nel pomeriggio del sabato. Accanto al ponte della ferrovia sul quale si accaniscono le fortezze volanti, c’è un ospedale militare. I feriti sono decine, forse centinaia. Se non sono a letto, ciondolano coperti di garze come mummie da un vialetto all’altro del piccolo parco selvaggio d’erba e di sterpi. I feriti si danno grandi colpi con le mani sulle spalle e sui fianchi per scaldarsi. Attendono il pomeriggio del sabato con un’impetuosa emozione. Quel pomeriggio sembra importare loro più dell’annuncio della fine della guerra che appare ancora lontana, quasi un’illusione, marcati nella carne come sono dalla sfiducia oltre che dai proiettili nemici.

L’occasione del pomeriggio del sabato è unica, se il cielo si coprirà di fortezze volanti potrebbe essere addirittura l’ultima. Per questo motivo, nei bagni dell’ospedale o nei giacigli davanti allo specchietto tenuto su da un parente o da un commilitone, ci si fa la barba e ci si pettina con cura. I capelli soprattutto devono essere ravviati e lisci, domati con la brillantina, ordinati e lucenti.

In questa cura c’è –l'ho pensato molto tempo dopo- il desiderio di tornare agli anni di pace in cui vivevano, secondo le fotografie degli album di famiglia o dei giornali illustrati, gli italiani e le italiane dagli abiti semplici e ben stirati, dagli eleganti cappelli o cappellini che sovrastavano le composte pettinature, dalle scarpe splendenti di crema; oppure, per gli uomini, vestiti dalle divise impeccabili per le adunate o le sfilate.

Fine del breve flash-back.

Il sabato pomeriggio il sipario si alza nel grande refettorio in cui aleggia l’odore del sugo di pomodoro, e comincia lo spettacolo. Ecco il sospirato appuntamento. Oltre ai feriti, che sono quasi tutti meridionali e parlano tutti nel loro dialetto, si affollano in pochi metri quadrati i parenti o gli amici che sono riusciti a intrufolarsi, non si sa come; o meglio si sa, ma nessuno ci fa più caso, tanto è cosa di tutti i giorni. Basta una manciata di zucchero per avere un angolino magari in piedi nel refettorio stipatissimo.

A uno di questi sabati vengo condotto anch’io, tenuto per mano da mio padre che è lì in visita a un amico ferito, un amico che non parla , gli tocca la mano fasciata che spunta da una giacca logora portata sui pantaloni di una divisa, forse da guardia di finanza, e sorride.

L’ospedale mi si presenta come un grande rifugio per i bombardamenti, più illuminato, più rumoroso, più allegro. Ci sono soldati di buon umore che agitano stampelle e gridano nomi femminili, ridono e cantano.

Un’orchestrina alla buona prova gli strumenti. Un paio di infermieri si tolgono il camice e indossano i costumi di scena.

Sono un uomo e una donna, giovani. Mi sembrano bellissimi, incipriati e truccati. Si guardano, non staccano gli occhi da dosso l’uno dall’altra, sembra che il mondo intorno sia scomparso. Ma non è così. Si tuffano negli applausi di saluto. Tutti li chiamano per nome, li prendono in giro, fischiano e applaudono; qualcuno afferra un fiore e lo lancia verso la ragazza dai capelli folti e bruni. Poi la luce per un attimo si spegne.

E’ un segnale. La situazione cambia. Gli attori cantano. Gli spettatori tacciono, a bocca aperta. Gli orchestrali suonano a pieno ritmo. Gli attori sono uno di fronte all’altra. Lei tiene le mani sui fianchi, lui con la giubba da soldato la brucia con gli occhi e le mormora: “Levate ‘a cammesella…”

E’ una canzone che tutti conoscono, e tutti adesso cantano e ballano come possono, dimenticando i due corpi che sulla scena si eccitano, si afferrano e si lasciano per riprendersi e poi svincolarsi, a lungo…

Il refettorio è una giostra, turbolenta e felice. Ripete l’attore: “…e levate ‘a cammesella…” e tutti rispondono facendo coro insieme alla dama bruna : “…Gnornò, gnornò…”, signor no, signor no!

Io non so cosa fare. Mi accorgo di esserci: il caldo mi fa girare la testa ; gli odori di cibo e di medicinali che ristagnano, mi danno nausea. Ma non voglio andare via, non voglio distrarmi dallo spettacolo che mi circonda. Quel gioco fra le lenzuola che fanno da fondale, m’attrae.

Guardo mio padre che mi ha preso sulle spalle per farmi vedere meglio. Le sue labbra si muovono appena, accennando a cantare; i suoi occhi sono fissi, ammaliati, dritti verso le lenzuola, la sua testa è tesa, spinta in avanti; il collo rigido, le sue mani mi stringono forte, sempre più forte quando il ritmo si fa più intenso; le sue gambe ondeggiato sui piedi irrequieti. Scivolo sulla sua spalla e non vedo, non sento più nulla.

Mi riprendo fuori, fa freddo e mio padre mi copre con la sciarpa. La musica esce da sotto le porte e dalle fessure delle finestre chiuse. Mio padre mi scalda, fregandomi la fronte con la mano, ma il suo sguardo va al di là dei vetri opachi. Mi chiede con un sussurro preoccupato come sto. Poi, come per scusarsi di non avere compreso il mio disturbo, mi racconta ciò che lo spettacolo dei due infermieri-attori gli ricorda il suo passato (un passato che è anche il mio). Mi parla di altri attori, di altre recite che aveva visto da ragazzo a Milano, dove era arrivato con la sua valigia di cartone, entrando nei teatri clandestinamente, nascostamente. Lo ascolto in silenzio e credo di accorgermi che, parlando di quei tempi prima della guerra, la voce gli si stringe in gola.

Il piccolo emigrante napoletano approdato nella città delle industri e delle banche mi racconta di Eduardo De Filippo.

Era l’Eduardo del teatro di rivista e delle commedie brillanti, uno degli attori già famosi e irresistibili che i giovani del Sud cercavano nella terra delle nebbie per riandare con i ricordi, con la fantasia a casa, nel quartiere di casa.

Eduardo e Totò erano i primi nomi che andavano e venivano sulle labbra di mio padre quella stessa sera bolognese, due nomi leggendari, più degli eroi della guerra che per Alceste forse non esistevano neppure, nonostante il tintinnio dei medaglieri di quelli anni bellici. Eduardo e Totò esistevano più del re, più del Duce Mussolini, più dei capi politici e militari che tentavano invano di infilarsi impettiti fra una notizia e l’altra sulle sciagure in corso, già consci di andare al naufragio.

Eduardo e Totò. Totò ed Eduardo, due emigranti vincitori in patria, àncore di salvataggio ideale per milioni di italiani del Sud saliti al Nord, emigranti spesso senza vittorie. Tra cui Alceste, a Milano.

Milano. La Milano dei milanesi che lo stesso Eduardo salutava dal palcoscenico dopo il suo spettacolo: “Ora ci allontaniamo da voi, addolorati per il distacco, ma soprattutto soddisfatti, e infinitamente riconoscenti”.

A teatro quella sere -dovevo scoprire poi, cercando altre storie di quell’epoca- non c’era solo la Milano dei milanesi o dei trasferiti. Questa seconda categoria di persone non era meno numerosa dell’altra, anzi; e presentava gli italiani che lo Stato aveva spostato da una regione all’altra in un vortice intenso. Fiumi di impiegati e di militari, di addetti alle prefetture, di docenti e di poliziotti avevano traslocato, reimparando la lingua, ripulendola dalle cadenze dialettali, avevano allacciato e reimpostato rapporti amorosi, fidanzandosi, sposandosi, facendo figli, i nuovi italiani frutto di un’osmosi senza fine. Spesso, anche loro come gli operai gente con la valigia.

Le parole di Alceste l’emigrante mi aprivano appena appena gli occhi, durante il racconto fuori dall’ospedale di Bologna, su una realtà che dovevo molti anni dopo conoscere e persino studiare a fondo; ma evidentemente lasciavano un deposito che ho ritrovato, anzi che mi ha accompagnato e mi accompagna con pensiero costante: senza quell’emigrante che cercò e sposò una donna anch’essa emigrante sarei nato? E dove? Quando?

Domande ingenue che mi rifacevo soprattutto se mi imbattevo in Eduardo e nei suoi spettacoli- per molti anni ho fatto il critico teatrale oltre che di cinema per l’Europeo e per il settimanale Tempo.

Un Eduardo che ho sempre visto, grazie a quel racconto, in modo diverso o meglio particolare, con un caldo sentimento personale. Eduardo applaudito (come Totò e tutti i campioni della spettacolarizzazione napoletana come la chiama Raffaele La Capria nel libro L’armonia perduta) da immigrati e trasferiti non solo a Milano ma in tutte le città del Nord. Il soldatino di Napoli o di Avellino o di Amalfi, o il cuoco di Positano, il contadino di Benevento trascinavano nell’entusiasmo del ritrovare e ritrovarsi i siciliani, i pugliesi, i lucani; e questi, a loro volta, trascinavano gli stessi napoletani, gli abruzzesi, i calabresi… persone che cercavano uno scampolo di identità in una terra nuova senza seppellire le loro terre.

Andavano, questi anonimi, di sala in sala, pagando con i risparmi o contando su l’occhio chiuso delle maschere compiacenti, magari compaesani. Andavano per riempirsi le orecchie di parole e di musica del cuore. Cercavano un rimpatrio a poca spesa.

Questa popolazione mista ed estranea spesso a lungo nei luoghi delle promesse, asserragliata nelle periferie o nei vicoli abbandonati dei centri storici, amava stordirsi e sognare con le battute dei comici, le canzoni cariche di pathos e di spensieratezza, come quella che avevo ascoltato nell’ospedale militare di Bologna.

Lo spettacolo leggero era la sede preferita dei loro desideri e del risveglio della memoria. Risate e versetti d’amore, buoni e gustosi come il pane e salame, la frittata nel panino nei viaggi di mille chilometri, erano il dono della nostalgia intesa come carica per rimettere in corsa le energie, tutte le energie.

Era fame e sete di radici. E voglia di scavare e piantarne delle nuove.

Questo e tanto altro ancora c’era nella valigia di mio padre, una valigia che lui ha interrogato sempre, costantemente, accanitamente, trovandovi tutto quanto gli serviva per vivere e non solo sopravvivere in una società che è stata a lungo poco aperta con gli emigranti o immigrati interni in tempi lontani; come lo è oggi con coloro che arrivano sulle nostre coste e alla nostre frontiere cariche di valigie di domande.

Ricorda di chiedere alle valigie…



 

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