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Paola Valentini

Il suono nel cinema

Data di pubblicazione su web 15/05/2006
Copertina
Pubblichiamo due estratti da Paola Valentini, Il suono nel cinema. Storia, teoria e tecniche, Venezia, Marsilio, 2006


Dal capitolo Il passaggio al cinema sonoro pp. 23-26:

1.2. IL PASSAGGIO AL SONORO

Nonostante la sala e il film del cinema muto risuonassero fin dalle origini rumorosamente, è con la fine degli anni venti che il cinema si converte definitivamente al suono. Gli esperimenti di sonorizzazione della pellicola cinematografica si erano succeduti fitti fin dall'esordio del cinema in tutti i paesi del mondo e tuttavia subiscono una brusca accelerazione a fronte della crisi economica e d'idee degli anni venti, portando tutto il mondo tra il 1926 e il 1930 ad attuare abbastanza velocemente la rivoluzionaria conversione al cinema sonoro. Se il passaggio è veloce e per certi versi violento, è anche vero che il sonoro intraprende una fase di transizione per nulla rapida e incisiva, che nelle visioni più radicali perdura nell'oggi, sulla spinta delle continue modificazioni cui il suono del film e della sala sono sottoposti. Rimanendo al periodo della transizione essa è progressiva per una serie di motivi. Innanzitutto il graduale perfezionamento della tecnologia porta a modificare le tecniche in uso dapprincipio, spesso dichiarandone bruscamente l'obsolescenza; in secondo luogo l'evoluzione della sala origina una conversione a macchia di leopardo e legittima una distribuzione mista che a lungo vede affiancate le grandi pellicole sonore e quelle mute o "ammutolite" dall'assenza di strutture nei luoghi di proiezione. Per avere un'idea dei cambiamenti radicali e pertanto non realizzabili nell'arco di una notte cui il sonoro costringeva basterebbe ricordare che persino la cadenza del cinema muto dovette essere rimessa in discussione; la registrazione fotoelettrica del suono sulla colonna sonora del film imporrà una cadenza di ventiquattro fotogrammi al secondo, sovvertendo la velocità di scorrimento del film a sedici fotogrammi al secondo faticosamente attestatasi durante il muto ma che con la sua "lentezza" avrebbe vistosamente pregiudicato la qualità del suono letto sulla pellicola. L'accoppiata fonografo cinematografo era stata la prima risorsa cui il cinema si era richiamato per divenire sonoro. Molti erano tuttavia gli ostacoli alla diffusione di questo sistema: l'impossibilità ancora fino al 1902 di duplicare in serie i dischi in cera, la perdurante difficoltà a realizzare registrazioni di una certa lunghezza, i forti ostacoli alla sincronizzazione e, argomento tra i più difficili da sviluppare, l'arretratezza dell'amplificazione che rendeva arduo diffondere il suono in tutta una sala dalla semplice tromba del grammofono. Accanto, anche il rifiuto del sonoro a livello simbolico o la mancanza di una domanda come direbbero gli economisti; così Auguste Baron, che aveva cominciato a realizzare film sonori già nel 1899, accoppiando elettricamente un cinematografo di Lumière e un fonografo, interruppe presto gli esperimenti perché nessuno in Francia fu disposto a dare credito alla sua invenzione e andò in rovina riducendosi, come molti pionieri del gioco di luci sullo schermo, alla cecità. Il primato dell'apertura ufficiale dell'era sonora spetta alla casa di produzione americana Warner Bros, che il 6 agosto 1926 al Warner Theater di New York presenta in anteprima mondiale Don Juan per la regia di Alan Crosland e l'interpretazione di John Barrymore e Mary Astor. La casa di produzione sull'orlo della bancarotta tentava infatti di risollevare le sue sorti confidando nel sonoro e nell’acquisto di quel sistema sound-on-disc Vitaphone già rifiutato dalla Paramount di Adolph Zukor e da altre case importanti. Stringendo un accordo con la Western Electric, in cui questa offriva le apparecchiature e gli ingegneri e la Warner le maestranze artistiche, venne dato avvio all'impresa che portò alla realizzazione del primo lungometraggio sonoro ufficiale, ottenuto dalla sincronizzazione con una colonna sonora incisa su disco.

Pur privo di parola, sostituita ancora dalle classiche didascalie, Don ]uan (in Italia presentato con il titolo di Don Giovanni e Lucrezia Borgia) offriva una rappresentazione del mito di Don Giovanni accompagnata da numerosi effetti sonori e da una partitura originale appositamente eseguita e registrata dalla New York Philarmonic. L'intuizione dei quattro fratelli Warner tuttavia era lungimirante e non solo tentava di offrire una novità in grado di risollevare le proprie sorti, ma svelava un progetto di ben più ampio respiro: quello di catturare definitivamente allo spettacolo cinematografico le masse della piccola middle-class americana che volevano avere accesso alla cultura delle classi alte e partecipare al grande mito americano dell'ascesa sociale. Ecco dunque che la proiezione del 1926 si presentò con tutte le caratteristiche della serata straordinaria, celebrazione non solo della possibilità delle immagini di parlare ma anche dell'eleganza e della maestosità dello spettacolo cinematografico. La proiezione fu accompagnata da un programma di otto film Vitaphone che univano alla finalità di esaltare la nuova tecnologia un'offerta di alto spessore artistico, offrendo la registrazione dell’Ouverture di Tannhäuser con la New York Philarmonic, l'esecuzione del violinista Misha Elman che suonava Humoresque di Dvořák, la cantante d'opera Marion Talley alle prese con l'aria Caro nome da Rigoletto, la registrazione di La sonata Kreutzer, o ancora la star dell'opera, Giovanni Martinelli, che cantava una selezione da I pagliacci. Il tutto era inoltre accompagnato dalla registrazione di un breve discorso inaugurale - parodiato con efficacia in Cantando sotto la pioggia (Singin' in the Rain, S. Donen, 1952) - con cui Will H. Hays parlava dallo schermo alla sala gremita acclamando la nuova tecnologia e le sue possibilità, per la verità valorizzando soprattutto la possibilità di registrare e fissare le esecuzioni musicali come del resto era nello spirito della serata e di questo primo programma. Il film di Crosland, a sua volta, offriva la riduzione del romanzo di Lord Byron con la presenza importante di John Barrymore, erede di una vera e propria dinastia di attori di teatro, forse l'unica in America, apprezzatissimo interprete di drammi shakespeariani sul palcoscenico e già stimato attore cinematografico, che con la sua virile e passionale lettura di Don Giovanni - un'interpretazione da 191 baci sullo schermo, come reclamizzavano alcune pubblicità - conquistò le platee di mezza America. Le vicende di Don Giovanni diviso tra numerose donne e l'amore poi sbocciato per Adriana Della Varnese (Mary Astor), donna innocente e pia che lo costringe a mutare i suoi modelli, si calavano dunque in un contesto di forte artisticità e spettacolarità; ma la serata fu anche un grosso successo commerciale, tanto da spingere la Western Electric a rescindere il contratto in esclusiva con la Warner, a fronte delle richieste di apparecchiature avanzate dagli altri Studios, e a concentrarsi sull'espansione del sistema di riproduzione nelle sale.

Dietro l'azzardo della casa di produzione sull'orlo del fallimento si celavano infatti i calcoli delle grandi compagnie elettriche, prima tra tutte l’aeg in Europa e la Western Electric negli usa, sempre più forti in questo periodo grazie all'esplosione del mercato della telefonia e della radiofonia, e alla spinta data in questa direzione dal credito concesso al sonoro cinematografico da alcuni gruppi bancari dell'Est. Il sistema Vitaphone, brevettato dalla Western Electric, univa la tecnologia dei vari settori della comunicazione moderna. Esso consentiva di registrare su disco simultaneamente alla ripresa visiva della scena con un perfetto sincronismo, e di accoppiare poi con altrettanta perfezione disco e proiettore in fase riproduzione, amplificando i suoni nella sala grazie alle risorse della tecnologia già sperimentata in ambito radiofonico. Il sistema, che contava su dischi di notevole capienza, in grado di sonorizzare un'intera bobina, e sulla possibilità non indifferente di adeguare in economia gli impianti di proiezione, dotando semplicemente il preesistente proiettore di un dispositivo di sincronizzazione con il fonografo, venne accolto dalla Warner che fu la prima a scommettere sulle possibilità d'impiego commerciale del sonoro cinematografico, battendo sul tempo le ricerche condotte parallelamente in molti altri paesi e comparti produttivi.

Il successo di Don Juan mostrava che l'investimento di mezzo milione di dollari cominciava a dare i suoi frutti e portò la Warner, con il successivo II cantante di jazz (The jazz Singer, A. Crosland, 1927), a un ricavato di tre milioni e mezzo di dollari. Ma soprattutto inaugurò la rivoluzione del sistema cinematografico americano.




Dal capitolo Il suono nel cinema contemporaneo pp. 118-122:

4-2. IL SUONO NEL CINEMA POSTMODERNO

Senza cadere in un superficiale determinismo, è chiaro che lo sviluppo tecnologico incalzante, che investe il sonoro cinematografico a partire dalla metà degli anni settanta, crea una profonda modificazione nei modi di consumo del suono cinematografico: un esito ricercato da tempo, visto che già negli anni cinquanta uno dei sistemi poteva pubblicizzare «You're in the show with Todd-AO». A differenza della visione, l'ascolto obbliga per sua stessa natura a una situazione avvolgente. Come ha ben espresso Michel Chion «Lo schermo definisce il quadro dell'immagine, mentre l'altoparlante, che equivale piuttosto al proiettore, non è il quadro del suono. Lo spazio del suono è tutta la sala cinematografica: il suono è come un gas, come un profumo»[6]. A ciò si aggiunge che se il cinema classico funziona sulle vibrazioni acustiche che, trasmesse a un amplificatore, fanno mettere in azione potenti altoparlanti collocati dietro o tutt'al più ai lati dello schermo, la sala moderna si popola di fonti sonore dislocate in tutto lo spazio a costruire un ambiente avvolgente in cui lo spettatore è invitato a immergersi. Più in generale, accogliendo in parte la lezione del moderno ma adattandola al giocoso e spesso disimpegnato atteggiamento del postmoderno, il cinema contemporaneo abbandona la prospettiva sonora e l'umanesimo di cui essa si faceva ideologica traduzione visiva e sonora; lascia la dimensione frontale dello spettacolo per gettare lo spettatore in una dimensione aprospettica, in cui come in una bolla di suoni egli galleggi immerso nel quadro dell'immagine e sottoposto a sfide e provocazioni percettive sempre più forti.

Il punto finale - ma certo non definitivo - è stato raggiunto con i canali surround; quella specie di "muro del suono" che essi costruiscono alle spalle dello spettatore, crea uno scivolamento di non poco conto dallo schermo alla platea, spostando il baricentro dell'azione dallo schermo, e per certi versi dall'immagine, alla sala cinematografica. A ciò si aggiunge l'enfasi accordata sempre più spesso ai low frequency effects[7], effetti a bassa frequenza, spesso esaltati dai subwoofer, che funzionano come vere e proprie vibrazioni di forte intensità che colpiscono dall'interno lo spettatore, ormai così abusate in tanti film d'azione ma con una tendenza a uscire da questi confini. L'ascolto stesso del resto si è profondamente modificato negli ultimi anni, a partire dal volume su cui mediamente è tarata la sala; per dare realmente corpo e intensità ai suoni dei sistemi di registrazione e di riproduzione sonora più all'avanguardia è necessario un ascolto a un livello molto più alto, pena la piattezza totale e spesso l'inintelligibilità del suono stesso. Lo spettatore si trova così letteralmente bombardato dai suoni, sia nella direzione che nel volume, e se alla visione in fondo è ancora facile sottrarsi, svincolarsi dalla bolla sonora in cui si è inghiottiti è praticamente impossibile.

4.2.1. Il mito del sound designer

La complessità e anche le ambiguità del suono postmoderno trovano immediata traduzione nella figura del sound designer, una sorta di progettista del suono, che programma uno stile sonoro per il film affiancando il regista già nella fase di preparazione. È una figura radicalmente innovativa rispetto alle tradizionali maestranze del reparto del suono affidate sul set al fonico (production recordist o sound mixer) e al microfonista (boom operator), in fase di postproduzione al montatore del suono (sound editor) e al tecnico di missaggio (recording mixer), affiancati da altri collaboratori come il rumorista (foley) o il responsabile degli effetti speciali (sound FX editor). Tale etichetta, coniata in occasione della realizzazione del film Apocalypse Now dal responsabile del suono Walter Murch, pioniere di questa nuova arte del suono, è diventata con gli anni un vero e proprio mito, sancendo un sodalizio speciale e fedele tra sound designer e regista che in poche altre mansioni e in rari casi limitati si è manifestato nella storia del cinema. Figure come appunto Walter Murch per Coppola, Ben Burtt per Lucas, Gary Rydstrom per Spielberg, Alan Splet per Lynch o Randy Thom per Zemekis si offrono come un vero e proprio alter ego del regista di cui condividono lo stile, estendendo il loro intervento spesso anche al montaggio, ma a cui in qualche modo sovrappongono una "firma", un imprinting sonoro ben preciso e fortemente individualizzato.

Al sound designer è chiesto non solo di supervisionare e controllare la resa sonora del film ma di creare un certo suono, di disegnare un ambiente sonoro per lo spettatore e anche, sempre più spesso, di concepire e realizzare uno specifico effetto attorno al quale ruota tutta l'opera. È Ben Burtt ad esempio che, a metà tra l'arte di foley (il rumore delle pistole laser ottenuto percuotendo dei cavi d'acciaio tesi e altri suoni grezzi presi dalla realtà e poi sapientemente rielaborati) e la più avanzata tecnologia (il pieno utilizzo delle risorse del Dolby Stereo), crea con i suoi suoni indelebili quel particolare futuro, polveroso, assolato, ma spazzato violentemente dalla velocità della tecnologia che caratterizza Guerre stellari. O ancora per A.I. Intelligenza artificiale (A.I.. Artificial Intelligence, 2001) Steven Spielberg si avvale come altre volte di Gary Rydstrom, direttore della creatività alla Skywalker Sound. Ebbene uno dei primi compiti che il sound designer riceve è quello di dare una voce all'orsacchiotto Teddy, un manufatto tecnologico, protettore e compagno inseparabile di David (Haley Joel Osment), il bambino robot creato e programmato dalla Cybertronics Manufacturing per amare, e dato "in prova" a una famiglia per sostituire affettivamente un figlio malato. La voce lenta e antica ben lontana dallo stereotipo del dolce orsacchiotto è il risultato di accordi tra regista e sound designer che portano alla ricerca di una voce d'attore particolare che viene poi opportunamente sintetizzata per farla sembrare uscire da un piccolo altoparlante. O ancora la Manhattan sommersa in cui il "ragazzo" finisce nel film è modellata anche attraverso l'invenzione di sonorità particolari che secondo Rydstrom dovevano ricreare i suoni tonali del vento e dell'acqua contro le finestre dei grattacieli, e riprodurre acusticamente il lento movimento della città nell'acqua.

Apocalypse Now è indubbiamente emblema della postmodernità del suono cinematografico oggi, a partire dall'istituzione di questa figura, ma non solo. Basti pensare che come si è visto il director's cut ripristinato con Redux non si limita più, come da tradizione, all'intervento sulla narrazione iconica o anche sonora - come in Blade runner (Id., R. Scott, 1982) con l'eliminazione nell'edizione del 1993 della voce narrante precedentemente imposta dalla produzione -, ma ha a che fare con la stessa materia sonora. Il Dolby Stereo lascia il passo, con la consulenza sempre dello stesso Murch, al dts, e l'aggiunta di tracce audio e di effetto surround non è mera disquisizione tecnica ma modifica di fatto, così come gli inserti narrativi, la percezione del film. Così ad esempio i rumori delle pale degli elicotteri, simbolo di questo film, che nella versione Dolby colpivano per la prima volta gli spettatori per la loro capacità spazializzatrice, qui letteralmente sembrano vagare nella sala e acquistano una nuova direzionalità; spostandosi da destra a sinistra e dal centro al fondo, non lasciano inalterata la visione e non riescono ad aderire più all'immagine. Anzi essi divengono correlato della sensazione di disordine della guerra, in cui non è più chiaro letteralmente in quale direzione si vada, in che forma si proceda: un effetto accentuato considerevolmente dal gioco di rimbalzo del suono tra gli altoparlanti e dal forte effetto di sovrastamento che colpisce lo spettatore.

Il mito del sound designer è la finale e tanto attesa rivalsa del suono, anche quello apparentemente più insignificante, come un rumore, un ronzio o un soffio, e della sua piena legittimità accanto all'immagine; è la possibilità di trasformare un anonimo ambiente sonoro in un paesaggio sonoro firmato, un'esperienza estetica e biologica modellata non solo da immagini ma anche da suoni. Il pensiero corre ai primi celebri venti minuti di Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan, 1998) in cui la violenza e l'eccidio dello sbarco del D-Day della seconda guerra mondiale è resa non solo dal rosso del sangue, i dettagli e i primi piani, i rallentati, le angolazioni e il montaggio serrato delle immagini di Spielberg ma anche dai sibili, i fischi delle pallottole sottacqua, le parole attutite, gli scoppi ora presenti ora attutiti nell'udito del capitano Miller (Tom Hanks) danneggiato dalle esplosioni che caratterizzano il suono premio Oscar di Gary Rydstrom.

 
 

[6] Dichiarazione riportata nell’intervista Il rumore nel cinema: una domanda senza risposta, a cura di Enrico Terrone, in Speciale Focus on Sound 1, un «Segnocinema», a cura di S. Bassetti e L. Bandirali, XXIV, 130, novembre-dicembre 2004, pp. 24-25.

[7] È il caso del cosiddetto Baby Boom (1977), un Dolby 70 mm in cui due delle sei piste sono dedicate a dati in bassa frequenza inferiori a 250 Hz, ma ben presto rimpiazzato dalla esistenza del canale dedicato, il subwoofer, nei formati digitali.


 


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