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Giulia Tellini

Parte quarta - Medea da Adelaide Ristori a Giacinta Pezzana

Data di pubblicazione su web 13/10/2005
Giacinta Pezzana nella Medea di Legouvé
Parte quarta
4. Medea: ultimo atto


Lasciato Angelo Diligenti, la Pezzana incontra Pasquale Distefano e nel 1895, dopo sette anni di lontananza[1] (che però le sembrano nove o dieci[2]), torna al teatro specializzandosi nei ruoli di madre: recita il suo Amori! - «modesto saggio, un po’ antiquato e romantico, di vita passionale siciliana»[3] - e lo Stabat Mater di Camillo Antona Traversi definito dal critico del «Fortunio», Edgardo Fazio, un «dramma intimo, essenzialmente intimo; e, di più, dramma interiore»[4]. Se la Medea della Pezzana trentenne è straziata, furiosa, fiera e violenta e la Medea della Pezzana quarantenne è «sitibonda di sangue», potente e vera, quella della Pezzana cinquantenne è profondamente umana e inarrivabile: l’attrice porta in scena accanto all’amara tristezza di uno sguardo a tratti disincantato e incupito la fiducia che attraverso la comprensione profonda di quella tristezza risieda una possibilità di riscatto[5]. Scrive alla Saffi nel 1898: «la tristezza è la gentilezza del dolore, ed in fondo ad essa vi si può ripescare del coraggio![6]».

Sulla «Gazzetta di Torino» del 26-27 aprile 1895 si legge:

Nella Medea di Legouvé – che udimmo anni fa dalla chiarissima Adelaide Tessero, la quale ne diede un’interpretazione superiore – Giacinta Pezzana ha toccato ieri sera le maggiori vette della grand’arte. Queste si possono chiamare vigorosissime, perfette creazioni! Il pubblico, vinto, soggiogato da tanta potenza, acclamò fragorosamente al proscenio l’illustre attrice, da capo a fondo dello spettacolo, e, calata la tela, le fece un’entusiastica ovazione[7].   

A cinquantaquattro anni, la Pezzana, liberatasi dall’assillante confronto con la Ristori (anche se non ancora da quello con la coetanea Adelaide Tessero), è ormai una «illustre attrice».

Domenico Lanza, su «La Stampa» del 26-27 aprile 1895, parla della Medea della Pezzana e si concede un preambolo aneddotico:

Ernesto Legouvé scrivendo la sua Medea non aveva certo pensato che essa avrebbe avuta la sua prima interprete in una attrice italiana, e che questa gli avrebbe procurato uno dei più clamorosi successi della sua carriera di autore[8].

Soccombendo al vizio diffuso, raggiunge poi la Pezzana passando attraverso la Ristori:

Dopo, poche attrici ebbero l’ardimento di affrontare la tragica interpretazione di Medea, e quelle che vi si posero attorno non riuscirono a ripetere i trionfi della Ristori. Giacinta Pezzana sola potè riportare vittoria, vittoria tanto più significativa in quanto per l’intima natura sua di attrice, essa ebbe sempre maggior tendenza al dramma e alla commedia moderni che non alla tragedia classica. Ed io questo ricordo, non per stabilire un confronto tra lei e la prima interprete della Medea, ma perché penso che l’autore stesso, come della Ristori, sarebbe di lei stato ugualmente orgoglioso[9].

Lanza – nello svelare qual è, secondo lui, la sua «intima natura» di attrice –  sostiene che la Pezzana tende più «al dramma e alla commedia moderni che non alla tragedia classica». Benchè neghi – con apprezzabile buon gusto - di voler fare paragoni con la Ristori, immagina che il neoclassico e conservatore Legouvé (di cui sopravvaluta l’elasticità nel saper rinnovare i propri gusti) sarebbe stato orgoglioso della vigorosa naturalezza dell’attrice. 

Nonostante i molti anni trascorsi, la Pezzana riebbe ieri sera al teatro Gerbino, anche in questa nuova riproduzione della Medea, uno dei suoi più felici momenti rappresentativi, una delle sue più poderose espressioni artistiche. Ben possiamo pensare che la recitazione tragica sia lontana dal nostro moderno sentimento, […] ma non possiamo però non esser vinti dal fascino dell’arte mirabile di questa donna che nella voce or implorante, or terribile, ora soave, ora truce, nel gesto misurato, nell’espressione profonda della passione, ci ha presentato una Medea quale nella fantasia dei grandi tragici greci e nella commozione di questi antichi spettatori doveva sorgere così drammaticamente e profondamente umana. Durante i tre atti della tragedia, Giacinta Pezzana fu interrotta spesso da applausi, e alla fine una grande, interminabile ovazione ne salutò la magistrale interpretazione. E ciò non è poco, dato il nostro pubblico oramai così lontano e sviato da queste antiche forme rappresentative[10].

Su «La Riforma» del 31 marzo 1896 si legge:

Dopo molti anni (almeno per quel che ricordiamo noi) ieri sera Giacinta Pezzana ci ha regalato l’interpretazione della mastodontica tragedia del Legouvé Medea. L’imponenza del palcoscenico molto si addiceva alla maestosità del soggetto; per cui questa tragedia meglio che le altre, recitata fin qui dalla compagnia Pietriboni, fu apprezzata dal pubblico. In quanto alla Pezzana diciamo una cosa sola: che essa fu artisticamente e plasticamente magnifica; statua estetica del dolore e della gelosia, non mai più bella figura di attrice apparve agli occhi nostri[11].

L’attrice, che torna a essere «statua estetica del dolore e della gelosia», è talmente grande da lasciare senza parole il giornalista. Per descrivere la Medea della Pezzana cinquantacinquenne, si possono parafrasare le parole di Morando Morandini a proposito della Thérèse Raquin (1953) di Marcel Carné: la Pezzana tradisce la tragedia di Legouvé (e quella archetipica di Euripide), riducendola a un meccanismo di cronaca nera, seppur dominato dall’onnipotente presenza del destino. Sul piano dello stile interpretativo, però, la sua maestria raggiunge una spoglia perfezione[12].

Su «Il Mattino» del 26-27 aprile 1896, il trentenne Roberto Bracco scrive:

[…] che cosa è – che cosa fu iersera – la recitazione di Giacinta Pezzana nella tragedia di Legouvé discreditata dalla popolarità? La parola, la frase, il periodo, purtroppo arrotondati dalla verseggiatura, non erano gonfiati dalla voce, non erano enfaticamente stiracchiati dall’accento[13].

La recitazione tragica non è più “declamazione”.

L’esteriorità, l’atteggiamento, la plastica del personaggio non assumevano solennità scultoria. Nondimeno Medea appariva nelle grandi proporzioni prospettiche richieste da tutti i personaggi che attraverso i secoli – attraverso la storia o la leggenda – devono, per ragion d’arte, mettercisi dinanzi agli occhi. Medea, sposa tradita, non era la principessa Giorgio; - Medea, innamorata, non era Mergherita Gautier; - Medea, madre, non era la signora Raquin; - Medea, vendicatrice, non era Fedora; - Medea, infanticida, non era neppure la Medea rifatta per i pubblici, per le discussioni e per la filosofia del secolo decimonono da Ernesto Legouvé, ma, in Giacinta Pezzana, nella purificata nobiltà estetica, era quella di Ovidio, condannata da una fatalità ineluttabile ad annientare la bontà originaria e la natura eletta e a perdersi nei delitti più atroci: «Video meliora, proboque, - Deteriora sequor». Ma la grandezza del personaggio, le proporzioni prospettiche, la nobiltà estetica non falsavano l’essenza umana[14].

E la Pezzana finalmente non assume più solennità scultorea. In queste poche righe Roberto Bracco, ex reporter quasi illetterato del «Corriere di Milano» di cui il direttore Federico Verdinois aveva intuito il valore, centra il cuore del problema.

Nel 1893 la Pezzana aveva scritto il romanzo Maruzza e delineato, piuttosto approssimativamente, un personaggio femminile il cui «titolo di madre era profanazione ed obbrobrio per la donna fatta strumento involontario dell’altrui vizio»[15]. Irresistibilmente attratta dalle storie di ragazze madri abbandonate da seduttori senza scrupoli (è il caso sia di Maruzza che di Palmira, le due protagoniste del romanzo), la Pezzana, accortasi di non riuscire a comunicare la loro tragedia attraverso la scrittura, torna al teatro dove, ad aspettarla, trova Medea.   

Nella dizione limpida c’era la provenienza diretta e semplice dell’anima. La desolazione della donna che ama disamata, la cupidigia vendicativa – (sangue! sangue! – ella diceva, senza gridare, cupidamente, sommessamente, terribilmente) - , e lo strazio materno generato dallo allontanamento dei figliuoletti e l’avvicendarsi della speranza e dello sconforto profondo, tutto, tutto aveva la sua espressione diretta e immediata nella voce e nel gesto e negli occhi di Giacinta Pezzana. Il problema della tragica recitazione moderna ella lo risolveva iersera come lo aveva risoluto venti anni prima. E se un precoce fonografo parigino avesse raccolte e conservate le recitazioni della Rachel e della Ristori, noi oggi, udendo le tre Medee, potremmo probabilmente applaudirle con pari entusiasmo dichiarandoci soddisfatti del problema tre volte risoluto[16].

La Pezzana non solo non declama ma dice senza gridare e si esprime attraverso la voce, i gesti e lo sguardo che – come si legge su «Il secolo» del 1881 – è ora amorevole, ora terribile. Solo alla voce e ai gesti si limitavano i mezzi espressivi della Ristori che era tutta concentrata – al contrario della giovane “allieva” – sulla forma del contenitore e non sulla sostanza del contenuto. E, a parte il fatto che Rachel non ha mai interpretato Medea in vita sua, il disinvolto Bracco, non intimorito dai seguaci dell’ipse dixit, risolve - in breve - il secolare problema intorno alla recitazione tragica e dimostra di aver profondamente capito e amato l’arte della Pezzana.

Domenico Lanza, nel 1898, fonda il Teatro d’Arte di Torino che ha sede nel Politeama Gerbino ed è il primo in Italia a dare spettacoli dove tutti gli elementi costitutivi (recitazione, scenografia, costumi) abbiano carattere unitario. Della compagnia, che dura un anno, fa parte anche Giacinta Pezzana. Giuseppe Cauda sulla «Gazzetta di Torino» del 23-24 maggio 1898 scrive a proposito della Medea messa in scena dalla Compagnia del Teatro d’Arte:

Medea chiamò ieri sera al Gerbino un pubblico numerosissimo e distinto. […] Quell’illustre artista ch’è Giacinta Pezzana, nella tragedia del Légouvé, ha colpito e commosso potentemente l’uditorio, entusiasmandolo in molti punti. Nelle scene principali e alla fine d’ogni atto la Pezzana ricevette vere e grandi ovazioni. Dopo ciò, inutile aggiungere che l’illustre attrice, dotata d’una fibra eccezionale, è stata una protagonista meravigliosamente vera e vigorosa negli accenti, nelle espressioni del viso, nei gesti, negli atteggiamenti; infine, una Medea realmente superiore, grande, inarrivabile. Di fronte a siffatte superbe creazioni c’è da riconciliarsi colla tragedia[17].

La Pezzana è una protagonista vera e vigorosa negli accenti, nelle espressioni del viso, nei gesti, negli atteggiamenti. L’attrice aggredisce le scene madri previste dal testo con violenta passionalità e affronta i lunghi momenti di tensione che precedono la deflagrazione della tragedia con una inquietante meticolosità naturalista in virtù della quale ogni più insignificante particolare mimico o gestuale acquista efficacia narrativa.

L’ultimo articolo in cui si accenna a una interpretazione di Medea da parte della Pezzana appare su «La Capitale» del 31 gennaio 1907:

La commemorazione di Adelaide Ristori, fatta ier sera all’Argentina, riuscì una grande manifestazione d’affetto per l’illustre artista, […]. Si ebbe prima, eseguita mirabilmente dall’orchestra comunale, la sinfonia della Medea di Cherubini. Si rappresentò poscia il primo atto della Medea di Legouvé, tradotta dal Montanelli. Giacinta Pezzana commosse con la sua arte insuperabile il pubblico, che la chiamò molte volte al proscenio fra applausi interminabili e salvò così l’onore delle armi, ché gli altri attori, dimostrarono di non saper recitare i versi della tragedia[18].

L’ironia della sorte vuole che l’ultima Medea della Pezzana serva a commemorare la Ristori,  vale a dire l’anti-Pezzana. La cavouriana Ristori, morta l’8 ottobre 1906, viene celebrata da un’attrice anticlericale e repubblicana che nel 1887 aveva scritto: «tutto ciò che è ufficiale è profanazione! Come tutto ciò che è legale è iniquo!»[19]. Nella serata in onore della Ristori, la Pezzana, per “renderle omaggio”, ne interpreta la tragedia prediletta e viene anche chiamata molte volte al proscenio fra applausi interminabili: il geniale senso dell’umorismo dell’attrice non risparmia alla rivale - che si dubita,  nella notte del 30 gennaio 1907, sia riuscita a riposare in pace – né il danno, né la beffa. 

 



[1] Dal 1887 al 1895, vive ritirata, insieme a Pasquale, in una casetta ad Aci Castello, dove è ambientato il racconto gotico del Verga pre-verista Le storie del castello di Trezza. In questi anni si dedica al breve romanzo para-feuilleton Maruzza (Milano, Sonzogno, 1893). Scrive alla Saffi nel 1888: «credi che come artista ho affrontato tanta di quella indifferenza sprezzante dal pubblico in generale, che l’arte era diventata per me una vera tortura! […] Ti assicuro che ogni recita era per me tre ore di martirio» e ancora «Reciterò ancora nella vita?… forse… chi lo sa… per il pane… ma per ora, lo dico a te, sorella della mia anima, non posso staccarmi da un affetto che è la sola ragione per cui vivo» (G. Pezzana a G. Saffi, Catania, 9 febbraio 1888 e G. Pezzana a G. Saffi, Catania, 5 agosto 1888, in L. Mariani, L’attrice del cuore, cit., pp. 178 e 186-187). 
[2] «Una vita di troglodita deliziosa. Per nove o dieci anni non misi piede in un teatro» (G. Pezzana a E. Grasso, Roma, 10 novembre 1905, in ivi, p. 388).
[3] Anonimo, Notizie teatrali ed artistiche, in «Gazzetta del popolo», 1-2 maggio 1895, in A. Petrini, Attori e scena nel Teatro italiano di fine Ottocento, cit., p. 157.
[4] E. Fazio, «Mercadante» - Stabat Mater, in «Fortunio», 7 maggio 1896, in ivi, p. 160.
[5] Cfr. ivi, p. 161.
[6] G. Pezzana a G. Saffi, Torino, 4 marzo 1898, in ibidem.
[7] Teatro «Gerbino», in «Gazzetta di Torino», 26-27 aprile 1895.
[8] d. l. [D. Lanza], Giacinta Pezzana nella Medea di E. Legouvé, in «La Stampa», 26-27 aprile 1895.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] Anonimo, Teatri, Costanzi, in «La Riforma», Roma, 31 marzo 1896.
[12] Cfr. M. Morandini, Teresa Raquin, in Dizionario dei film 2000, Bologna Zanichelli, 1999, p. 1327.
[13] Baby [R. Bracco], La serata del “Mattino”, Al R. Mercadante: Medea, in «Il Mattino», Napoli, 26-27 aprile 1896.
[14] Ibidem.
[15] G. Saffi, Introduzione a Maruzza, in G. Pezzana, Maruzza, Milano, Sonzogno, 1893, p. 6. Maruzza è un artificioso esperimento letterario di impianto pesantemente (e torbidamente) tardo-verista scolpito con l’accetta su una materia improbabile e di difficile manipolazione. Si tratta della storia, ambientata in un imprecisato paesino della Sicilia, della provocante Maruzza che, sposata con un timido marinaio e segretamente amata da un pescatore di polipi gobbo, viene sedotta da un «vecchio e vizioso vedovo». Il “figlio della colpa”, dopo aver ucciso il padre, si imbarca  come mozzo su un transatlantico e muore nel tentativo di salvare il nostromo. Alla vicenda principale si intreccia quella di una ricca ereditiera sedotta sempre dallo stesso «vecchio e vizioso vedovo» e poi condotta alla follia dagli assassini del figlio appena nato (vale a dire da un prete corrotto e dalla sua amante, una monaca).     
[16] Baby, La serata del “Mattino”, Al R. Mercadante: Medea, cit.
[17] G.C., «Gazzetta di Torino», Gazzettino dei Teatri, «Gerbino», 23-24 maggio 1898.
[18] Anonimo, Teatri ed arte, La Commemorazione di Adelaide Ristori, in «La Capitale», 31 gennaio 1907.
[19] G. Pezzana a A. Ravizza, Padova, 3 novembre 1884, in L. Mariani, L’attrice del cuore, p. 119.




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multimedia Foto di G. P. spedita come cartolina alla Aleramo (1916)




 


Medea da
Adelaide Ristori
a Giacinta Pezzana:

Parte
prima


Parte
seconda


Parte
terza



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(tranne quella della Ristori)
sono tratte dal
libro di Laura Mariani
L'attrice del cuore
 
 
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