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Italo Moscati

Produzione. Cinema, tv e mezzogiorno

Data di pubblicazione su web 06/09/2004
Totò in Un Turco napoletano

Da dove cominciare per raccontare in sintesi la lunga, intensa avventura del cinema e della tv sul Mezzogiorno? Non trovo di meglio che un film del 1953. Il titolo può sorprendere, come pure possono suscitare sorprese i nomi degli attori, quello del regista e l'origine della storia presentata dal film. Ma, per paradosso, ripeto, non trovo di meglio. Si tratta di Un turco napoletano, tratto da una commedia del 1888 scritta e messa in scena da Eduardo Scarpetta, il padre dei tre De Filippo, Titina, Eduardo e Peppino. Il protagonista si chiama Felice Sciosciammocca, il cui nome viene dalle farse del raffinatissimo Antonio Petito, vissuto fino al 1876 e proveniente da una famiglia d'arte il cui passato sprofondava nel '700. Ad interpretare Felice è Totò, che ha accanto a sé il giovane Aldo Giuffrè, il baffuto e maturo Carlo Campanini, l'avvenente Isa Barzizza, la quasi bambina Valeria Moriconi, Franca Faldini, ovvero la sposa di Totò; in più, come contorno, un fantastico gruppo di caratteristi come Ugo D'Alessio, Mario Castellani e Enzo Turco.

Regista è Mario Mattoli, il mago della commedia leggera anni Trenta-Quaranta-Cinquanta, lo scopritore di Vittorio De Sica e di decine di altri interpreti preferibilmente venuti dal Sud, lui, il mago, che era poi un ex- avvocato marchigiano emigrato a Milano e, come tale, buon osservatore del Sud e delle sue pietanze d'esportazione, comiche, satiriche, sentimentali. Tanto osservatore ed estimatore da decidere di scendere a Roma poco prima dell'apertura di Cinecittà per fare del cinema, e che cinema. I suoi film spesso garantiscono una scoperta di precisione e di fantasia. Mattoli: un cosiddetto artigiano capace di dare dei punti ai registi-autori che sono venuti dopo e, forse, hanno rubato velocità, stile, entusiasmo quando riuscivano a dimostrare di essersi nutriti bene proprio grazie alla lezione di Mattoli. Ma perché Un turco napoletano invece di un altro delle sue innumerevoli pellicole dell'avvocato-regista? La risposta è nello stesso tempo formale e ideologica. Il film di elegante fattura, che fin dall'inizio annuncia la sua discendenza teatrale con l'aprirsi di un sipario davanti la macchina da presa, fa il punto sulla situazione di un Sud fortunato, baciato dal sole, poco distante dal Vesuvio.

Tutto è fermo. Ricchi e poveri stanno reciprocamente al loro posto, mentre in mezzo fra loro naviga un'umanità che cerca di prendere ai primi con l'astuzia per non farsi catalogare fra i secondi. Questa umanità è fecondata da un discreto cinismo che non disdegna la criminalità. E' una criminalità autonoma rispetto alla camorra che preferisce fare i conti e alleanze con i ricchi, per cui i piccoli criminali senza camorra (o almeno non schierati apertamente con essa) sono liberi di muoversi e di agire. Si occupano soltanto di far girare a loro favore le pale del mulino della sopravvivenza comoda e del rapporto con le donne, donne che essi desiderano ardentemente e che devono rispettare tradizioni di subalternità.
Se tutto è fermo sul piano sociale, qualcosa si muove sul piano delle manovre sull'accaparramento delle donne. Nel film di Mattoli, i facoltosi commercianti di Sorrento restano vedovi regolarmente e sposano donne giovani. Muoiono però di gelosia e tutti, specie i parenti giovani, un po' guappi e un po' parassiti, sono una minaccia. Per ovviare , gli sfortunati commercianti cercano aiuti nel potere, insomma si rifanno alla politica. Uno di essi, impersonato da uno straordinario Campanini, interpella un onorevole di grande esperienza in campo femminile per farsi consigliare l'antidoto al tarlo della gelosia che scava dentro.

Ed ecco che scatta la trappola dei piccoli criminali, portatori di una rivolta basata sulla conquista della tavola e delle gonne: Totò si traveste da eunuco, con tanto di fez in testa su cui spicca una forbice aperta. Seduce il commerciante che lo paga per custodire le sue donne (moglie e figlia di primo letto), e seduce soprattutto le donne a cominciare dalla serve che, come ci ha insegnato Totò, serve, eccome. La lotta garbata in apparenza, e durissima nella sostanza, tra il potente, o meglio i potenti, e l'eunuco spalleggiato da un suo compare, è schematica. La vittoria sembra delinearsi. La casa e le donne sono espugnate, Totò domina la situazione. Ma si tratta di una vittoria effimera che si spegne nella scoperta dell'equivoco e nello scioglimento finale, secondo la tradizione teatralcinematografica. Ciò non toglie che qualcosa di definitivo resti. Riguarda ciò che è accaduto nella scena sulla spiaggia, ai bagni. L'eunuco Totò ottiene, in virtù della sua inoffensività, di essere ammesso nel settore delle donne. A richiesta, racconta alle donne dell'harem (che non ha mai visto, naturalmente), giura di avere inventato la danza del ventre dopo una indigestione, comincia a spogliare questa e quella, in un tripudio di eccitazione erotica. Insomma, il gioco di un sesso finalmente portato alla luce del sole, sottratto ai vestiti-scafandro, scoperto, imposto ai potenti ricchi e gelosi, suggella la parte della vittoria più rilevante di Totò, piccolo criminale da strapazzo: quella di cambiare almeno un poco le abitudini vincolanti di quella terra del Sud, liberando dalle palandrane i corpi di giovani, fiorenti donne, corpi imprigionati dalla gelosia e dalle stoffe costose ma carceriere come il burka.

Ad eccezione di questo soffio di novità, la farsa si conclude con la riproposizione della "bella giornata". Ovvero, il Sud che avanza come una lumaca ma forse sta fermo, sotto il sole e i cieli azzurri. Il Sud che si crogiola nella "bella giornata" e riproduce i suoi schemi sociali davanti allo spettacolo del mare e della vita che scorre tranquilla, senza troppe scosse, appena segnata dai refoli del vento e dei turbamenti sessuali. Ma che cos'è la "bella giornata"? Questo spazio fatto di luce e di odori, di giochi e di incantamenti, in cui s'iscrive gran parte della produzione del cinema e della tv dedicata al Mezzogiorno? Per definirla, è indispensabile ricorrere ad una citazione autorevole.

Ecco che si presenta un'immagine, ma non è quella di un luogo, è un'immagine mentale, radiosa, sorta in un'età in cui nemmeno la memoria era nata. E' l'immagine della 'bella giornata'…una visibile Armonia tra Natura e Storia, Natura e Cultura, Genio del Luogo e Spirito del Mondo. Era un'Armonia solare e mediterranea, non lontana da quella che conobbero i greci, sì, qualcosa di simile, forse…

Sono, queste della citazione, le parole di Raffaele La Capria, scrittore nato a Napoli, contenute nel suo libro L'armonia perduta, pubblicato nel 1999, un racconto sulla sua città e sul Sud. Un Sud che diventa l'estensione di un sentimento che si fa ragione e razionalità negli anni inclinati verso un passato sentito e rivissuto come una dimensione struggente e imperdibile. Sono parole che hanno valore non soltanto per Napoli o per la Costa Amalfitana, ma anche per la Sicilia, la Calabria, la Puglia, la Basilicata, insomma per tutto il Sud. Il Sud terra della "bella giornata", ovvero un' "immagine mentale, radiosa, sorta in un'età in cui nemmeno la memoria era nata", scrive La Capria. La "bella giornata" è molto simile come metafora a quella che propone Leonardo Sciascia parlando della Sicilia: "Un 'paradiso'", scriveva, "luogo della naturalità mediterranea, della solarità degli istinti, della socialità". Ma anche, ecco il punto a cui arrivare, "'inferno', luogo della povertà, dell'arretratezza, della criminalità, della mafia". Probabilmente La Capria sarebbe d'accordo sia sul "paradiso" che sull' "inferno": il suo Sud non appare storicamente molto diverso dal Sud di Sciascia anche se invece della mafia si potrebbe parlare di camorra.

Ma fermiamoci alla "bella giornata" intesa come "paradiso", o come maschera paradisiaca sovrapposta a una realtà infernale. A mio avviso, non esiste un altro modo più illuminante per introdurre una riflessione sugli anni dal 1945 ai nostri giorni dedicata al Sud, una riflessione che ho intitolato Produzione Sud per sottolineare che è proprio il Sud, con i suoi paradisi e e suoi inferni, a fare da sponda ad un'analisi sui film e sulle trasmissioni tv che lo hanno scelto come tema, come realtà da rappresentare, come "caso" su cui indagare. Per rafforzare questo mio approccio letterario, e ricordare un importante scrittore che è stato anche un grande uomo di cinema, ai nomi di Sciascia e di La Capria, vorrei aggiungere quello di Pier Paolo Pasolini. Il Pasolini che, si sa, asseriva di vedere più lucciole nel nostro Paese in giorni non troppo lontani a quelli in cui viviamo. Quelle lucciole che una volta illuminavano le notti della "bella giornata" e del "paradiso della naturalità mediterranea, della solarità degli istinti, della socialità". Le lucciole che ci portano alla letteratura che si è spesso alleata con il cinema per invocare nostalgia e rimpianto, persino disperazione, verso il Sud, il Sud com'era.

Già, com'era il Sud? Dovendo dedicarmi al cinema (e alla tv) dal dopoguerra in poi, sono andato a controllare sui libri di storia quali titoli e quali autori presentino segnali di un interesse specifico verso il tema del nostro convegno. Mentre sfogliavo le carte, all'improvviso, sono stato preso da una curiosità irresistibile e cioè da un forte desiderio di guardare indietro per avere una sponda più ampia da cui prendere le mosse. Una sponda concreta. Per restare al cinema e alla tv, senza filtrare la questione del Mezzogiorno attraverso la rilettura dei testi sacri del Meridionalismo o rifarmi alle origini di polemiche sull'argomento che continuano fino a mescolare la realtà del Sud con quella della Globalizzazione. Volevo, ripeto, avere una sponda concreta. Per la tv, la cosa non era, non è ancora possibile. Il passato televisivo in Italia è relativamente vicino. La tv, intesa come Rai, celebra nel 2004 i cinquant'anni trascorsi dalle sue prime trasmissioni, ha una storia che comincia un mezzo secolo fa, un periodo lungo ma non in grado di far conoscere cosa era accaduto prima, di stabilire un rapporto diretto fra il Meridionalismo e le narrazioni ad esso dedicate.

Dunque, dovevo cercare di soddisfare la mia curiosità scegliendo innanzitutto il cinema, per poi fare un breve riferimento alle origini della Rai e alla storia dei suoi primissimi anni. La mia escursione nel cinema del passato – tralasciando il periodo del muto e i primi anni del sonoro - ha spaziato tra il 1930 (sette anni dopo verrà inaugurata Cinecittà) fino al 1944, quando Cinecittà chiude a Roma e tenta di trasformarsi in Cinevillaggio a Venezia nel periodo della Repubblica di Salò. Ho fatto una scoperta. In tutti questi anni, non c'è un film, un solo film, che sia stato dedicato al Sud, secondo i criteri a cui ci siamo abituati dal dopoguerra in poi, e cioè con il Sud protagonista assoluto, offerto come argomento centrale, in quanto "paradiso" o "inferno" di una sciupata "bella giornata". Non c'è il Sud nemmeno come sfondo, come paesaggio, se non per superficiali storie a Pompei e Sorrento, fra ruderi memorabili e donne cieche dalla sorte pietosa. Il vuoto è assoluto. Anche gli attori comici, da sempre presenti nello spettacolo italiano, ingolfati nelle cadenze dialettali e nelle gaffes linguistiche, sono dentro questa assenza: recitano in un italiano ripulito con la candeggina e vivono in appartamenti deliziosi sulle rive del mare o in salubri paesi di campagna ai piedi dell'Etna. Persino i tre De Filippo sono tirati a lucido nel parlare e nei gesti e sono protagonisti di piccole storie, di commedie sbrigative e leziose. Persino Antonio De Curtis in arte Totò, protagonista di un film come Animali pazzi, uno dei suoi primi, compare levigato e stirato, molto diverso dal Totò che in compagnia di Peppino si presenta alla stazione di Milano negli anni Cinquanta nel film del 1956, regista Camillo Mastrocinque, Totò, Peppino e la Malafemmena.

Un film memorabile. Una farsa illuminante sugli eterni emigranti che dal Sud si recano a Milano, con due straordinarie scene. Quella in cui Totò e Peppino arrivano alla stazione incappottati, col colbacco, carichi di roba. La "bella giornata" del Sud è inghiottita nella nebbia, nel cielo livido e negli odori acri della metropoli. L'altra, in cui i due grandi attori cercano la lingua giusta per intendersi con un vigile urbano in Piazza Duomo a Milano. Appaiono così efficaci ed emblematiche queste due scene che anni dopo sono finite dritte nella pubblicità tv. Ma sono altrettanto efficaci e tipiche nel senso di marcare la differenza rispetto al cinema del periodo 1930- 1944, dove la "bella giornata", una speciale "bella giornata" è durata vent'anni e fra le luci dell'epoca quella più smagliante, rassicurante, elegante, e spesso falsa, era composta delle tante belle giornate dei cinegiornali dell'Istituto Luce. Quando tramonta il Ventennio e l'Istituto Luce va in letargo per qualche anno, arrivia il dopoguerra e il Sud nasce, o rinasce, al cinema con Luchino Visconti ne La terra trema, vicenda di pescatori siciliani che parlano in una loro incomprensibile lingua e che lottano per liberarsi dallo sfruttamento dei grossisti del pesce. Il sole è assimilato nel nero del bianco e nero. Il cielo è turgido di nuvole minacciose anche quando è sereno. I volti degli uomini sono abbronzati dalla ripetitività della fatica e dal tallone di ferro del destino ineluttabile.

La terra trema è del 1948, . Poco prima Roberto Rossellini aveva realizzato Paisà, un film-giro d'Italia che comincia sempre dalla Sicilia per percorrere il Paese negli anni della Liberazione. Sugli schermi appaiono le immagini che i riflettori della vecchia Cinecittà e del Luce cancellavano o sfocavano fino a estenuarle. La corsa al Sud, a poco a poco, accelera. Pietro Germi gira In nome della legge nel '49, poi l'anno dopo Il cammino della speranza, quindi nel '62 Divorzio all'italiana e nel '64 Sedotta e abbandonata, tutte storie di siciliani: emigranti, morti di fame, braccianti, magistrati che cercano di arginare lo strapotere dei latifondisti; ma anche giovani seduttori, ragazze che avvampano di desiderio. Sono film che conosciamo bene. Vivono lungo gli anni Cinquanta e Sessanta, due decenni di sguardi verso le terre che continuano a tremare. Francesco Rosi, un aiuto-regista di Visconti, si inserisce nella tendenza con La sfida, I magliari, Le mani sulla città, Salvatore Giuliano. Anche qui emigranti, speculatori, banditi, e il panorama va dalla Sicilia alla Campania. La camorra prende il posto della mafia. Sotto il sole del Mezzogiorno crepitano le armi della criminalità. La denuncia politica del regista napoletano, allievo di Visconti, sconfina nelle immagini del cinema di Hollywood che ha succhiato alla malavita dai molti volti, compresi quelli dei mafiosi e camorristi emigrati, risorse di idee e spettacolarità per grandi, affascinanti film in grado di coesistere, e dividersi il mercato, con i musical e le opere benintenzionate, persino edificanti, di Frank Capra, americano figlio della Sicilia.

Si potrebbe continuare a lungo ad elencare e ricordare che Visconti torna al Sud raccontando dei contadini lucani che si trasferiscono a Milano in Rocco e i suoi fratelli (1960) e poi tre anni dopo scendendo in Sicilia con Il Gattopardo, per farci scoprire che "tutto deve cambiare perché nulla cambi", secondo la formula messa in bocca ad uno dei suoi personaggi dallo scrittore del romanzo Tomasi di Lampedusa. Vale la pena di ricordare ancora il lavoro dei fratelli Taviani con Padre padrone (1977), che porta in scena la Sardegna, e successivamente Kaos (1984), con la Sicilia di Pirandello. I due cineasti si accreditano come esploratori dell'umanità, da un lato praticano la denuncia, dall'altra cedono alle sottili eppure forti suggestioni della letteratura. Gli anni Sessanta sono densi di film che strappano ancora più violentemente il sipario della "bella giornata". Il bell'Antonio di Mauro Bolognini ci riporta alla Sicilia di Vitaliano Brancati, terra di virilità maniacali e di crolli psicologici altrettanto manicali. I basilischi di Lina Wertmuller presenta i fratelli insoddisfatti e mortificati dei vitelloni felliniani arenati sulla sabbia di Rimini, che cercano - anche loro - di spiegare che nulla può cambiare. Circa trent'anni dopo, nel 1992, portando sullo schermo Io speriamo che me la cavo dell'insegnante- scrittore napoletano Marcello D'Orta, la stessa regista ritrova basilischi potenziali nei pur vivaci studentelli partenopei.

E così via. La miniera del Sud viene scavata nei suoi contenuti tenebrosi, ma sempre meno, a mano a mano che perde quota l'energia della denuncia sociale e politica dei maestri del neorealismo. Subentrano altri registi, altri maestri. I registi della commedia all'italiana preferiscono la parodia e la satira su un'Italia che la tv e i consumi stanno ricomponendo lungo le nuove autostrade, i supermercati, la moda e le crisi amorose e matrimoniali. Dino Risi, Luigi Comencini, Mario Monicelli e gli altri stanziano di preferenza a Roma, nella riaperta Cinecittà; ritrovano la centralità del cinema fatto nella capitale con attori che vi si sono trasferiti o addirittura nati. La potente schiera dei mattatori - Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi e soprattutto Alberto Sordi - crea un diverso tipo di personaggio, un tipo sfrontato e fanfarone che si esprime in una lingua e in una fisicità tali da proporre un italiano assente e complice di uno stato di cose, anche e forse soprattutto quando sembra capace di essere antagonista. La parodia o la caricatura, spesso godibilissimi, chiudono molte porte fingendo di aprirle. Ad esempio, se Roma vince, il Sud resta fuori.

Lo ha capito bene Carmelo Bene, uomo di teatro in visita sporadica al cinema, quando in Nostra Signora dei Turchi, realizzato nel 1968, inventa una provocatoria protesta barocca affastellando in un falò disperato gli avanzi o i reperti di un Sud archeologico eppur modernissimo che è consapevole di essere stato rimesso alla porta, e quindi rimosso. Carmelo getta nel falò l'apparente risveglio della produzione cinematografica che cerca avventura, denuncia sociale, vita e morte nel Mezzogiorno. Decine e decine di film che impegnano Totò e una infinita schiera di straordinari attori meridionali, noti o sconosciuti. Film sulla Sicilia, su Taormina, Napoli, la Costiera Amalfitana che sembrano fatti apposta per andare incontro agli americani reduci dalla campagna d'Italia, l'Italia fatta su misura per un turismo postbellico. Il Bel Paese illustrato - ad esempio - dalla splendente Baia di Napoli, un film con Sophia Loren e Clark Gable, che ispira e seduce i viaggiatori dei tour organizzati a New York o a Tampa in Florida. Tutto ciò avviene mentre, con il proposito di riscattare la terra dalle arretratezze, si attiva la Cassa del Mezzogiorno che funziona senza un piano organico di sviluppo e distribuisce a pioggia agevolazioni e finanziamenti. Per molti notabili e imprenditori, un'occasione impedibile: la corsa ad un nuovo Eldorado fatto balenare dai partiti. Nascono le Cattedrali nel deserto anche nel cinema. A pochi chilometri da Roma,esiste ancora oggi, e lavora a stento, una sorta di lascito storico. Si tratta dell'ex DinoCittà, che fu finanziato dalla Cassa dopo che i confini delle sue possibilità d'intervento vennero spostati verso Roma per ordine di autorevoli politici, politici interessati a creare concorrenza a Cinecittà.

Il Sud appare, poco prima che si celebrino i fasti e le cupezze tragiche de La dolce vita, fra anni Cinquanta e Sessanta, come un doppio mercato di affari e di spettatori destinato a scomparire. Le idee in verità sono poche, ma la produzione resiste ancora, usa e getta, non mette fondamenta, accelera il vorticoso volteggiare delle cambiali. L'importante è afferrare tutto quel che è possibile, prima che la tv divenga la padrona dell'intrattenimento e della comunicazione. Ed è così che l'impulso produttivo e la proliferazione delle pellicole si sfogano in un'orgia di pellicole e di illusioni. Ai tempi de La dolce vita si realizzano centinaia di film. E' un ultimo gioco, addirittura inebriante. Per vendetta e delirio, per amore e impotenza, nel suo speciale '68 Carmelo brucia; e con la sua Signora dei Turchi brucia tutto il resto. Metafora di una fine annunciata e non vista. Restano soltanto le ceneri di buone intenzioni e di mediocri spettacoli. Strane ceneri sotto cui sonnecchiano improvvisi revival: il Sud dell'eterna commedia dell'arte, polvere sollevata dal vento della tv, quando nel gennaio del 1954 la Rai lancia il nuovo mezzo di comunicazione. A fare da avanguardia, è uno spicchio di Sud: uno spiritoso professore napoletano Alessandro Cutolo che, proprio nell'anno del debutto, riesce a conquista legioni di ammiratori con un programma di posta con i primi spettatori intitolato Una risposta per voi. La posta, come ci ricorda lo show di Maria De Filippi C'è posta per te, fa parte integrante della storia della tv nel nostro paese fin dagli inizi.

Dopo di allora, un Sud che si rifugia in Lino Banfi, ultimo esponente di vecchio, sicuro talento in una tv che intossica il cinema e che fa del Sud la caricatura di un turismo urlante, di massa, mentre i tg ospitano i rintocchi di campane a morto e la sfilate contro i criminali mafiosi. Sono passati circa quarant'anni dal falò di Carmelo. Il cinema italiano oggi è una vecchia cassapanca. Una miniera che sembra una solfatara in disuso. Pochi film, mal distribuiti, dipendenti in tutto o gran parte dalle sovvenzioni statali, dalle tv. Sono dati di fatto che tutti conoscono. Una o più eccezioni non smentiscono il quadro di riferimento, un po' di zolfo si trova ancora. Per fare un esempio di una consapevolezza acquisita e condivisa al riguardo, mi riferisco a un film che è stato presentato alla "Mostra del cinema di Venezia" del 2003. Si chiama Il ritorno di Cagliostro, i registi sono Daniele Ciprì e Franco Maresco. Forse qualcuno di voi lo conosce. Narra di Carmelo e Salvatore La Marca, produttori cinematografici ed ex-fabbricanti di statue sacre che nel 1947 fondano a Palermo la Trinacria Film per "far tremare" Cinecittà e dare vita a una "little Hollywood siciliana". In questo progetto, trovano la complicità di un cardinale, di un onorevole e di un barone. Quest'ultimo venderà ogni proprietà per finanziare il kolossal Il ritorno di Cagliostro, che dà il titolo al film di Ciprì e Maresco. A impersonare il leggendario mago viene scritturata una celebrità di Hollywood, il grande Erroll Douglass, alcolizzato e sul viale del tramonto.

Nello stesso festival, è stato anche proiettato Segreti di Stato, di Paolo Benvenuti. E' la storia di un avvocato che, dopo avere assistito al processo per la strage di Portella della Ginestra, che si tenne nel 1951 contro i membri della banda Giuliano, non convinto, decide di condurre segretamente una indagine in proprio e ricompone un percorso che lo porterà ad attribuire responsabilità a personaggi molto in alto. Il confronto con il Salvatore Giuliano di Rosi, più riuscito e spettacolare, è impossibile: sono opere lontane anni luce l'una dall'altra, servono due concezioni diverse del cinema, appartengono a periodi incommensurabili. Rosi copiava bene il cinema americano, Benvenuti s'infila nel compiacimento della cronaca che non si completa mai e che non diventa mai storia, nella dietrologia che bracca l'esigenza di vedere chiaro che vive nel presente delle verità di continuo affermate e smentite. Il ritorno di Cagliostro e Segreti di Stato sono due film che tornano indietro nel tempo. E si capisce la ragione. Circola in questi autori una appassionata necessità di uscire dal passato facendoci i conti, allo scopo di dimenticare le "armonie perdute", i "paradisi" della natura e della solarità. A tratti, i risultati appaiano condizionati da una scelta di rigore e di ascetismo che rende i loro film troppo distanti, troppo chiusi in predilezioni stilistiche raffinate ma spesso inadeguate al rapporto con il pubblico cui aspirerebbero. Ciprì e Maresco, meglio di Benvenuti e di altri, mostrano di avere un'autentica consapevolezza della necessità di andare oltre . Ne Il ritorno di Cagliostro affiora con evidenza il bisogno di fare un bilancio critico, fino all'irrisione, non tanto con il cinema quanto con una leggenda del cinema nata lontano, una leggenda che rispunta ogni volta che si guarda al Sud come ad terra dall' "armonia perduta", irrimediabilmente perduta.

Ed ecco la Trinacria Film che produce pellicole abominevoli in mezzo a potenti dall'aspetto e dalla morale inqualificabili; ecco i progetti velleitari di una Hollywood portata nelle campagne di Palermo; ecco gli attori fuori gioco che recitano vanamente la parte dei divi che furono; ecco l'inutilità di suggestioni sceniche che riproducono quelle di antiche rappresentazioni sacre in un'epoca in cui gli autori televisivi di Striscia la notizia invocano proprio la rappresentazione sacra come paradigma del loro tg parodistico. E' proprio l'atteggiamento che Ciprì e Maresco trasmettono con Il ritorno di Cagliostro a creare l'occasione di confronto fra cinema e tv. La tv è esattamente quel che i due autori indicano: lo sviluppo deteriore di un cinema che non va più avanti. La loro intensa parodia supera l'ormai ristretto ambiente del cinema e investe tutta la sfera dello spettacolo e della comunicazione. Siamo al ritorno della filodrammatica in chiave aggiornata, mediatica. La parodia aiuta a comprendere cosa vogliono dire gli autori di Striscia la notizia. La filodrammatica come revival della sacralità della rappresentazione. Santi come Paolo Bonolis, Ezio Greggio, Jachetti e angeli come Veline.

La nuova filodrammatica in tv si trova , con i suoi pensieri di cartapesta e i suoi dilettanti allo sbaraglio, nei contenitori del mattino, del pomeriggio e della sera, nelle domeniche sportive e nei processi del lunedì o di qualsiasi altro giorno della settimana; e ora anche dei reality-show; talvolta, nelle serie poliziesche girate sotto il Vesuvio. Il Sud in tv rientra nella filodrammatica. E' l'eredità della "bella giornata" così come compare nel Turco napoletano o, nella versione impegnata, nei film di denuncia o di inchiesta sociale tipo i film dedicati a Della Chiesa, Falcone e Borsellino, La Piovra e simili. Belle giornate di sole e di vita spensierata, belle giornate per rapida archiviazione e spettacolarizzazione di problemi su cui non tramonta mai la luna che sveglia il licantropo a caccia di spunti (vittime illustri o anonime) per "non" tirare avanti.


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