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L'arte e la morte

A cura di Giorgia Bongiorno, Maia Giacobbe Borelli

Roma, L'Orma editore, 2023, 88 pp., euro 14
ISBN 979-12-5476-051-2

Continua il recupero di opere sparse di Antonin Artaud, esercizio tardivo che pure può offrire nuova intelligenza a un’opera quasi insondabile. Poi destinata inevitabilmente a mutamenti nelle traduzioni, come per lo stesso testo è accertabile nella precedente versione di Pasko Simone (Il melangolo, 2003). 

Accostando queste prove d’ambito e periodo surrealisti (fra il 1925 e il 1928) e assemblate sotto titolo unico nel 1929, vale controllare il senso che la nozione di surrealismo assumeva in Artaud, in rapporto alla sua collocazione nel Gruppo e alla collaborazione sia con «La Révolution Surréaliste», sia con altre Riviste che ospitarono le sue prose poetiche, come «La Nouvelle Revue Française» o la «Revue européenne». Lo sfruttamento del sogno, con la tecnica della trascrizione diretta di stati e immagini onirici, come richiesto dalla presunta ortodossia di André Breton e Philippe Soupault, non accomunava tutti i seguaci e imitatori. Artaud, dopo avere denunciato drammaticamente l’alterazione del suo stato psico-fisico nello scambio con Jacques Rivière (Correspondance, 1923-1924), avrebbe prodotto i “drammi mentali”, esemplari della sua visionaria perizia compositiva. A orientare il poeta nel processo creativo subentrava l’illogica, sua coniazione, distintiva e a contrasto con l’idea surrealista corrente (unicità qui segnalata da Giorgia Bongiorno nella prima Nota introduttiva). Per Artaud il governo sull’immagine, inconscia o meno, spettava allo Spirito, alla Conoscenza, finalizzati a superare la letteratura con l’immersione in una vita sempre in fase di rinascita. 

Sono otto i brani della silloge, nei quali s’evidenzia la temperie linguistica di quell’avanguardia, benché i moventi dell’autore sorgano da profondità inaudite e nutriti fino all’ultimo dallo strazio fisico del corpo e dalla sovraeccitata tensione della mente.  

«Chi, nel cuore di certe angosce, in fondo ad alcuni sogni, non ha conosciuto la morte come un senso di rottura e meraviglia con cui nulla si può confondere nel mondo mentale?», è l’incipit del libro (e del brano) che veniva presentato in una conferenza alla Sorbona nel marzo 1928. Nella descrizione fantasticata della morte, anche il sogno appare in qualche sorta un prodotto mentale. Il contatto originale si vorrebbe recupero dello stato infantile: «In certe paure paniche dell’infanzia, certi terrori grandiosi e irragionevoli dove cova la sensazione di una minaccia extra-umana» (p. 30) si pongono come presupposti da riconoscere ed elaborare, ma in condizione d’impotenza, tale quella confessata a Rivière: «Qualsiasi cosa tu faccia, non hai ancora cominciato a pensare» (p. 28). Man mano, Morte e Amore si fanno ossimoro. Nell’indirizzo alla Veggente (la vera Madame Sacco), lo scrittore stabilisce un’intimità affettiva: «Davanti alla veggente avevo questa sensazione: la vita era bella perché c’era lei» (p. 38). Processo di proiezione e identificazione che l’autore praticherà spesso e soprattutto con le donne elette platonicamente sue muse. 

Il dittico dedicato ad Abelardo ed Eloisa insegue, molto articolato e forse incompiuto, il fenomeno di sublimazione di pulsioni sessuali e aspirazioni trascendenti. I toni cercano equilibrio fra drammatiche constatazioni e giudizi sarcasticamente critici e disturbanti, in reazione alla tragica evenienza, la castrazione, «che pesa – a dirla con Artioli – come un fatto mentale che inibisce il desiderio» (Teatro e corpo glorioso, 1978, p. 31). Così si scontrano gli stati, sempre immaginari, ma rifluiti da esperienza esistenziale. Sessualità e sublimazione interagiscono nel linguaggio che osa fondere fisiologia, filosofia e meccanica del pensiero. Accostamenti lessicali arditi causano immagini, ora verbali ora visive, tipiche d’un gesto creativo rischioso nell’artificio spinto al manierismo. Un esempio: «La vita va e viene e cresce piano sotto il lastrico dei seni. Intorno alle dita si arrotolano le anime con le loro crepe di mica, e tra la mica Abelardo passa, dato che l’erosione dello spirito sovrasta tutto» (p. 43). 

Ciò di cui si compiaceranno i surrealisti, sarà per il poeta sempre più oggetto di reazione e di rifiuto alla convenzione letteraria. Nel grido «sono nato dal mio dolore» si ancorerà la tensione futura verso un linguaggio sempre più autentico poiché “inventato”, segno della propria conflittuale intimità. L’avventura della coppia storica è attraversata da un’alterazione metaforica e da acquisizione di risonanze e corrispondenze simboliche, quando il finale concentra, nel crogiuolo alchemico, piacere orgasmico e coscienza dell’evirazione violenta: «E grida Abelardo, divenuto come morto... con la punta vibrante e all’apice dello sforzo... Allora la latteria celeste si esalta... il ventre chiuso, sente la verga diventare liquida» (p. 46). Aspetti carnali e metafisici si ritrovano in Abelardo il Chiaro: guidato da razionalismo esasperato, ma succube della seduzione carnale, lo scrittore fa del suo eroe (ancora coinvolto in una variante dell’amplesso) un nuovo alter ego

L’atteggiamento si ripete nella meditazione sul pittore Paolo Uccello, all’alterità del quale si affida in Uccello, il pelo. Oltre che germe di teatralità (per dramma mentale), il testo isola particolari anatomici in ossessivo rilievo: «Uccello, amico mio, mia chimera. […] L’ombra della grande mano lunare non ti sfiorerà mai la vegetazione dell’orecchio. […] A sinistra i peli, Uccello, a sinistra i sogni, a sinistra le unghie, il cuore» (p. 35). Il poeta ruba al pittore le immagini e dalla tela le trasferisce sulla pagina, campo d’una battaglia epica quanto quella d’un quadro, partecipata per tormento uguale: «Eri nato con la mente vuota quanto la mia, lo so, ma quella mente hai potuto fissarla su poche cose […]. Con la distanza di un pelo, oscilli su uno spaventoso abisso» (p. 57). 

Lo sguardo allucinato sull’opera di André Masson frutta poi L’incudine delle forze, ove il ritmo verbale risponde al ritmo visivo delle immagini evocate: «Questo flusso, questa nausea, queste strisce, è da questo che comincia il Fuoco. […] Ho assenza di meteore, assenza di mantici infuocati. […] L’umore leggero e rarefatto. Anch’io aspetto soltanto il vento» (pp. 61-64). 

L’ultimo brano è più divertito aneddoto, o vaudeville, con personaggi letterari trattati con scherno e ironia. L’inizio è in falso stile bohémien: «L’amavo. Faceva la serva in una taverna di Hoffmann, ma era una squallida e abietta servetta» (p. 75). Poi l’andamento teatrale o narrativo sfoggia impulsi e immagini contrastati, espressioniste oltre che surreali. Un fotogramma laconico, il finale: «Una luce da fine del mondo riempì poco a poco il mio pensiero» (p. 80).


di Gianni Poli


La copertina

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