Lo studioso Georges Banu scomparso recentemente ha indagato tanti aspetti dellarte teatrale. In questultima opera, in
parte incompiuta, saggia le «ruptures essentielles» che hanno attraversato il
teatro europeo. Prova a distinguere in che senso la novità tipica dogni
artista o tendenza, protagonista o comunque presenza pregnante, abbia
contribuito al transito di esperienze e di saperi estetici giunti fino a noi.
Vengono così tratteggiati personaggi e loro manifestazioni, lampi o fuochi
duraturi di gesti espressivi che hanno segnato il tempo e la memoria di mezzo
secolo, in una trentina di capitoli, metà dei quali inediti, più un inserto di Immagini.
Nella Préface, Guy Freixe sintetizza
la specificità caratteriale dellAutore: «Un éclaireur qui a su restituer le
récit de la scène moderne, dont il a été plus quun spectateur-témoin, un de
ses fervents acteurs» (p. 7). In apertura, lautore si sofferma sullesprit
du temps (zeitgeist, in tedesco, la tendenza culturale
prevalente): «Le Zeitgeist se définit par lémergence imprévue
et dispose de la fluidité de linattendu, de limprévisible ! […]. Cest
ce qui se dégage à un moment donné et que certains artistes pressentent grâce à
une sensibilité toute particulière, comme les animaux» (p. 13).
Il riferimento allo scultore Brancusi è preso da Banu a
criterio e bussola, per farsi guidare nella scelta e nellinterpretazione, sia
dellarte (nelle sue incessanti variazioni) sia nella vita personale: «La
Colonne sans fin de Brancusi […] qui relie le même et le différent non
pas sur un cercle, ni sur une spirale, mais sur une verticale [...]. La
verticale apparaît comme la conséquence dun combat inassouvi, perpétuellement
relancé. Ici le rhombe est le modèle propre à lexercice de lart qui simpose
à une époque» (p. 29).
Sono i preliminari teorici a dirigere lo sguardo e a concentrare la
riflessione, nel discernere le situazioni emergenti nella vicenda produttiva ed
estetica in esame. Pertanto, il teatro sarebbe «invention de lEurope» (p. 31)
e troverebbe lhumus più nutritivo nelle «villes mineures» per suscitare
pratiche teatrali dalla forte, esemplare identità. Come accaduto ad Avignone,
con Jean Vilar che vi impianta il Festival così longevo, a
Holstebro, resa attraente dallOdin Teatret di Eugenio Barba, a
Wroclaw con Jerzy Grotowski, fino a Wuppertal, sede di Pina
Bausch. Località dalle potenzialità soggette a una sorta di mitizzazione,
come confermato in luoghi italiani, quali il Fabbricone di Prato o il complesso
riunito da Roberto Bacci a Pontedera.
Altro rilievo, le due funzioni assunte dalla peculiarità del luogo
teatrale a seconda delluso, come abri o come édifice,
allorigine di un moto teso a spazi altri, in cerca di un pubblico alternativo.
«Ensuite, on souhaite de le faire au nom dune perception nouvelle. Le procès
et lutopie sallient» (p. 49), aprendosi a una dimensione spaziale portatrice
di esperienze decisive. Come per la facoltà cara ad Antoine Vitez,
si può fare teatro di tutto, così rispetto al luogo «on peut faire du théâtre
partout» (p. 50). Lautore si concede icastiche definizioni, quali: «Labri,
comme lieu palimpseste, conjugue lautrefois revécu avec le présent vécu: sa
séduction vient de là. Impureté de labri - palimpseste mnémonique – face à la
pureté de lédifice, lieu de mémoire» (p. 51). Sempre premesse teoriche
giustiifcano e situano i casi esemplati evocati: Les Halles parigine, per lOrlando
furioso ivi diretto da Ronconi, la Cartoucherie de
Vincennes, per gli esordi di Mnouchkine; il Théâtre des Bouffes du
Nord che, recuperato, riunisce i ruoli di rifugio e di edificio, dei quali il
genio di Peter Brook sa sfruttare la poesia.
Quando il critico segue la «réintégration de lédifice», trova che Klaus
M. Grüber vi esprima una poetica della memoria volta a recuperare lo
spazio allitaliana e conclude additandoci la chiusura circolare di
una vicenda storicamente condizionata da mutamenti radicali: «Voilà à lœuvre
le principe de laction et la contre-action propre à la relation du théâtre et
de la ville» (p. 59).
Per necessità di sintesi, la lettura può limitarsi a pochi, ulteriori
capitoli, tutti indicativi del metodo scelto dallautore e della sua forza
comunicativa. Fra i numerosi défis esthétiques lanciati,
incontriamo Les spectacles long durée, aventure de lextrême, che
nelle strutture dallinsolita misura (definibile “gran formato”),
richiedono una valutazione di “genere”, oltre che per la bellezza conseguita.
La durata condiziona dunque lapproccio alla prestazione e il
risultato. Da Robert Wilson di Le Regard du sourd (1971)
e di Einstein on the Beach (1976) che impongono la lentezza,
a Jan Fabre creatore di Mount Olympus (2015),
gli eventi salimentano alla misura delleccesso. Motivati forsanche dalla
condivisione duna resistenza alla fatica che lo spettatore vive come
esperienza eccezionale, esclusiva. Au-delà des frontières, les ponts,
segnala il superamento delle barriere fra le arti, nellinterpretare classici
come Shakespeare; nel contaminare discipline separate, ma
integrabili, come avviene in opere di Brook, di Mnouchkine e di Barba, fra gli
sperimentatori occidentali di pratiche orientali. Rischiosi e attraenti, i
tentativi di Ivo Van Hove. Il regista è preso a campione per un
suo serial televisivo composto da tre titoli
shakespeariani, Les Tragédies romaines e per la prosecuzione
con Les Rois de le guerre, grande successo europeo, «alliance
inattendue qui confirme quil sagit dun texte dautrefois nourri des avatars
du présent» (p. 99). In Apollonia, Krzysztof Warlikowski ha
accostato tragedie greche a romanzi attuali. La guerra, tema già saliente nel
passato (agitato dal Bread and Puppet), ha impegnato lo stesso regista, che poi
assume a metafora del mondo lospedale (sentito come consustanziale alla
condizione umana), segnato da una malattia invasiva che da fisiologica può
alludere al potere; o battere vie traverse, come fa Mats Ek ambientando Gisèle in
un manicomio. Il travestimento in scena è sapidamente tratteggiato, con esempi
di allestimenti (più o meno recenti) di titoli di autori classici
(Shakespeare, Marivaux, Brecht) di registi
eminenti come Vitez, Donnellan, Ronconi, Copi, Arias e Py,
con il precedente lontano di Sarah Bernhardt. La varietà e la
fantasia si ripetono assortite: Vidée, la scène? svolge
domande fra la poesia e letica, oppone visioni antitetiche, orientali e
occidentali, individuabili nei loro rappresentanti illustri, Copeau,
Brecht, Brook, Vitez.
La personalità dellautore offriva, a chi la frequentava, la strana
sensazione di essere invitati a collaborare, come se ogni minima reazione
potesse riaccendere il desiderio duna nuova, originale ricerca comune. Nel
libro è sempre ammirevole il lavoro, anche dartista, necessitato ad esprimere
non soltanto il fenomeno studiato, ma il piacere che la scoperta gli
restituiva. Da spettatore curioso indagava sui moventi nascosti e remoti del
creatore, mentre con lui dialogava. Nel mantenere limpronta autobiografica,
Banu espone se stesso di fronte allopera, tanto più scrupoloso quanto più
partecipe alla sua decifrazione. Finché accoglie la necessità duna presa di
coscienza su quando lartista possa o debba «mettre un terme» (p. 261) alla
propria missione. Dilemma insolubile, spesso risolto causalmente. O, come
nel suo caso, deciso dalla morte.
di Gianni Poli
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