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Georges Banu

Le Théâtre et l’Esprit du temps


Montpellier, Deuxième époque, 2023, pp. 280, 27,00 euro
ISBN 978-2-37769-098-5

Lo studioso Georges Banu scomparso recentemente ha indagato tanti aspetti dell’arte teatrale. In quest’ultima opera, in parte incompiuta, saggia le «ruptures essentielles» che hanno attraversato il teatro europeo. Prova a distinguere in che senso la novità tipica d’ogni artista o tendenza, protagonista o comunque presenza pregnante, abbia contribuito al transito di esperienze e di saperi estetici giunti fino a noi. Vengono così tratteggiati personaggi e loro manifestazioni, lampi o fuochi duraturi di gesti espressivi che hanno segnato il tempo e la memoria di mezzo secolo, in una trentina di capitoli, metà dei quali inediti, più un inserto di Immagini.

Nella PréfaceGuy Freixe sintetizza la specificità caratteriale dell’Autore: «Un éclaireur qui a su restituer le récit de la scène moderne, dont il a été plus qu’un spectateur-témoin, un de ses fervents acteurs» (p. 7). In apertura, l’autore si sofferma sull’esprit du temps (zeitgeist, in tedesco, la tendenza culturale prevalente): «Le Zeitgeist se définit par l’émergence imprévue et dispose de la fluidité de l’inattendu, de l’imprévisible ! […]. C’est ce qui se dégage à un moment donné et que certains artistes pressentent grâce à une sensibilité toute particulière, comme les animaux» (p. 13). 

Il riferimento allo scultore Brancusi è preso da Banu a criterio e bussola, per farsi guidare nella scelta e nell’interpretazione, sia dell’arte (nelle sue incessanti variazioni) sia nella vita personale: «La Colonne sans fin de Brancusi […] qui relie le même et le différent non pas sur un cercle, ni sur une spirale, mais sur une verticale [...]. La verticale apparaît comme la conséquence d’un combat inassouvi, perpétuellement relancé. Ici le rhombe est le modèle propre à l’exercice de l’art qui s’impose à une époque» (p. 29).     

Sono i preliminari teorici a dirigere lo sguardo e a concentrare la riflessione, nel discernere le situazioni emergenti nella vicenda produttiva ed estetica in esame. Pertanto, il teatro sarebbe «invention de l’Europe» (p. 31) e troverebbe l’humus più nutritivo nelle «villes mineures» per suscitare pratiche teatrali dalla forte, esemplare identità. Come accaduto ad Avignone, con Jean Vilar che vi impianta il Festival così longevo, a Holstebro, resa attraente dall’Odin Teatret di Eugenio Barba, a Wroclaw con Jerzy Grotowski, fino a Wuppertal, sede di Pina Bausch. Località dalle potenzialità soggette a una sorta di mitizzazione, come confermato in luoghi italiani, quali il Fabbricone di Prato o il complesso riunito da Roberto Bacci a Pontedera.

Altro rilievo, le due funzioni assunte dalla peculiarità del luogo teatrale a seconda dell’uso, come abri o come édifice, all’origine di un moto teso a spazi altri, in cerca di un pubblico alternativo. «Ensuite, on souhaite de le faire au nom d’une perception nouvelle. Le procès et l’utopie s’allient» (p. 49), aprendosi a una dimensione spaziale portatrice di esperienze decisive. Come per la facoltà cara ad Antoine Vitez, si può fare teatro di tutto, così rispetto al luogo «on peut faire du théâtre partout» (p. 50). L’autore si concede icastiche definizioni, quali: «L’abri, comme lieu palimpseste, conjugue l’autrefois revécu avec le présent vécu: sa séduction vient de là. Impureté de l’abri - palimpseste mnémonique – face à la pureté de l’édifice, lieu de mémoire» (p. 51). Sempre premesse teoriche giustiifcano e situano i casi esemplati evocati: Les Halles parigine, per l’Orlando furioso ivi diretto da Ronconi, la Cartoucherie de Vincennes, per gli esordi di Mnouchkine; il Théâtre des Bouffes du Nord che, recuperato, riunisce i ruoli di rifugio e di edificio, dei quali il genio di Peter Brook sa sfruttare la poesia.

Quando il critico segue la «réintégration de l’édifice», trova che Klaus M. Grüber vi esprima una poetica della memoria volta a recuperare lo spazio all’italiana e conclude additandoci la chiusura circolare di una vicenda storicamente condizionata da mutamenti radicali: «Voilà à l’œuvre le principe de l’action et la contre-action propre à la relation du théâtre et de la ville» (p. 59).

Per necessità di sintesi, la lettura può limitarsi a pochi, ulteriori capitoli, tutti indicativi del metodo scelto dall’autore e della sua forza comunicativa. Fra i numerosi défis esthétiques lanciati, incontriamo Les spectacles long durée, aventure de l’extrême, che nelle strutture dall’insolita misura (definibile “gran formato”), richiedono una valutazione di “genere”, oltre che per la bellezza conseguita. La durata condiziona dunque l’approccio alla prestazione e   il risultato. Da Robert Wilson di Le Regard du sourd (1971) e di Einstein on the Beach (1976) che impongono la lentezza, a Jan Fabre creatore di Mount Olympus (2015), gli eventi s’alimentano alla misura dell’eccesso. Motivati fors’anche dalla condivisione d’una resistenza alla fatica che lo spettatore vive come esperienza eccezionale, esclusiva. Au-delà des frontières, les ponts, segnala il superamento delle barriere fra le arti, nell’interpretare classici come Shakespeare; nel contaminare discipline separate, ma integrabili, come avviene in opere di Brook, di Mnouchkine e di Barba, fra gli sperimentatori occidentali di pratiche orientali. Rischiosi e attraenti, i tentativi di Ivo Van Hove. Il regista è preso a campione per un suo serial televisivo composto da tre titoli shakespeariani, Les Tragédies romaines e per la prosecuzione con Les Rois de le guerre, grande successo europeo, «alliance inattendue qui confirme qu’il s’agit d’un texte d’autrefois nourri des avatars du présent» (p. 99). In ApolloniaKrzysztof Warlikowski ha accostato tragedie greche a romanzi attuali. La guerra, tema già saliente nel passato (agitato dal Bread and Puppet), ha impegnato lo stesso regista, che poi assume a metafora del mondo l’ospedale (sentito come consustanziale alla condizione umana), segnato da una malattia invasiva che da fisiologica può alludere al potere; o battere vie traverse, come fa Mats Ek ambientando Gisèle in un manicomio. Il travestimento in scena è sapidamente tratteggiato, con esempi di allestimenti (più o meno recenti) di titoli di autori classici (Shakespeare, MarivauxBrecht) di registi eminenti come Vitez, Donnellan, Ronconi, CopiArias e Py, con il precedente lontano di Sarah Bernhardt. La varietà e la fantasia si ripetono assortite: Vidée, la scène? svolge domande fra la poesia e l’etica, oppone visioni antitetiche, orientali e occidentali, individuabili nei loro rappresentanti illustri, Copeau, Brecht, Brook, Vitez. 

La personalità dell’autore offriva, a chi la frequentava, la strana sensazione di essere invitati a collaborare, come se ogni minima reazione potesse riaccendere il desiderio d’una nuova, originale ricerca comune. Nel libro è sempre ammirevole il lavoro, anche d’artista, necessitato ad esprimere non soltanto il fenomeno studiato, ma il piacere che la scoperta gli restituiva. Da spettatore curioso indagava sui moventi nascosti e remoti del creatore, mentre con lui dialogava. Nel mantenere l’impronta autobiografica, Banu espone se stesso di fronte all’opera, tanto più scrupoloso quanto più partecipe alla sua decifrazione. Finché accoglie la necessità d’una presa di coscienza su quando l’artista possa o debba «mettre un terme» (p. 261) alla propria missione. Dilemma insolubile, spesso risolto causalmente. O, come nel suo caso, deciso dalla morte.    


di Gianni Poli


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