Lattività dellattore, regista e direttore
francese è stata accompagnata da unincessante intensa corrispondenza che ne
caratterizza la personalità e ne mostra i tratti tipici più intimi.
Introducendo molti inediti, accanto a lettere già pubblicate, lopera curata da
Violaine Vielmas intende tracciare una biografia insolita, ma fedele e
coerente, dellinventore del Festival dAvignon e del maggiore testimone e
interprete dello spirito del Teatro Popolare. Vilar fu «un acteur et un témoin
de la vie culturelle française. Ces lettres exposent les différents visages de
Jean Vilar», personaggio via via identificabile quale «patron, artiste,
réformateur, ami» (p. 8).
I documenti vilariani, divisi in
istituzionali e personali, sono depositati negli Archivi di Stato e in quelli
del Festival avignonese. Le duecentosessanta lettere
riprodotte sono scelte fra le più rappresentative nei contatti dellautore con
personalità dellarte, della cultura e della politica. Landamento cronologico –
dal 1943 alla morte nel 1971 – scandisce in quattro parti lintera carriera del
protagonista, in un confronto che spesso sarricchisce dellintervento dei suoi
interlocutori. Nelluomo che aspirava alla dignità di scrittore, lo stile
nasceva dalla necessità primaria di raggiungere lo scopo comunicativo. Come in
un diario annotava sentimenti immediati e concetti elaborati, senza
preoccupazioni formali.
La curatrice riscontra la
«conscience aiguë dune œuvre à accomplir et la volonté de donner, par
celle-ci, un sens à sa vie» (p. 11), sorta in concomitanza con la morte del
fratello Lucien (1939) e subito annotata con le parole del dolore e del lutto.
Per testimoniare la propria esperienza, lautore poi maturo si sarebbe
confidato con un Journal e dedicato al romanzo autobiografico, Chronique
romanesque (1971). Testo sottovalutato, che nelle metafore e nel
protagonista in cui si specchia lautore potrebbe illuminare le «attitudes et
aspirations contradictoires qui animèrent Vilar au cours de sa carrière» (p.
36). La frequentazione di Jean Paulhan (sua la lettera di apertura, febbraio
1943) e la lettura di André Malraux guidano il giovane Jean dalla natia Sete a
Parigi, dove, apprendista régisseur alla scuola di Charles Dullin,
larte dellattore gli appare lideale duna visione teatrale da perseguire
come vocazione assoluta.
La ricerca duno scopo radicalmente
impegnativo si manifesta nelle prime relazioni, sincere e già severe: «Le
théâtre à lheure actuelle vous oblige à un combat contre nature. […] Travailler pour trois
cent personnes, alors qil faudrait travailler pour la foule! Cest un peu ridicule, quand on y pense» (p. 47). I legami
si tessono con leditore Gallimard, con Paulhan e con Schlumberger, che gli
riconosce una «pureté intransigeante» (p. 45); con il Sartre filosofo e
drammaturgo, per radicarsi poi negli attori e nei tecnici delle troupes
da lui formate e dirette, La Roulotte e la Compagnie des Sept (anni Quaranta),
fino al Théâtre National Populaire.
Camus e Sartre intervengono diversamente nel dialogo e nel
destino dellimpresa vilariana: il primo, valutato in base alla creazione di Le
Malentendu (1944), «une excellente pièce… Une grande œuvre manquée» (p.
52). Il secondo, investito da polemica memorabile sul vero significato di théâtre
populaire, inseguito nella sua ambiguità forse imprendibile. Quando Sartre
misconosceva, in unintervista, lautenticità “popolare” del TNP, il direttore
sfidava lintellettuale con linvito rinnovato di concedergli un suo dramma per
lallestimento (a J.-P. Sartre, 1955). Vilar aveva già espresso un
giudizio su Huis Clos, per linterpretazione di attori che «humilient la
condition de comédien: ils oublient quil existe une grammaire, un vocabulaire
et une sintaxe du comédien, dûment refaite et choisie» (p. 52) e sadattano a
intrattenere un pubblico abâtardi.
Il bisogno di cimentarsi con la
drammaturgia contemporanea spinge il regista a sforzi ripetuti di scambio con
gli scrittori. Confessa a Paulhan la delusione nel dovere constatare la rarità
dei romanzieri che affrontano il teatro, «alors que nous avons tellement besoin
dun poète dramatique. Cest bien triste» (p. 56). Sono naturalmente frequenti
gli squilibri nei rapporti interpersonali, fra il patron e i suoi interpreti.
Tra i preferiti, spiccano le personalità di Casarès o di Philipe; di Sorano o
di Wilson: fonte di tensioni e dialoghi sinceri, pur sempre in toni di
raffinata, educatissima amicizia. Il richiamo del direttore alla puntualità, ad
esempio, è segno scrupoloso dun perfezionismo intransigente, in unetica della
fedeltà, percepibile nella ripresa di Lorenzaccio, affidata alla regia
di Philipe (giugno 1958), al quale raccomanda di non esigere dai compagni «plus
que ses moyens ne peuvent donner» (p. 236).
La profonda implicazione con
Casarès si avverte sia nel gioco duna specie dintervista reciproca che Vilar
promuove, in «un dialogue. Sur le métier de comédien. Ou sur le comédien» (p.
223), sia nello scambio-confessione con la stessa (interprete di Marie Tudor), in uno
slancio di riconoscenza: «Te dirai-je un jour tout ce que tu a apporté aux filles
et aux garçons de la troupe? Cela est considérable, Maria, plus encore que
cette merveille de théâtre que tu es» (p. 239). Lo slancio si prolunga,
applicandosi al gruppo per lallestimento di Mère Courage, ripreso a
Ginevra nel 1959: «Vous jouez aussi pour le TNP une partie de prestige» (p.
257).
Vicende pubbliche e divergenze di
interessi personali fanno registrare nellottobre 1959 uno scontro esacerbato
in cui Vilar coinvolge Barrault. La stima reciproca, nella schiettezza del
rapporto, diventa conflitto attorno a distinzioni e rivendicazioni riguardanti
le risorse disponibili per le relative imprese (pp. 260-265). Linteresse alla
nuova drammaturgia si concreta nel sollecitare autori quali Cocteau, Gide e Giono;
poi Adamov, Beckett, Ionesco, Genet, Queneau, Anouilh. Ma anche il ricorso a un
lettore dedicato, Georges Perros, non produce le scoperte attese. I rapporti
con i critici risentono di componenti sia estetiche sia etico-politiche,
verificabili nei contatti con Roland Barthes e J.-P. Sartre, Bernard Dort e Jacques
Lemarchand. Fra i sostenitori istituzionali, Jeanne Laurent spicca per la
comprensione e la generosità collaborativa; André Malraux per lamicizia e
lapprezzamento, mantenuti fra burocrazia e gusti intellettuali condivisi.
Quanto ai numerosi inediti
(affiancati da un inserto illustrativo fuori testo), se il loro apporto non
cambia né lessenza né il valore dellavventura artistica e riformatrice già
nota, assieme contribuiscono a renderla più consona alla misura complessa e
discussa nellampia storiografia. Ne beneficia certo la consapevolezza duna
memoria consolidata in coerenza con i fatti e i giudizi. Persino sul Festival
dAvignon sincontrano documenti capaci di precisarne le condizioni di
ideazione e dattuazione. Certe annotazioni (a Maurice Coussonneau, agosto
1947) confermano le doti organizzative e relazionali dellartista nella
progettazione tecnica ed estetica, mediante organici degli interpreti e
funzioni tecniche, accanto a criteri gestionali verificabili in manifestazioni
internazionali analoghe. Segno di lungimiranza e comunione per obiettivi
comuni, in situazioni culturali e operative finora distanti e discordi, come
avveniva fra Parigi e la provincia. Per il Festival, la svolta data dalla
contestazione del Sessantotto è riflessa in una lettera di Beck e Malina (del
Living Theatre) e nella risposta di Vilar: «Abandonnez-moi à mes libertés,
comme je vous laisse aux vôtres» (p. 360).
Lultima lettera – destinata a
Malraux (16 maggio 1971) e non spedita – sul senso della responsabilità di
Vilar verso il TNP, sentita insostenibile e sui rapporti fra potere, cultura e
creatività, non avrà quindi risposta. La Storia stessa sembra dilazionarla,
poiché la curatrice soggiunge ulteriori domande: «Peut-on sengager sans se
corrompre? Comment surmonter lopposition indépassable dun théâtre
populaire dans une société inégalitaire?» (p. 37).
di Gianni Poli
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