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Fabrizio Gifuni. L’attore maratoneta

A cura di Federico Pommier Vincelli e Boris Sollazzo

Isernia, Cosmo Iannone Editore, 2022, 192 pp., 16,00 euro
ISBN 978 88 516 0227 7

Chi scrive ha in mente la stupenda scena de La signora di Shangai (The Lady from Shanghai, Orson Welles, 1949) dove Rita Hayworth si trova faccia a faccia con una moltitudine di specchi, ognuno dei quali riflette una immagine reale o solo apparentemente distorta della protagonista. Quelle inquadrature, seppur labirintiche, possono diventare un affascinante aggancio per approcciarsi alla carriera sfaccettata e multiforme di Fabrizio Gifuni.

Il tentativo di raccontare questo artista è sicuramente riuscito ai curatori del volume collettaneo Fabrizio Gifuni. L’attore maratoneta edito da Cosmo Iannone nella collana “Pagine di MoliseCinema” dedicata ai protagonisti del cinema contemporaneo. Federico Pommier Vincelli e Boris Sollazzo hanno raccolto voci di studiosi, docenti universitari, critici, registi, attori per districare un percorso in continua evoluzione. Il testo in tal senso si correda nella sua prima e più corposa parte (suddivisa a sua volta in tre sezioni) di saggi e riflessioni stimolanti e puntuali, che cercano di inquadrare (in maniera prima globale e poi via via più dettagliata) la sua carriera filmica e teatrale dalle origini fino a Esterno notte (Marco Bellocchio, 2022).

Difficile poter raccontare, fotografare, ritrarre Gifuni. Attore teatrale? Certo e di gran prestigio: tante le sue interpretazioni e soprattutto riscritture (lontano dalle semplici “riletture”, ma tanto più vicine a testi dotati di senso “oltre”), soprattutto da Gadda e Pasolini («Quello che egli ha condotto sulla scena è stata un’ulteriore battaglia, un corpo a corpo con due universi letterari e linguistici per riattivarli nella loro veemenza polemica, nella loro rabbia contro i vizi dell’Italietta», Mariapaola Pierini, Gadda, Pasolini e il testo che si fa azione, p. 48), o dalle lettere di Moro (Miguel Gotor, “Finalmente mi avete capito?” Lo studio di Fabrizio Gifuni sugli scritti di Aldo Moro dalla prigionia, pp. 83-90), in una continua e tenace ricerca del sé teatrale, proteso verso la continua moltiplicazione dei ruoli. Ruoli che non sono mai semplici “personaggi in cerca d’autore”, ma di autori e sempre “attori nell’attore” (in tal senso fondamentale il magistero di Orazio Costa). Un attore mai disgiunto dal pubblico, nel tentativo di rendere atti ed esperienze altamente sociali e formative i monologhi, gli sguardi, le parole.

Sotto quest’ultimo aspetto va rimarcata la vasta produzione per la trasmissione radiofonica Ad alta voce – e il conseguente studio incessante fatto sulla componente timbrica e vocale (Pedro Armocida, La linea del suono. Ascoltare De Gasperi e Paolo VI, pp. 65-70) – come lettore/interprete di audiolibri per testi di grande prestigio, come per esempio I promessi sposi. In quest’ottica «la performance di Gifuni è davvero impressionante, colpiscono la sapienza con cui si infila nella sintassi misteriosa incuneata tra significato e significante, l’organicità di un corpo scenico che si fa orchestra, la fluidità e la precisione del gesto, la consapevolezza di una parola che mette in guardia contro i disastri di ogni dittatura» (Sara Chiappori, La parola verticale, p. 55).

Attore cinematografico? Ancor più, totalmente malleabile, multiforme e allo stesso tempo riconoscibilissimo, con la sua allure (sicuramente paragonabile a quella gassmaniana; Marco Pistoia, Il senso in più dell’intelligenza, p. 115), il suo stile dai mille stili (ma «se si vuole individuare un archetipo che gli si avvicini si può trovare nella scuola inglese, in cui chi è ai margini per battute e pose trova poi il modo di essere centrale nel racconto, grazie all’autore ma anche alla propria grammatica espressiva», Boris Sollazzo, Diversamente protagonista. Il metodo Gifuni, p. 27), capace di passare, con estrema dovizia e cura del personaggio, da ruoli altamente drammatici ad altri più vicini alla commedia. Da un lato la Storia dall’altro le storie: in tutto questo sicuramente si riconosce una delle qualità di Gifuni, tra biografismo estremo ma sempre nella tensione spettatoriale (il suo Moro, il suo Fava sono anche i nostri Moro, i nostri Fava) e quotidianità sentita e analitica, dove emerge la capacità di farsi voce di una generazione di giovani in bilico, pronti a mettersi in discussione, tra contrasti di reminiscenza antonioniana e riflessi di impegno civile petriano, in un’aura attoriale salvifica, civile e sociale di balázsiana memoria. Emerge quello che viene definito «il senso in più dell’intelligenza. […] l’acume, sistematico e quasi sciamanico, nell’affrontare questa o quella scrittura, questa o quella parte e, dunque, questo o quel personaggio con un atteggiamento che volta per volta risulti essere il più appropriato per ciascuna occasione» (Pistoia, Il senso in più dell’intelligenza, cit., pp. 109-110). E poi attore televisivo sicuramente, dimostrando la capacità di trasformazione e trasmigrazione da un mezzo all’altro con fruttuosa e talentosa capacità.

Il suo operato rivaluta, seppur in parte, il concetto divistico di Edgar Morin, ribaltandolo o anzi dandogli luce nuova. Nel caso di Gifuni, sicuramente tra i più umani degli attori della sua generazione,il superumano travalica il suo originale significato: sfondare il concetto dell’interpret(abil)e è tra le capacità “divistiche” di Gifuni, a metà tra i suoi due dichiarati (in diverse interviste) modelli (Mastroianni e Volonté), oltrepassando il muro della riconoscibilità (gli specchi) ma senza alterarne la figura, il talento, la poliedricità

A corredare il libro anche un ricco collage di interviste a registi, ma soprattutto amici, che ne raccontano la vita sul set, il rapporto con la macchina da presa, con il legno del palcoscenico: Marco Bellocchio («Nessun altro attore era arrivato alle vette del Moro di Fabrizio, proprio per la lunga e complessa elaborazione storica oltre a quella attoriale», Raffaele Rivieccio, Tra Moro e Volonté, p. 138), Francesco Bruni («Fabrizio è una specie di attore-autore: un attore in grado di discutere con l’autore del suo personaggio», Joana Fresu De Azevedo, L’eleganza nella commedia, p. 153), Marco Tullio Giordana («Gifuni nell’incarnare i suoi personaggi si preoccupa anche dei movimenti, della postura, del modo con cui il suo corpo occupa lo spazio e interagisce con gli altri», Ilaria Ravarino, Dentro l’irrisolto della storia italiana, p. 133), Gianluca Tavarelli, Daniele Vicari.

Chiudono il volume (oltre a una filmografia, teatrografia e breve nota biografica) un’intervista a quattro mani a Gifuni in cui l’artista fa una somma della sua carriera, tra incontri e lezioni di recitazione: «Ho sempre cercato di lavorare sulle mie fragilità, sui miei punti d’inciampo, sulle debolezze, soprattutto quando lavoravo a personaggi che poi sono diventati eroi dopo morti, santificati per una sorta di senso di colpa collettivo. Ho la necessità di riportarli a una dimensione umana, che contenga sempre gli errori, gli sbagli, le piccolezze che ognuno di noi si porta dentro» (F. Pommier Vincelli, B. Sollazzo, La bellezza e la ferita, p. 173). Infine, preziosa e delicata, la postfazione di Sonia Bergamasco, che unisce la sua voce a quella degli altri in un omaggio appassionato nel ricordo degli esordi teatrali in comune

Ecco perché il tentativo citato all’inizio appare limitante: Gifuni sfugge, si insinua nelle nostre retine ma soprattutto nei nostri cuori di spettatori multitasking con stile sobrio e raffinato, defilandosi ma attaccando con violenza, con stile, studio, competenza; suscitando emozioni di difficile catalogazione, ma sicuramente profonde, autentiche, sincere e appassionate. Un volume di pregio che regala mille ritratti di un artista nell’unico modo possibile: a più voci, più sguardi, più riflessi



di Pietro Ammaturo


La copertina

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