A pochi anni dalla sua scomparsa, la figura di Michel
Piccoli (1925-2020), attore-volto di un certo tipo di cinema francese ed
europeo, suscita interesse verso la propria recitazione, che si offre in una
vasta filmografia come elemento caratterizzante della propria attorialità.
Proprio in questa galassia Marco Luceri individua un percorso i cui
punti di snodo sono i tratti salienti della recitazione piccoliana.
Nato come attore teatrale, Piccoli si rivolge inizialmente
a un sistema-cinema che, pur non ignorandolo, non lo esalta: in unepoca in cui
la scelta dellattore segue criteri di peculiarità fisiognomica, infatti, «quello
di Piccoli è piuttosto il volto irregolare di un giovane uomo piuttosto comune,
privo di elementi in grado di colpire lo spettatore» (p. 21). Tuttavia, la sua
capacità di calarsi nei panni dellinquieto uomo novecentesco, ora nichilista e
sconfitto dalla vuotezza dellesistenza, ora depotenziato della propria
virilità di fronte a personaggi femminili inafferrabili, ne fa un interprete di
primo piano nel cinema della modernità.
Il titolo stesso del libro ne evidenzia due
caratteristiche, oltre a rimarcare, sommessamente, il suo ruolo di attore:
lenigmaticità, punto cardine della «qualité Piccoli» (p. 15), e il
sorriso, elemento performativo ricorrente capace di provocare straniamento e
discontinuità. Il suo ruolo di interprete non-divistico, di
professionista-artigiano lo porta, secondo il concetto mutuato da Louis
Jouvet, ad accostarsi meno al ruolo di acteur e più a quello di comédien
– operando «per penetrazione e insinuazione […] per evitare i luoghi comuni di
quel teatro francese che ripete se stesso secondo formule desuete» (p. 18).
Luceri, pertanto, individua quattro momenti della recitazione
di Piccoli, analizzandone gli stilemi in base a temi e periodi. Tra la fine
degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, la sua figura attoriale matura sul
grande schermo da French cancan (Jean Renoir, 1955) a Lo
spione (Jean-Pierre Melville, 1962). Laddove nel primo è «visibile
la dimensione angusta in cui al cinema è relegato un attore già trentenne» (p.
25), nel film di Melville la sua recitazione produce una sensazione di
straniamento, attraverso movimenti minimi che gli permettono di entrare e
uscire continuamente dal personaggio. Questo, difatti, viene considerato da
Luceri come linizio dellevoluzione nelle sue potenzialità di espressione, che
consentono a Piccoli di sviluppare, nei due decenni successivi, uno stile
sempre più declinato secondo il principio della stilizzazione e finalizzato allo
straniamento.
Nel secondo periodo è dominante la figura «del maschio in
crisi, che si ritrova, suo malgrado, a sperimentare la propria inettitudine di
fronte al protagonismo dei personaggi femminili» (p. 12). Mentre il realismo e
l“attore moderno” vanno assumendo maggiore importanza, linterscambiabilità
tra attore e personaggio diventa lunico modo per trasmettere il senso del
reale e la corporeità diviene il fulcro sul quale si innestano le crisi del
personaggio maschile, diventando visibili. Piccoli squarcia la mimesis
in unepitome di lungometraggi che ruotano attorno a precise figure femminili
(interpretate da Brigitte Bardot, Catherine Deneuve e Romy
Schneider), e in particolare ne La Chamade (Alain Cavalier,
1968) lo fa con «la voce leggermente cantilenante, luso di una o più oggetti
di scena, una gestualità ripetitiva, […] ma soprattutto linterruzione della
battuta con un sorriso inaspettato e inconsueto, totalmente inappropriato allo
stato emotivo che dovrebbe esprimere il personaggio» (p. 50).
Tra gli anni Sessanta e Settanta, Piccoli interpreta
personaggi isolati e imprigionati nella ripetizione meccanica di azioni e
gestualità vuote, tra le quali il suo emblematico sorriso è probabilmente
quella principale e meglio identificabile. Luceri guarda alluomo inetto e spaesato,
in cui i tratti dellinterpretazione «intesa come esperienza, come superamento
di sé, come spinta alla discontinuità» (p. 66) si cristallizzano su personaggi
dotati di corporalità, scatologici, e la sua recitazione si concentra
esclusivamente sulla dimensione materiale e tangibile, cosa che accade in
particolare in Grandezza naturale (Luis Garcìa Berlanga, 1974).
Nellultima parte della sua carriera, la rinnovata
esperienza in ambito teatrale trasmette a Piccoli gli stimoli per dedicarsi con
una nuova creatività al cinema. Se negli anni Ottanta, infatti, si riscontra
una reiterazione delle stesse caratteristiche recitative che lo hanno
contraddistinto in precedenza, il teatro gli consente di ritrovare nella
recitazione una frontiera che ha al centro sempre la corporeità, ma che ora è
quella di un «corpo che invecchia, che si muove non più soltanto dentro uno
spazio, ma anche dentro un tempo confuso, inafferrabile e spesso indecifrabile»
(p. 98). La presenza fantasmatica e il dialogo con un tempo “altro”
intervengono in molti film di questo ultimo periodo, in particolare Ritorno
a casa (Manoel De Olveira, 2001) e Habemus papam (Nanni
Moretti, 2011), nei quali, messi in dialogo tra loro, il concetto del
ritirarsi assume un ruolo cruciale e «diventa latto irrinunciabile per tentare
di accogliere dentro di sé tutta la possibile pluralità del reale» (p. 117).
di Davide Bianchi
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