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Marcel Marceau

Histoire de ma vie. De 1923 jusqu’en 1952


Arles, Actes Sud, 2023, 264 pp., euro 39,90
ISBN 978-2-330-17579-5
Marcel Mangel, nato a Strasbourg nel 1923 e morto a Cahors nel 2007, prese il nome d’arte Marcel Marceau con il quale fu riconosciuto e acclamato nel mondo, esempio straordinario di creatore e interprete della pantomima contemporanea. La storia della sua vita, ora pubblicata a cura delle figlie Camille e Aurélia, copre una parte soltanto della sua esistenza e della sua carriera. Si tratta d’uno scritto autobiografico, a tratti diaristico e in prima persona, interrotto nel 1952 e mai ulteriormente aggiornato, se pure riveduto e annotato nel manoscritto dall’autore. In mancanza di dichiarazioni sulla scelta, è logico pensare che l’artista, dai primi successi internazionali, conquistati con un’attività intensa e incessante, abbia preferito dedicarsi all’opera che sola gli avrebbe assicurato la memoria e la fama.

I documenti, assemblati e commentati dalle affettuose e sensibili curatrici, riescono a ricreare il clima nel quale si svolsero quegli eventi dalle conseguenze decisive. Contribuiscono a rintracciare il carattere e la personalità di Marceau, bene armonizzati, per rendere meglio valutabili lo stile e la sostanza della sua vasta e straordinaria opera inventiva. Il racconto parte dal punto di vista del bambino che rifletteva, oltre che sul suo vissuto familiare, su eventi anche lontani nella storia, notandone i contrasti e le incongruenze. Mentre s’accorge del suo mutare di giorno in giorno e si pone le grandi domande senza risposta, rileva come «dans le cerveau d’un enfant de quatorze ans à la recherche des faits, les idées se battaient tumultueusement» (p. 42). Forse la percezione della peculiarità ebrea identitaria della sua famiglia acuisce il bisogno di interpretare istanze religiose latenti e il senso dei grandi sommovimenti, passati e presenti, con sensibilità insolita per l’età, se nelle sue rêveries appaiono le figure di Dio, di Abramo e di Cristo. Confessa: «Dans mon âme de quinze ans, je sentais confusement qu’avant d’apprendre à mourir il fallait apprendre à vivre» (p. 43). Verrà poi il silenzio, anche in funzione estetica, come atteggiamento di partecipazione alla tragedia che gli imporrà l’olocausto con la deportazione e il sacrificio di suo padre.

In guerra, nella Francia ormai occupata, nel 1942 Marcel si rifugia con la famiglia a Limoges, dove studia recitazione e arti figurative. Là asseconda la passione per l’imitazione degli attori del cinema muto, Charlie Chaplin e Buster Keaton, presi a modello per le prime performances. Il fratello Alain lo coinvolge nella Resistenza: «Il me dit alors qu’il s’agissait de se rendre utile» (p. 58) e lui, membro d’un gruppo scouts che anima rappresentazioni teatrali, aderisce alla lotta partigiana per un’esigenza morale profonda. «Mes deux existences se disputaient le temps: l’une pleine de rêves […] un métier qui serait mon avenir; l’autre pleine de réalité, semée d’inquiétudes et d’embûches» (p. 62). Intanto, mentre studia e recita, riflette sulla storia del teatro, nella quale sa distinguere le figure dei maestri, siano precursori come Jacques Copeau, siano artisti proiettati nel futuro, quali i registi del Cartel.

Il talento imitativo e spontaneo di Marcel, applicato istintivamente ai gesti della vita comune, già formula giudizi lucidi ed esigenti sul discrimine fra le discipline della recitazione e della pantomima. Fra le vocazioni a cui s’accosta e partecipa, grazie alle diverse personalità frequentate, appare appunto singolare la scelta radicale del proprio mezzo espressivo, il mimo assunto a ideale assoluto. Il 1947 lo vede così impegnato contemporaneamente in Le Procès di Kafka e Barrault, in un episodio della sua creatura, Bip, e in uno spettacolo dimostrativo di Étienne Decroux, alla presenza di Gordon Craig. Sarà allievo assiduo di Charles Dullin e di Decroux, oltre che fedele interprete delle messe in scena di Barrault (che gli offre il debutto da professionista), esordiente con la propria troupe al Théâtre Marigny. Il grande pedagogo di mimo, da cui apprende i principi della statuaire mobile, viene descritto nei dettagli, soprattutto del portamento e del contatto personale. Quando gli presentava il saggio d’ingresso alla Scuola e il suo Assassin era accolto con un lusinghiero «votre numéro est noble; vous avez le sens du drame» (p. 89), il principiante sprizzava gioia e gratitudine: «Les mots de Decroux me berçaient comme un baume» (p. 90). Peccato che la libera maturazione di Marcel non trovasse in seguito uguale rispondenza nel sentimento e nel gusto del maestro che gli scrisse: «Vous avez créé le besoin du mimodrame en dehors de chez moi. En ne revenant plus à l’école, vous me rendriez un grand service» (p. 182). Ma l’artista ormai cosciente del valore del suo Je suis mort avant l’aube (1947), come Barrault interprete di La Faim (1939), si sentiva in grado di spiccare autonomo il suo volo. L’ispirazione per quel mimodramma complesso, a più personaggi, con maschere e scenografia, gli veniva dall’esistenzialismo kafkiano: «Était-ce une fuite devant la réalité, un besoin de me retrouver dans un monde clos, morbide, peuplé d’un monde de fantômes» (p. 180). Un clima amichevole e produttivo s’era del resto stabilito con l’attore e regista (anch’egli tanto dotato corporalmente, addestrato e mimicamente espressivo), che gli affidò numerosi ruoli da comprimario, da Baptiste (Prévert) e Les Fausses confidences (Marivaux) a Le procès (Kafka-Gide-Barrault), La Fontaine de Jouvence (Kochno e Auric) e, diretto da Jouvet, Les Fourberies de Scapin.

Quella fine degli anni 1940 segnò anche la nascita del personaggio Bip, tipico dell’autore che lo sente così: «Bip reste au-delà des races, des nationalités, des préjugés, un frère silencieux pour tous les êtres […]. Bip jettera son cri silencieux en pensant à tous ses amis qui l’ont précédé dans l’art du silence» (p. 229). D’ora in poi con la propria Compagnia, rappresenta gli Exercices de style (dal 1944) a cui s’affiancano le varianti delle Pantomimes de Bip (dal 1947), stilizzate e rarefatte, figurate da un Pierrot tradizionale (maschera imbiancata, gilet e fiore rosso al cappello), di sincera e disarmante leggerezza poetica. Il suo repertorio costituirà così la base d’uno spettacolo in continua evoluzione e rinnovato in infinite varianti nelle ripetute tournées internazionali. Fra gli esempi, Le Desœuvré (1947), Bip chasse le papillon (1951), dal virtuosismo scaturito dalle mani; Le Manteau (1951), opera tratta da Gogol che consentì all’interprete di sfruttare la legge del teatro, «qui consiste à s’éloigner de la vérité pour suggérer la profondeur et l’idée d’un symbole» (p. 200) e di cui viene riportato il soggetto completo. Nel novero di altri incontri importanti, Jacques Noël (scenografo fedele), Roger Blin (attore e regista), Éliane Guyon (attrice, mimo e marionettista), Gilles Segal (compagno di palcoscenico), Anne Sicco, sua terza moglie, co-autrice, regista e insegnante; e Gianfranco De Bosio, fra i primi estimatori italiani. Anche l’esigenza pedagogica trovò applicazione in una scuola di mimodramma, aperta nel 1978 e gestita con alterni esiti fino al 2005. 

Inserite nel testo a tutta pagina, le illustrazioni testimoniano dei fatti rievocati con immediatezza e funzionalità. I documenti originali, manoscritti, disegni e fotografie, coprono soltanto il periodo biografato. La ricchezza inventiva e produttiva del mezzo secolo seguente risulta tuttavia dalle appendici, precedute da una minuziosa ed esauriente Cronologia, atta a ricostruire e dar senso all’eccezionale carriera. Vicenda che in Italia attende di essere studiata più a fondo, nel superamento d’una conoscenza finora superficiale e affidata all’aneddotica.

di Gianni Poli


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