La Comédie-Française, sorta come
associazione fra attori, ha mantenuto autonomia gestionale e artistica lungo
una tradizione piuttosto rigorosa. Negli anni Trenta del XX secolo ha
manifestato una crisi aggravata alla quale ha risposto con una riforma
efficace, partita dallaffidamento della messa in scena a registi non
appartenenti allistituzione. La scelta segnava una svolta irreversibile sui
metodi di lavoro, sugli obiettivi estetici e sui risultati di comunicazione e
di ricezione presso il pubblico coinvolto. Lulteriore apertura a collaboratori
artistici non francesi completerà unoperazione della quale possiamo oggi
misurare meglio gli effetti. Odette Aslan offre il risultato duna ricerca pluriennale,
fondata sui materiali molteplici e integrati degli archivi del Français e sulla
storiografia accumulata da almeno due secoli. Linsieme viene elaborato secondo
metodologie sperimentate dagli anni Sessanta del
Novecento presso il C.N.R.S. Si aggiungono aspetti organizzativi e gestionali,
illustrati da statistiche su frequenze, preferenze e comportamenti del
pubblico. Non dunque una storia aggiornata della Maison di Molière, ma
unindagine sullapplicazione sistematica della messa in scena quale direttrice
decisiva presso quel centro privilegiato di elaborazione e di produzione
teatrale. La congiuntura allorigine della situazione di partenza è così
sintetizzata: «À force de se contenter de routines usées, interprétations
conventionnelles, dans de vieux décors, la médiocrité des représentations
entraîna le désintérêt du public et leffrondrement des recettes» (p.
14). Il volume è diviso in due parti, dedicata la prima ai registi «venus du théâtre
privé», poi quella dei registi «venus dailleurs» (stranieri dorigine).
Laccoglienza di artisti esterni al Français
avvia un rinnovamento il cui effetto è sottolineato con soddisfazione da Denis
Podalydès, sociétaire eminente: «Rien nest plus beau quune troupe
constituée qui soffre à ce qui la perturbe, se laisse ôter ses certitudes et
ses acquis artistiques, se voit proposer dautres techniques, accepte de
changer son regard, son rythme, et puisse accoster à dautres rivages,
découvrir à lintérieur même de son théâtre la scène étrangère, le théâtre du
monde» (p. 9). Il nuovo corso si inaugurava nel
1936, con la nomina ad amministratore di Edouard
Bourdet e la convocazione a collaborare di Copeau, Jouvet, Dullin e Baty. In
apertura della rassegna si recita Le Misanthrope, con regia del patron del Vieux-Colombier. Lapporto originale
dei nuovi responsabili proveniva anche dalle esperienze maturate nei teatri del
loro Cartel, che in quella prima stagione serano espresse nelle creazioni di LÉcole
des femmes (regia di Jouvet) e di Les Caprices de Marianne (regia di
Baty), esempi di classici rivitalizzati (oltre che “spolverati”) con grande
successo. Nel ricostruire quegli eventi, Aslan offre dettagli strutturali e
interpretativi succinti, ma significativi, specialmente dellevoluzione riscontrata
nel trattare ciascuna opera. Così debutteranno François Mauriac con Asmodée
(1937), Roger Martin du Gard con Le Testament du père Leleu (1938) e la
regia di Copeau, che vi affiancherà La Surprise de lamour di Marivaux
(1938). Louis Jouvet curerà la messa in scena di Tricolore di Pierre
Lestringuez e di Le Cantique des cantiques di Jean Giraudoux (1939). Charles
Dullin chiuderà con Le mariage de Figaro di Beaumarchais, nel 1939.
Lautrice approfitta della particolare mobilitazione della critica per misurarne
la varietà e comporre un quadro del suo intervento, “militante” e vivacemente
polemico: «Lopération du Cartel a été importante» (p. 96), sottolinea,
osservandone gli effetti sulla memoria di un pubblico molto attento e reattivo. Nella trattazione del secondo
periodo, ampliato nel tempo (dal 1972 ad oggi), lo stesso criterio esplicativo
viene applicato a una parte soltanto delle rappresentazioni. Al momento in cui
alcuni francesi (Jean Mercure, Raymond Gérôme, André Barsacq, Jean-Marie
Serreau, Antoine Bourseiller) entrano ad affiancare i membri sociétaires,
segue lapertura ad artisti di nazionalità disparate. Con nitida reviviscenza,
la storica ricompone episodi di grande interesse che riconfermano la regia
nella sua funzione crescente a livello mondiale, fino al trapasso secolare.
Testimonianze e riflessioni che consentono un bilancio pressoché esaustivo
duna stagione forse unica per le arti della scena europea. Gli eventi scelti
partono da Richard III di Shakespeare, diretto da Terry Hands (1972) che
torna nel 1977 con Le Cid di Corneille e si chiudono con Electre/Oreste
di Euripide, con regia di Ivo van Hove (2019). Savvicendano allora tante performances
insolite e sorprendenti, grazie a prove dei maggiori creatori. Franco
Zeffirelli rappresenta Lorenzaccio di De Musset (1976), suscitando
confronti con le edizioni di Sarah Bernhardt (1896), Émile Fabre (1927), Gaston
Baty (1945) e Gérard Philipe (1952) per il T.N.P. e infine con la versione di Otomar Krejča (1969,
apprezzata alla Rassegna dei Teatri Stabili di Firenze, 1971). Nello studio
della regia di Giorgio Strehler per la goldoniana Trilogie de la
villégiature (1978), la ricercatrice può valersi della sua partecipazione
alle prove e sfruttare note e interviste raccolte presso i protagonisti. Il vaglio delle numerose recensioni
accoglie anche quelle ostili o insoddisfatte (di J.-J. Gautier, P. Marcabru) e
degli inviati italiani inseriti nel coro sfumato dei consensi. Ne risulta un
saggio che, a distanza di tanto tempo, riattualizza lemozione e identifica la
sostanza dellevento per laderenza alloperazione scenica e agli obiettivi
funzionali ed estetici del maestro italiano. Dario
Fo, chiamato da Antoine Vitez nel 1990, si cimenta con Molière di Le Médécin
malgré lui e Le Médécin volant. Per il fatto di alludere allarte
dellArlecchino di Biancolelli, al regista viene attribuita litalianizzazione
del sommo drammaturgo francese. Le musiche erano di Fiorenzo Carpi. «[Il]
demande à la fois de la folie et de la précision», spiegava Richard Fontana,
interprete di Sganarelle. «Il y a longtemps que Molière navait soulevé autant
de rire en sa maison» (p. 219), segnala la recensione di Philippe Tesson. Gli allestimenti di Molière sono
osservati e giudicati in rapporto alle tendenze interpretative tipiche delle
sensibilità straniere implicate, per distinguerli dal gusto francese. Si
accostano così opere molièresques negli allestimenti di LAvare
di Andreï Serban (2000), Le Malade imaginaire (Claude Stratz, 2001), Amphitryon
(Anatoli Vassiliev, 2002), Tartuffe (Galin Stoev, 2014). La risposta di Robert
Wilson allinvito è singolare per la creazione ispirata alle Fables de La
Fontaine (2004), caratterizzata da brani musicali di Lully e da fantasiose
maschere per gli animali. Altri classici, non solo francesi, risaltano in
Bérénice di Racine, regia di Klaus Michael Grüber (1984) e nel lavoro di Stoev
(2011) su Le Jeu de lamour et du hasard di Marivaux (2011). I tragici
greci sono riletti da Ivo van Hove (2019) con «une mise en scène sauvage et
tribale. [...] Un opéra tellurique» (p. 189). I testi di Shakespeare godono di
interpretazioni audaci e nuove traduzioni, come La Nuit des Rois,
diretto da Thomas Ostermeier (2018). Partecipa Luca Ronconi con Le Marchand
de Venise ou Le juif de Venise (1987), seguito da Andreï Serban (2002) con
lo stesso titolo. Strehler, che aveva esibito le creazioni del Piccolo milanese
allOdéon, Théâtre de lEurope, vi rappresentava La Grande Magie,
traduzione di Eduardo De Filippo della Tempête shakespeariana (1987). Dan
Jemmett la introduceva nella Salle Richelieu (2009) partendo dal
ritmo di vaudeville e finendo in un clima di poesia.
Éric Ruf riafferma il diritto di continuare a “provare”,
nella Casa nata per comporre un repertorio e consolidarne la tradizione. Ai
Comédiens-Français, «de plus en plus demandeurs de metteurs en scène
étrangers», Aslan auspica di restare «toujours avides de nouvelles aventures,
si périlleuses soient-elles, toujours décidés à se surpasser» (p. 303).
di Gianni Poli
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