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Odette Aslan

La Comédie-Française et les metteurs en scène
De Copeau, Jouvet... à Bob Wilson, Ostermeier... (Préface de Denis Podalydès)

Montpellier, Presses Universitaires de la Méditerranée, 2023, 332 pp., 35,00 euro.
ISBN 978-2-36781-465-0

La Comédie-Française, sorta come associazione fra attori, ha mantenuto autonomia gestionale e artistica lungo una tradizione piuttosto rigorosa. Negli anni Trenta del XX secolo ha manifestato una crisi aggravata alla quale ha risposto con una riforma efficace, partita dall’affidamento della messa in scena a registi non appartenenti all’istituzione. La scelta segnava una svolta irreversibile sui metodi di lavoro, sugli obiettivi estetici e sui risultati di comunicazione e di ricezione presso il pubblico coinvolto. L’ulteriore apertura a collaboratori artistici non francesi completerà un’operazione della quale possiamo oggi misurare meglio gli effetti.

Odette Aslan offre il risultato d’una ricerca pluriennale, fondata sui materiali molteplici e integrati degli archivi del Français e sulla storiografia accumulata da almeno due secoli. L’insieme viene elaborato secondo metodologie sperimentate dagli anni Sessanta del Novecento presso il C.N.R.S. Si aggiungono aspetti organizzativi e gestionali, illustrati da statistiche su frequenze, preferenze e comportamenti del pubblico. Non dunque una storia aggiornata della Maison di Molière, ma un’indagine sull’applicazione sistematica della messa in scena quale direttrice decisiva presso quel centro privilegiato di elaborazione e di produzione teatrale. La congiuntura all’origine della situazione di partenza è così sintetizzata: «À force de se contenter de routines usées, interprétations conventionnelles, dans de vieux décors, la médiocrité des représentations entraîna le désintérêt du public et l’effrondrement des recettes» (p. 14).  

Il volume è diviso in due parti, dedicata la prima ai registi «venus du théâtre privé», poi quella dei registi «venus d’ailleurs» (stranieri d’origine). L’accoglienza di artisti esterni al Français avvia un rinnovamento il cui effetto è sottolineato con soddisfazione da Denis Podalydès, sociétaire eminente: «Rien n’est plus beau qu’une troupe constituée qui s’offre à ce qui la perturbe, se laisse ôter ses certitudes et ses acquis artistiques, se voit proposer d’autres techniques, accepte de changer son regard, son rythme, et puisse accoster à d’autres rivages, découvrir à l’intérieur même de son théâtre la scène étrangère, le théâtre du monde» (p. 9). 

Il nuovo corso si inaugurava nel 1936, con la nomina ad amministratore di Edouard Bourdet e la convocazione a collaborare di Copeau, Jouvet, Dullin e Baty. In apertura della rassegna si recita Le Misanthrope, con regia del patron del Vieux-Colombier. L’apporto originale dei nuovi responsabili proveniva anche dalle esperienze maturate nei teatri del loro Cartel, che in quella prima stagione s’erano espresse nelle creazioni di L’École des femmes (regia di Jouvet) e di Les Caprices de Marianne (regia di Baty), esempi di classici rivitalizzati (oltre che “spolverati”) con grande successo. Nel ricostruire quegli eventi, Aslan offre dettagli strutturali e interpretativi succinti, ma significativi, specialmente dell’evoluzione riscontrata nel trattare ciascuna opera. Così debutteranno François Mauriac con Asmodée (1937), Roger Martin du Gard con Le Testament du père Leleu (1938) e la regia di Copeau, che vi affiancherà La Surprise de l’amour di Marivaux (1938). Louis Jouvet curerà la messa in scena di Tricolore di Pierre Lestringuez e di Le Cantique des cantiques di Jean Giraudoux (1939). Charles Dullin chiuderà con Le mariage de Figaro di Beaumarchais, nel 1939. L’autrice approfitta della particolare mobilitazione della critica per misurarne la varietà e comporre un quadro del suo intervento, “militante” e vivacemente polemico: «L’opération du Cartel a été importante» (p. 96), sottolinea, osservandone gli effetti sulla memoria di un pubblico molto attento e reattivo.

Nella trattazione del secondo periodo, ampliato nel tempo (dal 1972 ad oggi), lo stesso criterio esplicativo viene applicato a una parte soltanto delle rappresentazioni. Al momento in cui alcuni francesi (Jean Mercure, Raymond Gérôme, André Barsacq, Jean-Marie Serreau, Antoine Bourseiller) entrano ad affiancare i membri sociétaires, segue l’apertura ad artisti di nazionalità disparate. Con nitida reviviscenza, la storica ricompone episodi di grande interesse che riconfermano la regia nella sua funzione crescente a livello mondiale, fino al trapasso secolare. Testimonianze e riflessioni che consentono un bilancio pressoché esaustivo d’una stagione forse unica per le arti della scena europea. Gli eventi scelti partono da Richard III di Shakespeare, diretto da Terry Hands (1972) che torna nel 1977 con Le Cid di Corneille e si chiudono con Electre/Oreste di Euripide, con regia di Ivo van Hove (2019). S’avvicendano allora tante performances insolite e sorprendenti, grazie a prove dei maggiori creatori. Franco Zeffirelli rappresenta Lorenzaccio di De Musset (1976), suscitando confronti con le edizioni di Sarah Bernhardt (1896), Émile Fabre (1927), Gaston Baty (1945) e Gérard Philipe (1952) per il T.N.P. e infine con la versione di Otomar Krejča (1969, apprezzata alla Rassegna dei Teatri Stabili di Firenze, 1971). Nello studio della regia di Giorgio Strehler per la goldoniana Trilogie de la villégiature (1978), la ricercatrice può valersi della sua partecipazione alle prove e sfruttare note e interviste raccolte presso i protagonisti.

Il vaglio delle numerose recensioni accoglie anche quelle ostili o insoddisfatte (di J.-J. Gautier, P. Marcabru) e degli inviati italiani inseriti nel coro sfumato dei consensi. Ne risulta un saggio che, a distanza di tanto tempo, riattualizza l’emozione e identifica la sostanza dell’evento per l’aderenza all’operazione scenica e agli obiettivi funzionali ed estetici del maestro italiano. Dario Fo, chiamato da Antoine Vitez nel 1990, si cimenta con Molière di Le Médécin malgré lui e Le Médécin volant. Per il fatto di alludere all’arte dell’Arlecchino di Biancolelli, al regista viene attribuita l’italianizzazione del sommo drammaturgo francese. Le musiche erano di Fiorenzo Carpi. «[Il] demande à la fois de la folie et de la précision», spiegava Richard Fontana, interprete di Sganarelle. «Il y a longtemps que Molière n’avait soulevé autant de rire en sa maison» (p. 219), segnala la recensione di Philippe Tesson

Gli allestimenti di Molière sono osservati e giudicati in rapporto alle tendenze interpretative tipiche delle sensibilità straniere implicate, per distinguerli dal gusto francese. Si accostano così opere molièresques negli allestimenti di L’Avare di Andreï Serban (2000), Le Malade imaginaire (Claude Stratz, 2001), Amphitryon (Anatoli Vassiliev, 2002), Tartuffe (Galin Stoev, 2014). La risposta di Robert Wilson all’invito è singolare per la creazione ispirata alle Fables de La Fontaine (2004), caratterizzata da brani musicali di Lully e da fantasiose maschere per gli animali. Altri classici, non solo francesi, risaltano in Bérénice di Racine, regia di Klaus Michael Grüber (1984) e nel lavoro di Stoev (2011) su Le Jeu de l’amour et du hasard di Marivaux (2011). I tragici greci sono riletti da Ivo van Hove (2019) con «une mise en scène sauvage et tribale. [...] Un opéra tellurique» (p. 189). I testi di Shakespeare godono di interpretazioni audaci e nuove traduzioni, come La Nuit des Rois, diretto da Thomas Ostermeier (2018). Partecipa Luca Ronconi con Le Marchand de Venise ou Le juif de Venise (1987), seguito da Andreï Serban (2002) con lo stesso titolo. Strehler, che aveva esibito le creazioni del Piccolo milanese all’Odéon, Théâtre de l’Europe, vi rappresentava La Grande Magie, traduzione di Eduardo De Filippo della Tempête shakespeariana (1987). Dan Jemmett la introduceva nella Salle Richelieu (2009) partendo dal ritmo di vaudeville e finendo in un clima di poesia.

Éric Ruf riafferma il diritto di continuare a “provare”, nella Casa nata per comporre un repertorio e consolidarne la tradizione. Ai Comédiens-Français, «de plus en plus demandeurs de metteurs en scène étrangers», Aslan auspica di restare «toujours avides de nouvelles aventures, si périlleuses soient-elles, toujours décidés à se surpasser» (p. 303).


di Gianni Poli


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