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Gianni Cicali

Teatro ed eresia nel Settecento italiano


Roma, Bulzoni Editore, 2021, 358 pp., 26,00 euro
ISBN 978-88-6897-231-8

«Cosa hanno in comune, nel Settecento italiano, un notaio napoletano, due massoni fiorentini e un monaco olivetano dell’Emilia-Romagna? La risposta è: il teatro» (p. 13). Così Gianni Cicali introduce il suo lavoro sul teatro del secolo dei Lumi, indagato attraverso i profili e le opere di quattro drammaturghi di diversa estrazione socio-culturale, coinvolti a vario livello con l’eresia e la censura ecclesiastica. Pubblicato all’interno della collana “Biblioteca teatrale” diretta da Ferruccio Marotti, il volume è organizzato in tre corposi capitoli, con una ricca appendice documentaria a corredo, e rilegge, nella prospettiva della blasfemia e dello scandalo, la produzione drammatica del notaio partenopeo Pietro Trinchera (1702-1755), dei massoni toscani Tommaso Crudeli (1702-1745) e Giulio Rucellai (1702-1778) e del frate emiliano Francesco Ringhieri (1721-1787), in rapporto sia con il rigorismo cattolico e il fanatismo teologico, sia con il progressivo riformismo, politico-culturale, che caratterizzarono l’epoca.

Trinchera scrisse soprattutto opere buffe e commedie dialettali in napoletano, come La moneca fauza (1726), dove spesso tratteggiò ironicamente personaggi di notai, finti frati e finte suore gaudenti insieme a molti caratteri popolari, di cui era solito prendere le difese; nella sua carriera incappò in problemi con la giustizia ecclesiastica per il libretto La tavernola abentorosa (1741), giudicato riprovevole e immorale. Crudeli e Rucellai, scomunicati da ben due papi in quanto eretici-massoni, meditarono sul teatro con riflessioni moderne, premonitrici delle teorizzazioni goldoniane: il primo lo fece nell’originale prologo a Il superbo (1745-1746), versione italiana del Glorieux del commediografo francese Philippe Néricault Destouches (1680-1754); il secondo nella lunga prefazione alla sua pièce più significativa, Il tamburo (1750), altro riadattamento di una commedia di Destouches. Alcuni anni più tardi Ringhieri, lettore di teologia ma anche tragediografo di grido, pubblicò il suo pensiero sull’arte scenica nel Ragionamento proemiale e apologetico intorno ai teatri (1775), un’opera ritenuta scandalosa dall’ortodossia cattolica, tra l’altro, per la difesa della partecipazione dei religiosi come attori in commedie e tragedie nei collegi e nei conventi.

Il primo capitolo è dedicato alle traduzioni in italiano delle commedie di Destouches nell’ambiente massonico fiorentino, di cui furono protagonisti Crudeli e Rucellai: una pratica letteraria legata all’Arcadia e all’editoria teatrale anglo-francese, anticipatrice di un clima favorevole alla “riforma” del teatro comico promossa esattamente alla metà del secolo da Carlo Goldoni (1707-1793). Il celebre drammaturgo veneziano, da avvocato, sarebbe infatti entrato in contatto con lo spirito riformista, illuminato e anticlericale del cosmopolitismo arcadico-massonico toscano durante un soggiorno nel Granducato (tra il 1744 e il 1748), grazie alla frequentazione di intellettuali, religiosi e professionisti (politici, avvocati, medici), fra i quali, appunto, gli eruditi Crudeli e Rucellai, con cui condivise sia l’interesse per le istanze estetico-teatrali riformate dei prodotti francesi, sia la proposta culturale di svincolare la prosa nostrana dalle ingerenze teologiche e religiose. In questa temperie di rinnovamento «si sviluppò una ricezione e una condivisa necessità (tra alcuni intellettuali delle classi privilegiate) di una riforma del teatro italiano comico che consentì a Goldoni di trovare il sostegno per la sua riforma ma anche arrivare a una sintesi drammaturgica di un genius loci in cui far attecchire il proprio talento teatrale legato alla profonda e unica conoscenza della scena, all’esperienza e alla frequentazione degli attori e delle attrici, delle alchimie (a volte complicate) dei ruoli» (p. 39).

Il secondo capitolo mette in luce la poliedrica figura del notaio, commediografo, librettista, poeta e impresario Trinchera, riscoprendone la drammaturgia, oltre ai guai giudiziari con la Chiesa e con il fisco, nel contesto vitale ed eterogeneo della scena comico-dialettale, di parola e in musica, del primo Settecento napoletano. Appartenente a una famiglia piccolo borghese del ceto notarile, Trinchera dimostrò una precoce e notevole arte drammaturgica che, col tempo, lo pose ai vertici dei legali-librettisti coevi, su tutti Antonio Palomba (1705-1769). Autore raffinato e colto, nella sua scrittura, contraddistinta da una spiccata ironia civile verso lestofanti profittatori della religione, il “mondo” del teatro trova ampia rappresentanza in virtù di uno speciale rapporto di Trinchera con compositori, interpreti e spettatori, ma anche per il ricorrente e sapiente uso di elementi della Commedia dell’Arte nei libretti per musica. Polemico contro il pedantismo contemporaneo e improntato al realismo, il suo teatro rivitalizzò il personaggio del notaio napoletano, sbeffeggiando l’ambiente notarile e i nuovi nobili, che mise in scena con maestria grazie anche a grandi attori-cantanti, come il buffo Gioacchino Corrado oppure il tenore Simone De Falco. Quella di Trinchera fu «vera pratica teatrale non esercizio teorico, di traduzione, in parte di arrangiamento/adattamento» (p. 102), caratteristica che lo distingue dal circolo dei traduttori arcadi e massoni. Cicali, riordinando criticamente i dati, precisa le motivazioni alla base del suicidio in carcere di Trinchera, che ne ha fomentato la fama postuma di martire-vittima della censura ecclesiastica, erroneamente ricondotte da una parte della storiografia alle persecuzioni patite per la licenziosità della sua produzione melodrammatica, ma in realtà da ricollegare a onerosi debiti economici.

Il terzo capitolo, infine, si concentra sul profilo storico-teatrale del padre olivetano Ringhieri, di famiglia aristocratica imolese, e sulla ricostruzione di alcuni allestimenti di suoi testi attraverso il materiale documentario relativo al teatro del Cocomero di Firenze, con particolare attenzione al citato Ragionamento proemiale e apologetico intorno ai teatri (trascritto integralmente in appendice), che a metà degli anni Settanta del ’700 si inserisce nel dibattito sulla riforma drammaturgica e performativa. Tragediografo di successo, tacciato di eresia per una certa libertà nei confronti delle regole di composizione dei drammi e delle unità aristoteliche, Ringhieri fu fin da giovane attore tragico nei collegi e nei conventi e perciò malvisto dalla corrente “rigorista” cattolica, pervasa da fanatismo antiteatrale, con cui si scontrò ripetutamente nel corso della sua carriera di monaco-drammaturgo-teatrante. I suoi scritti teorici «ci consegnano la figura di un religioso che oltre a essere lettore di teologia era anche coinvolto in polemiche dai toni accesi su tematiche relative al teatro e alla sua difesa» (p. 180), dove si schierò a favore della riforma goldoniana e si proclamò sostenitore dei sovrani illuminati protettori delle arti. Ringhieri compose le sue pièces con una notevole varietà di versi, ispirandosi a temi storico-civili e biblico-religiosi, fino a costruire un repertorio mescidato di opera seria e macchineria di eredità barocca, spesso con intrecci amorosi legati a caratteri femminili, che ottenne grande popolarità sia nei teatri religiosi sia in quelli commerciali, tra i professionisti e nel mercato editoriale italiano del secondo Settecento.

L’approfondita disamina degli excursus artistico-biografici di questi quattro scrittori drammatici fa emergere come essi, da angolazioni diverse, pensassero al destino e al ruolo del teatro insieme alle modalità di composizione e alla riforma della drammaturgia, in anni in cui, nonostante l’illuminismo, permanevano sacche di rigorismo cristiano che influenzarono la vita sociale, confermandosi particolarmente efficaci nel condannare lo status dei mestieranti e nel predicare e sentenziare contro l’arte drammatica. «Cosa e chi è eretico? La diversità e la libertà sessuali e sociali, o la devianza drammaturgica?» (p. 19). Da queste domande ha origine l’esigenza di riscoprire criticamente un capitolo fondamentale della storia del teatro italiano, analizzando, confrontando e contestualizzando i profili e l’operato di alcuni suoi protagonisti più o meno conosciuti, che per le differenti provenienze geografiche ed estrazioni socio-culturali rappresentano un ottimo campione del variegato scenario teatrale settecentesco.

Con un’attenta e articolata analisi di una varia messe di fonti (documenti d’archivio, manoscritti inediti, epistolari, testi e prefazioni, libri di viaggio, gazzette), lette nell’originale e multifocale prospettiva dell’eresia (religiosa, massonica, drammaturgica, teoretica), Cicali fa convergere accurate ricerche precedenti (ricontestualizzate e aggiornate) con indagini nuove e più recenti, restituendo un’ampia e dettagliata panoramica su un secolo di «teatro, rivoluzioni, accademie, conversazioni (riunioni più o meno colte o frivole), scienze, filosofia, colonialismo e sue conseguenze, massoneria e riforme» (p. 15), che costituisce anche una cruciale fase di transizione storica dall’antico al nuovo regime. 



di Andrea Simone


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