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Koffi Kwahulé

Jaz


Montreuil, Éditions Théâtrales, 2023, 48 pp., 9,00 euro
ISBN 978-2-84260-908-5

Nella forma di monologo, la pièce in atto unico del drammaturgo ivoriano esprimeva, nella prima edizione del 1998 e in modo icastico e provocatorio, la potenzialità musicale della lingua poetica dell’autore. La nuova edizione conferma la qualità drammaturgica tipica della strutturazione secondo il ritmo del jazz che lo scrittore ama e predilige quale ispirazione perenne dei suoi testi (cfr. K. Kwahulé-G. Mouëllic, Frères de son. Koffi Kwahulé et le jazz: entretiens, Montreuil-sous-Bois, Éditions Théâtrales, 2007).

Nella sua dizione manchevole, il titolo segnala sia la sua impronta musicale sia, in quanto nome della protagonista, la ferita per la violenza da essa subita. Il dramma promette dunque una ricostituzione identitaria della donna (Jaz) che dialoga con la proiezione di sé stessa e con l’amica Oridé, mentre alimenta una vicenda di analogia sostanziale fra la persona e il creatore della musica presente in scena: «Un jazz (un seul instrument) qui, de temps à autre, troue / est troué, enlace / est enlacé par la voix de la femme» (p. 7). Il personaggio Oridé, «la fille belle à réveiller un mort» (p. 16), muore (nel racconto onirico di Jaz) per una specie di generosa oltranza nel dono di sé. Avendo sempre praticato lo strip-tease quale professione, Oridé lo segnava però d’una ritualità decisamente sacrale, che la rendeva fragilissima all’urto con la sensibilità volgare e quotidiana.

Insofferente al teatro di narrazione all’italiana, l’autore intreccia le varie voci del personaggio mutante con una sofisticata allusività ai suoi “doppi” latenti, alle sue più metaforiche valenze. Poetico difensore della femminilità generatrice – non soltanto materna, ma amante nel senso più unitivo sessualmente – denuncia la diffusa negazione di tale identità ontologica, perpetrata lungo secoli di malintesi rapporti fra i sessi. Così il drammaturgo ha interpretato dall’inizio la violenza contro le donne, come nella tragedia coralmente lirica Bintou (1997, rappresentata a Genova nel 2000) e in Nema (2011).

L’ambientazione, ravvivata dalle notazioni didascaliche visive, ha per sfondo un condominio, in un quartiere cittadino degradato, dove però i luoghi hanno nomi stranamente delicati: place Bleu-de-Chine, bistrot de l’Ange, rue Jaune-d’Œuf, in ulteriore contrasto con la realtà cruda del contesto urbano contemporaneo. Jaz subisce la violenza fors’anche perché ha assunto simbolicamente la bellezza dell’amica: «C’est indécent comme Jaz est belle» (p. 15). Appresta allora la vendetta minuziosa contro lo stupratore, seguendolo nella latrina pubblica a gettone e sparandogli là dove era stata umiliata. I toni da melodramma acquistano tuttavia un lirismo turgido di simbolismi, molti dei quali, nati dalla “africanità” delle origini, trovano complesse dissonanze con l’universo teso alla bellezza e all’energia universale così naturalmente impersonata dalle donne. Talvolta ne risente anche l’impaginazione, che induce la scrittura versificata a compiacersi nel profilare una vaga figura femminile, in cui musica, significati ed emozioni si illustrano tipograficamente: «D’abord / une note / puis une autre [...] pour / arracher le secret du / silence explosant [...] et enfin / rythmer le Nom dont / on ne saura jamais la nommer» (p. 40).

Del drammaturgo, artefice da decenni di un tipico, pregnante metissage fra culture intercontinentali, diverse pièces sono state recensite su questa rivista. È opportuno ricordare che la creazione mondiale di Jaz (in italiano) è avvenuta nel luglio 2000 a Roma, con la regia e l’interpretazione di Daniela Giordano. Si trattò allora di verificare la potenza sconcertante d’una scrittura composta per l’avvenimento scenico e apprezzabile come tale. Oggi alla lettura se ne coglie meglio l’originalità linguistica durevole, nella funzionale novità sia di parola in azione, performativa, sia di partecipazione a un destino comune, che responsabilizza tutti e tutti artisticamente unisce.


di Gianni Poli


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