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Geneviève Winter

Gérard Philipe


Paris, Gallimard-Folio Biographies, 2022, 368 pp., euro 9,99
ISBN 9782072942631

Attore di cinema e di teatro, Gérard Philipe (1922-1959) ha riassunto in sé il divo, l’eroe epico romantico e il raffinato (pure simpatico) intellettuale, capace di rappresentare ideali di impegno civile e d’arte espressiva al massimo livello. La biografa si preoccupa di ricostruire un’immagine di solida storicità, che distingua la persona dalla mitografia facilmente sovrapponibile alla realtà. Si consola del fatto che in Francia, al momento della morte prematura dell’artista già famoso e molto amato, non vi fossero condizioni propizie a mitizzarlo, com’era accaduto per altre figure hollywoodiane. Gli riconosce tuttavia una «épiphanie héroique», per cui, nel compimento del suo destino, «on n’opposera donc pas ici l’acteur et son mythe: on distinguera simplement la relation des faits de la fable mythique qui les nimbe. Le récit suivra le déroulement d’une carrière d’acteur dans son cadre historique, culturel et humain» (p. 15). 

Dall’esperienza di chi lo conobbe, collaboratore e amico, l’autrice trae ricordi soprattutto scritti, per usarli a testimonianza probante sulla vita singolare di un artista sincero che amava esprimersi in comunità e solidarietà. L’ambito famigliare segna la crescita del bambino, orienta i gusti dell’adolescente, in sintonia con il carattere e le inclinazioni materni. La madre lo accompagna a incontri dai quali nascono frequentazioni favorevoli alle scelte artistiche del giovane, curioso e avido di occasioni comunicative. La condizione sociale del padre, Marcel Philip, inserito nel milieu borghese di Grasse, gli permette un’educazione presso la scuola cattolica. 

Frequenta poi Giurisprudenza a Nizza, mentre l’attrazione per lo spettacolo lo avvicina al teatro e soprattutto all’ambiente del cinema che a Cannes ha il suo fiorente centro di formazione e di produzione (base per il Festival internazionale). Là conoscerà il cineasta Marc Allégret, durante l’occupazione tedesca. La partizione della Francia in due a metà secolo condiziona la vita pratica e intellettuale di Gérard, che esordisce comunque nel Sud, scavalcando la situazione di stallo calata sulla capitale, esautorata del suo primato culturale. 

Brevi capitoli scandiscono cronologicamente l’avventura personale in tanti episodi significativi della maturazione e dell’affermazione di un talento intraprendente. Ne è esempio il provino per la parte di Fantasio, protagonista dell’opera eponima di De Musset, nella quale l’aspirante attore si caratterizza romantico buffone. 

Entra in amicizia con personalità dello spettacolo quali Renoir, Gance, Allégret, Resnais e con Jacques Matarasso, libraio che accoglie artisti in un sodalizio spontaneo ed eterogeneo. Per compiacere la madre, adatta il cognome, da Philip a Philipe. Con Allégret gira i primi film, Les Petites du quai aux fleurs (1944) e La boîte aux rêves (1945). Quando il padre si trasferisce a Parigi, gestore d’albergo grazie a simpatie verso i tedeschi (finirà condannato, in contumacia), lui lo segue per la propria strada. Così otterrà, in Sodome et Gomorrhe (1943) di Giraudoux, il ruolo di un Angelo, recitato a lungo con successo. Eminenze teatrali come Jean Cocteau e Maria Casarès lo lodano e lo sostengono. 

Documenti inediti informano sul suo apprendistato al Conservatorio: incontra difficoltà con gli insegnanti di recitazione classica, ma s’intende con Georges Poulot. La scelta del momento è l’adesione alla Resistenza, facendosi il “portavoce” (cioè megafono) del comandante d’un gruppo operativo. La vocazione attoriale si riconferma alla scuola del nuovo, definitivo maestro, Georges Le Roy. Al Théâtre des Mathurins Gérard trova la grande occasione di interpretare Caligula di Albert Camus: è il passaggio, involontario e significativo, dalla poesia alla tragedia contemporanea. L’autrice recupera le probanti recensioni della “prima”, con la regia di Paul Œtty. Per amnesia, purtroppo ricorrente nella storiografia francese, non rileva la vera creazione mondiale (con la regia di Georges Firmy, alias Giorgio Strehler), avvenuta pochi mesi prima a Ginevra. Ancora per defezione dell’interprete designato, potrà subentrare a Barrault nel film L’idiot (da Dostojevskij, 1946) con regia di Lampin

La biografia avanza decisamente verso la centralità matura della carriera dell’attore, sia cinematografica sia teatrale. L’impegno per la scena, dopo la prova entusiasmante d’esordio al Festival d’Avignon, in Le Cid (1951) consegue un apice difficilmente ripetibile di gradimento e di qualità artistica entro pochi anni di rassegne estive presso il Palais des Papes. Frattanto, con una compagnia ch’è venuta costituendosi attorno al rilanciato Théâtre National Populaire, sostenuto da Jeanne Laurent e affidato a Jean Vilar nell’estate 1951, lo spazio, ribattezzato, del Théâtre de Chaillot si prepara ad accogliere le creazioni avignonesi. 

Molte pagine sono dedicate alla frequentazione di Philipe, tramite Vilar, degli autori contemporanei. Il progettato ampliamento del repertorio, più volte ripreso, incontra difficoltà e di programmazione e di scelta drammaturgica, fino a doverne registrare lo scacco. Anche in tal caso, Winter produce documenti sfuggiti a precedenti indagini su Vilar e sul suo teatro, sull’esigenza frustrata d’un “repertorio” nuovo, degno della fama che il Théâtre National Populaire s’era conquistato con i classici. Speciale risalto tocca allora alla regia di Lorenzaccio di De Musset, che Philipe assume per la malattia improvvisa di Vilar. Bella e in parte non vulgata, l’operazione di confluenza delle due visioni estetiche, nelle quali sensibilità dell’interprete protagonista e direzione impressa dal patron (con l’adattamento del testo) si completano nel successo d’una rappresentazione fuori della tradizione francese precedente, che aveva preferito una donna nel ruolo di Lorenzo de’ Medici: «Gérard Philipe redonne à Lorenzo sa pleine dimension metaphysique et politique» (p. 198). I colleghi coinvolti testimoniano il contributo del regista occasionale alla valorizzazione dell’autonomia personale di ciascun collaboratore. 

Nella durata d’una vita troppo breve, spicca la concentrazione dell’impegno sia nel cinema sia nel teatro, che il suo rapporto con Vilar riesce ad ampliare. I ruoli ricoperti in tante rappresentazioni-modello, da Le Prince de Hombourg a Le Cid (1950-1951), dagli esiti prestigiosi, suscitano entusiasmo con Lorenzaccio, Richard II e Ruy Blas. Nel periodo definito “épopée populaire, héroisme civique (1951-1952)”, le troupes pubbliche e private gli rendono merito per essersi posto «aux service des acteurs et de leur métier» (p. 173). Il favore degli spettatori è avvalorato dai giudizi critici, suffraganti la qualità delle rappresentazioni. Le creazioni di opere di De Musset dimostrano infine la dedizione al drammaturgo amato del dittico Les caprices de Marianne e On ne badine pas avec l’amour, nei quali senso poetico e intima sensibilità si commisurano all’autentica natura dell’interprete. 

In politica, la scelta del Partito comunista si compie in sodalizio con Yves Montand e con Claude Roy, pentito dopo una fase collaborazionista. Le posizioni sono motivate sia come superamento degli errori paterni, sia come risarcimento civile. La gravità della malattia, taciutagli dalla moglie, è pietosa reticenza che gli prolunga forse il sogno di potere interpretare Amleto. 

Quel héritage? (1960-2022) traccia un tentativo di bilancio che compendi la portata di uno sforzo civile e di un apporto artistico fusi e concordi. Per la considerazione privilegiata in cui lo teneva Vilar, era palese che Philipe potesse succedergli alla direzione del Théâtre National Populaire quale erede naturale. Il destino impedì la successione auspicata. Nel ripercorrere la storiografia postuma, l’autrice accredita all’artista i molti meriti emersi da ricordi e pubblicazioni. Fra essi, segnala l’antologia discografica (registrata con Maria Casarès), Les plus beaux poèmes de la langue française (Disques Festival, 1959).



di Gianni Poli


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