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Émeline Jouve

Paradise Now en paradis. Une histoire du Living Theatre à Avignon et après (1968-2018)


Paris, Classiques Garnier, 2022, 332 pp., 35,00 euro
ISBN 978-2-406-13816-7

L’ambito temporale del saggio va dal 1968 al 2018, per una riflessione scaturita sia dalle manifestazioni in memoria degli eventi del maggio ’68, sia dal loro prolungamento avignonese nel luglio seguente, quando il Living Theatre presentò la creazione di Paradise Now di Émeline Jouve. Un paragone tra fenomeni artistici e civili analoghi, in differenti condizioni storiche e culturali. 

Pascal Ory inquadra nel Préface il lavoro di scoperta e valorizzazione di documenti inediti dell’autrice, che partecipò ventenne ad Avignone alle prime rappresentazioni del famoso e discusso spettacolo. Il suo libro è programmato come «une étude culturelle et esthétique de l’œuvre emblematique du Living Theatre, considérée dans son contexte de création, celui de la révolutionnaire année 1968» (p. 17) e segue un metodo basato su archivi e testimonianze dirette di persone presenti. Le varie parti ripercorrono dapprima la storia della compagnia dell’Off-Broadway (Un Théâtre de la marge 1947-1967), caratterizzata dalla ricerca drammaturgica e dal bisogno di un intervento politico radicalmente riformatore. Gli esempi tratti dagli spettacoli ideati e allestiti in quella stagione sono resi più interessanti dall’autenticità delle fonti e dal preciso tracciato della situazione teatrale statunitense, nella quale appaiono i debiti verso l’arte europea. 

Dopo il sintetico excursus chiarificatore, si affronta la gestazione di Paradise Now in rapporto alla polemica che la distingue dalle prime prove. Vengono enunciati gli elementi ispiratori strutturali dell’opera, accanto alle intenzioni programmatiche più provocatorie. Si afferma «le dialogisme entre le personnel et le collectif, le spirituel et le social» (p. 85) quale principio creativo fondamentale, sviluppato nel clima d’una «hétérotopie de crise» (“altro luogo”, secondo Michel Foucault). Tensione ascetica a scopo rigenerativo della persona (lo spettatore, nello specifico) ed elaborazione drammaturgica procedono appaiati negli otto “riti” che compongono la scansione a tappe della conquista di un’azione rivoluzionaria non violenta, ma efficace. 

La progressione degli elementi costitutivi è illustrata nei paragrafi Théâtre sacré: voyage intérieur, Le magico-réligieux: syncrétisme spirituel, Théâtre-performance: au-delà de la mimesis. In essi si specificano i riferimenti all’influenza di Artaud, all’uso delle droghe, al ricorso alla simbologia dei colori. A distanza di tanto tempo, suonano ancora sorprendenti i toni di quelle proposte: «Le canevas structurel de Paradise Now est donc spirituel puisque le spectateur s’éveille à sa propre divinitè par le truchement de différentes croyances et pratiques mystiques» (p. 106). L’esegeta classifica la rappresentazione come performance (pp. 108-116) in base alle figure dell’azione scenica, quali la liberazione sessuale e il denudamento come segno di reazione all’autoritarismo sociale (p. 129). Insomma, la ritualità impiegata come sovversione piuttosto che come consolidamento delle regole comuni. L’analisi prosegue con il vaglio delle differenze di ricezione e di critica, nei tanti passaggi e significati concomitanti, ai quali non tutti gli spettatori risposero con attenzione e intelligenza adeguate. Il capitolo dedicato alla pièce e alla sua rappresentazione termina con il riassunto degli obiettivi e delle attese, anche mancate, degli autori (p. 158). 

In Hétérotipie de déviation si segue la storia della preparazione in Francia dell’evento, a partire dall’incontro del Living con Jean-Louis Barrault direttore del Théâtre de l’Odéon. Si entra decisamente nella cronaca dell’apertura del XXII Festival d’Avignon, introducendo fra i protagonisti Jean Vilar, il sindaco e i vari organi d’informazione. Sebbene già noti e acquisiti ai teatranti e agli storici, gli avvenimenti illustrati assumono una nuova coerenza. Sono presentati come una «Tragédie avignonnaise en trois actes […]. Acte I, ou l’interdiction de la Paillasse aux seins nus; Acte II, ou les représentations de Paradise Now; Acte III, ou l’interdiction de Paradise Now» (pp. 188-202). Soltanto tre recite (23, 24 e 25 luglio) furono date, seguite dalla partenza, per cacciata autoritaria, della troupe il 31 luglio. Il rapido succedersi dei fatti e delle ragioni del contendere, esposte o sottintese dalle parti, concludono il racconto. L’ultimo capitolo, 2018, Des Paradis aujourd’hui, introduce all’occasione commemorativa recente, quando alcuni spettacoli hanno inteso rievocare l’evento storico per misurarne l’attualità e confrontarla con i motivi dell’interesse suscitato allora. Nel mezzo secolo trascorso, l’autrice rileva mutamenti sostanziali, di gusti, di sensibilità e di comportamenti – soprattutto in quelli politici e sociali – sicché ne risalta una distanza spesso incolmabile dall’impressione che ne ebbero i partecipanti storici. 

Nello spettacolo Mai 68. Que sera le théâtre dans 50 ans? di Cyril Cotinaut e Sébastien Davis, due specialisti discutono sul futuro del teatro alla luce di istanze e contraddizioni della loro esperienza e in prospettiva intravedono «théâtres qui veulent changer le monde… mais qui n’y arrivent pas» (p. 272). Più ambiziose imprese si propongono con la trascrizione in francese della creazione collettiva originale, data al Théâtre Nanterre-Amandiers nel maggio 2018 con la regia di Gwenaël Morin. Al centro, la messa in scena dello script di Malina e Beck. «La démarche de Morin consistait […] à guider les comédiens de façon à ce qu’ils fassent ce qui est écrit en matière d’action physique et de parole» (p. 275). 

Ancora una creazione, ma coreografica, Paradise Now (1968-2018) di Michiel Vandevelde, data al Kaaitheatre di Bruxelles nel maggio 2018. L’allievo di Anne Teresa De Keersmaeker, rimasto impressionato in precedenza dall’energia sprigionata dal Living, concepiva la sua azione in due parti: la prima, con andamento a ritroso, riassuntiva di eventi e personaggi apparsi nel mezzo secolo trascorso, della durata di cinquanta minuti; la seconda, svolta dal passato al presente, con accelerazione crescente, della durata di sette minuti. I tredici interpreti furono scelti fra i più giovani per escludere i testimoni dei fatti. La dimensione politica, riconosciuta tipica nell’originale, veniva concentrata sul processo creativo, sentito «comme voyage qui serait initiatique d’abord pour les jeunes danseurs» (p. 281). La descrizione della performance chiarisce efficacemente le condizioni, le pulsioni e gli obiettivi comunicativi, anche in relazione alla partecipazione del pubblico. 

Ancora un saggio, al Théâtre National de Strasbourg, Paradis maintenant. Un spectacle documentaire di Ferdinand Flame e Hugo Soubise, anch’esso causa d’un vivo dibattito, almeno in loco, con autocritiche degli autori sui pericoli di trasmettere una “verità” univoca. La studiosa interviene sui tre esempi maggiori: «Paradise Now peut être considéré comme un pretexte à l’exploration du passé pour parler du présent» (p. 292). Onesta ed equilibrata nella chiusa, fra scandalo e speranza emersi dagli spettacoli, tende a riconoscere loro un effetto-specchio (frutto della hétérotopie citata) e definisce il fenomeno quasi una rifrazione «par le prisme déformant de la subjectivité» (p. 306), tanto di chi lo visse quanto di chi aveva provato a interpretarlo. 

La “storia” del Living così ripercorsa s’alimenta da un’ingente documentazione anglofona, finora mai attraversata e discussa. Per contro, l’osservazione della vicenda in ambito esclusivamente francese trascura fasi e circostanze significative della presenza originale del gruppo in Europa. Sfuggono in particolare eventi italiani, a partire dalla partecipazione alla Biennale di Venezia con Frankenstein, nel 1965, fino alle rappresentazioni di Paradise Now a Torino, Bologna, Prato, Napoli e Roma, nel 1969 e ritorni, dai segni evolutivi come l’Antigone, riproposta nel 1980. Manca la storiografia critica dell’epoca, né compaiono nella ricca Bibliografia i contributi di testimoni e studiosi italiani importanti. La residenza in Italia dal 1999 al 2003 di Judith Malina (morta nel 2015) comporta inoltre una memoria considerevole (raccolta nell’Archivio Morra di Napoli) che non appare e che pure concorre a testimoniare la presenza influente di tanti artisti cosmopoliti in Italia. 

Un libro denso e stimolante, impegnativo sia nell’assimilazione di categorie insolite nel vaglio dell’arte teatrale, sia nella complessità d’articolazione dei documenti e dei criteri interpretativi.


di Gianni Poli


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