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Théâtre/Public, nn. 244/245, juillet-septembre/octobre-décembre 2022


112 pp., euro 16,90; 120 pp., euro 16,90

Il carnevale, vissuto o rappresentato dall’ultima guerra in poi, è il soggetto del Dossier curato da Sacha Todorov che interpella chi lo vive, lo celebra e lo studia. Le riflessioni generali sul significato, ora politico ora antropologico attribuitogli, sono intervallate da saggi su autori o imprese spettacolari che lo pongono al centro delle loro azioni espressive. Nel théâtre militant degli anni Settanta, il carnevale è una costante estetica e ideologica, con interessanti varianti e contaminazioni, come in certe azioni di piazza in regioni rurali (Vaucluse), che denunciano la vitalità di forme popolari, rianimate da impulsi e idee contemporanei. Altrove, i protagonisti del movimento sessantottino rivedono a posteriori le loro posizioni e discutono sull’incompatibilità fra la liberazione carnascialesca dei corpi e l’utopia rivoluzionaria novecentesca. Lo storico lavoro del Bread and Puppet Theater trova aggiornamento nel legame con l’Associazione Attac, impegnata per la giustizia sociale ed ambientale, tanto che «le carnaval est progressivement devenu un outil de luttes ces dernières années» (p. 29). 

È di carattere linguistico e drammaturgico lo studio di Christine Ramat sull’opera di Valère Novarina, applicato al «Carnaval des langues» (p. 33) che ne marca l’originalità. L’approfondita esegesi entra nella maturità del drammaturgo d’élite e richiama la testimonianza di Olivier-Martin Salvan sugli scambi con il poeta della scena. Risultati notevoli sono nell’impiego delle facoltà corporee nello spettacolo Pantagruel (2013) dello stesso Salvan. In Angélica Liddell l’elemento carnavalesque s’avvalora grazie all’«atmosphère sacrée, empruntée à la liturgie chretienne, associée à un jeu burlesque s’attachant à célébrer les plaisirs de la chair» (p. 47), percepibile in spettacoli quali Terebrante e Liebestod (2021). La domanda provocatoria, «Galilei roi du carnaval?» (p. 56), nasce dal raffronto fra il testo di Brecht e la riscrittura che ne offre Lazare Herson-Macarel in Galilée (2019), fino all’utilizzazione di Brecht in Trilogie terrestre (2022) da parte di artisti-ecologisti quali F. Aït-Touati e B. Latour. La città di Colonia (Germania) riannoda esperienze arcaiche a sensibilità moderna nell’interpretare il proprio carnevale con feste dai contenuti e linguaggi diversi, a quali partecipano ad esempio i sans-papiers, nello stile della satira politica. I luoghi comuni sul carnevale brasiliano di Rio, progressivamente istituzionalizzato, sono illustrati e criticati da V.C. Pereira nei riflessi che, nati dal loro carattere identitario nazionale, riproducono immagini stereotipate. Infine, fuori dossier, un’Intervista al regista palestinese Bashar Murkus informa sul suo lavoro presso il Teatro Khashabi di Haïfa (Israele) gli interessi del quale appaiono aperti a un programma polivalente, dalla drammaturgia al rapporto con un pubblico sempre più esigente di riferimenti all’attualità. Una memoria inedita di Judith Malina (1980), risalente all’incontro con Valeska Gert a New-York, Souvenirs de Valeska Gert et du Beggar Bar, chiude il fascicolo.

Il numero di dicembre rispetta l’impegno della rivista a fare il punto, a scadenze pluriennali, sulla situazione teatrale. Lo scopo dei curatori è di «Tenter d’observer quelques-uns des “mouvements” de la scène théâtrale publique, ce qui s’est modifiée, ce qui se transforme, ce qui apparaît. [...] Ce dossier revient-il sur la notion d’“expérience”, de “compassion”, les références documentaires» (p. 3 e p. 19).

Una tavola rotonda (aprile 2022) attorno al volume Le Cinquième mur (Ed. Les presses du réel, 2021) discute su una ricerca centrata appunto sulle «formes scéniques contemporaines et nouvelles théâtralités». Gli esempi indicano tendenze, modi e forme, mutamenti storici, a confronto con il ruolo rivalutato dello spettatore, nei casi di Antoine Vitez (direttore a Ivry e a Chaillot, 1982), di Milo Rau (Famille, 2020), Eszter Salamon (Monument O, 2016), Tiago Rodrigues (Catarina et la beauté de tuer des fascistes, 2012), Rébecca Chaillon (Carte noire nommée Désir, 2021); fino a Deflorian e Tagliarini e a Romeo Castellucci, i cui modelli riecheggiano frequentemente nella critica francese.       

L’Entretien di Olivier Neveux è dedicato a Émilie Valantin, sorprendente creatrice di marionette di lunga tradizione e di fervida invenzione. Dal 1975, è ripercorsa la sua carriera, maturata con artisti quali Marcel Maréchal e Roger Planchon ed esperti quali Paul Fournel e Jean-Guy Mourguet, erede dell’inventore della maschera lionese di Guignol. «Toute tentative pour styliser, abstraire les marionnettes, pour moi a vite été vouée à l’échec» (p. 7), confessa l’artista. Così plasma un’estetica molto esigente, dalla duttilità eccezionale – in rapporto alle tentazioni tecnologiche – e la adegua a un’etica severa che bilanci le attese del pubblico e le istanze espressive più autentiche. Nel 2021, Montélimar ha ospitato una mostra delle sue concrete figure immaginarie, esempio di storia materiale di un’arte alimentata da tensioni metafisiche.

Quasi prolungamento del libro Les théâtres documentaires (a cura di E. Magris-B. Picon-Vallin, 2019), storia, documento e scrittura scenica si rincorrono nelle analisi delle opere di Adeline Rosenstein, Salim Djaferi e Françoise Bloch. L’articolo di Neveux, Savoirs critiques, nota all’esordio che «la vérité a été progressivement destituée au profit d’une description ou d’une introduction à la réalité» (p. 32) e pone domande inquietanti per i protagonisti e per chi cerca di descriverli e capirli. Ma a conclusione riconosce che una concezione positiva dell’arte accomuna i tre autori. La reazione solidale dell’umanità a situazioni catastrofiche si fa soggetto drammatico in Milo Rau, Compassion, l’histoire de la mitraillette (2016) che denuncia l’umanesimo cinico dell’Occidente, condanna la «compassion humanitaire» (p. 45) e cerca di demistificarli: «Presenter la compassion comme un remède aux souffrances du monde est donc illusoire, voire dangereux» (p. 44). Un altro modello drammaturgico italiano appare nell’esame di Orestea (2018) della Compagnia Anagoor, letta come risposta al dolore dell’umanità.

Angélica Liddell emerge fra i creatori più problematici. Nella visione espressa in   Liebestod. L’odeur du sang, è riscontrabile il gusto per la sacralità tormentata di Georges Bataille. Secondo Basset, ogni spettacolo mostra «l’impossible “belle mort” d’une dissidente expiant publiquement son hérésie [qui] interroge l’époque sur ce qu’elle ne peut admettre» (p. 52). È spesso difficile cogliere, sotto la provocazione volutamente irritante, la coerenza intellettuale dell’opera, appassionata fino all’oltranza. Suonano così insistite certe ipotesi, volte in profezia in Cicle de résurrections (2014-2015), come: «Le temps du sacré est venu» (p. 56), per sfumare in una terminologia religiosa: «[je] ne comprend pas le fait théâtral sans liturgie et sans transe» (p. 56) che urta molti teatranti e spettatori attuali. Non turba al contrario gli estimatori di Romeo Castellucci, del quale si studiano le “inspirations théologuiques” del suo “théâtre du devenir”, fonti di perpetue trasformazioni, all’insegna del “dubbio” che, insinuato come devinette, alluderebbe in effetti al mistero (p. 65). Christophe Triau segue il mutare dell’immagine creativa in scena e finisce per esaminare la “nuova” funzione registica riproposta dall’egocentrismo demiurgico di molti «auteur-metteur-en-scène» (p. 70). Il saggio accosta personalità e metodi, estetiche e anche mode lungo vari decenni e trova in Joël Pommerat il tipico «écrivain de spectacles» (p. 71). Chiude riprendendo la nozione di “représentation amancipée” coniata da Bernard Dort per misurarne la tenuta e il suo superamento, in una «hétérogeneité centralisée [...] une théâtralité élargie mais où les éléments se complètent» (p. 76). Daria Deflorian e Antonio Tagliarini incontrano Chloé Larmet a partire da Rewind (2008), omaggio a Café Müller (e a Pina Bausch) e seguendo con Avremo ancora l’occasione di ballare insieme (2021) discutono sull’autenticità, «le supplement de valeur accordé à la réalité» (p. 78) e tentano una risposta in Sovrimpressioni (2022), discorso sul “goût de l’ordinaire” che caratterizza il lavoro della coppia italiana, accanto all’ossessione per il gesto della “caduta” (ancora Pina docet), emblematico della finzione a cui sono allenati gli artisti.


di Gianni Poli

cast indice del volume


 


Théâtre/Public, n. 244,  juillet-septembre 2022


Théâtre/Public, n. 245, octobre-décembre 2022

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