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Camillo Faverzani

Il tradimento di Leporello. Libretti italiani e dintorni


Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2022, 542 pp., 40,00 euro
ISBN 978-88-5543-161-3

La collana “Sediziose voci. Studi sul melodramma”, diretta da Camillo Faverzani, prosegue il suo impegno con il volume XI. «Non siamo davanti ad una nuova storia del libretto e del melodramma, nella sua età aurea – osserva Stefano Verdino in Prefazione – ma i vari capitoli intendono offrire una luce radente ed angolata [...] in una serie di snodi cruciali sempre con attenzione alla doppia partita tra testi italiani e francesi – fil rouge del libro» (p. VII). Il merito saliente sta nel percorso per fasi analitiche, coordinate da un “metodo” ricorrente. Il titolo allude ai tanti “tradimenti”, consumati, finti o immaginari, nelle vicende rappresentate a partire «dall’opera buffa fino all’opera seria settecentesca, del melodramma romantico e oltre», tra i quali si pone esemplare l’«Eterno fedel servitore, Leporello» (p. XI). Immediata affinità è riscontrabile con Ginevra e il cardinale. Libretti italiani da Salieri a Ponchielli (Lucca, LIM, 2015), modello precedente di Faverzani a cui tornare per raffronti probanti. Dalle cinque parti, in successione grosso modo cronologica, traggo riflessioni seguendo un campionamento dettato da gusto e sensibilità personali.  

Accomunate dal topos del viaggio, vengono esaminate tre opere dallo stesso soggetto, varianti nel titolo: Il mondo alla roversa, Il mondo alla rovescia, L’isola capricciosa. Tre anche le coppie di autori: Baldassarre Galuppi / Carlo Goldoni; Giacomo Rust / Caterino T. Mazzolà; Antonio Salieri / Caterino T. Mazzolà. Un tema dunque antichissimo, quello delle donne al potere, svolto in un “dramma giocoso per musica” in tre versioni, dal 1750 al 1795. Il metodo d’indagine, applicato in questo saggio, consente di verificarne l’efficace estensibilità agli altri e successivi. Si parte dal libretto a stampa o manoscritto, nelle sue trasformazioni, seguite e comparate in ogni versione e/o rappresentazione. Le circostanze e gli indizi esecutivi storici concorrono a ricomporre sia il documento, sia la sua ricezione pubblica (lettura e spettacolo). Gusto, estetica e scopi comunicativi risultano così dai dati concreti. Per la trama e per la partitura (persino quando manchi, come nel caso di Rust) vengono tracciate Tavole sinottiche, capaci di restituire lo stato originale dei documenti. Si scoprono gli elementi costitutivi dei testi e degli effetti indotti dall’interpretazione scenica relativa, quali le modalità espressive dei personaggi, nelle interazioni e funzioni drammatiche. Nel Mondo alla rovescia così scandagliato, curiosi paradossi emergono, come quello della ridotta presenza e importanza degli interventi (parti) femminili in lavori che ne presumono la prevalenza: il Conte, ad esempio (cfr. Tavole, pp. 17-19) ha il maggior numero di “interventi”. «Dalla tabella risaltano anche le priorità vocali e, nonostante regnino le donne, dobbiamo riscontrare che ben relativo è il primato delle donne, in tutte e tre le partiture» (p. 19). Gli atti, tradizionalmente maschili, assunti dalle donne, confermano che «è il viaggio metaforico tra gli usi e i costumi, tra le convenzioni sociali o ancora i sessi, a collegare tre mondi alla rovescia, in cui gli uomini fanno da mangiare e le donne la guerra» (p. 31). La completezza della ricerca di Faverzani si spinge alle riprese più recenti (dal 1978 al 2019) di quelle opere a lungo dimenticate.

Un dibattito su fini distinzioni di genere si apre con il paragone fra due opéra-bouffon (o opéra-comique) dal titolo Lo sposo burlato e Pomponin. La prima, nata in Italia (1769) su libretto (attribuzione) di Giulio Cesare Cordara e musica di Niccolò Piccinni, sarà replicata in Francia (1777) con libretto in francese di P.-L. Ginguené e titolo cambiato in Pomponin. La partitura per l’edizione data a Fontainebleau è perduta. Se ne propone però plausibile ricostituzione mediante le esigenze evidenziate dai libretti. Lo studioso, già curatore dell’edizione critica, affronta le due versioni a stampa, in un virtuosistico processo di collazione e di decodifica del senso, consolidato nelle Tavole (pp. 44, 46 e 61). Il minuzioso intarsio testuale conduce a numerose varianti delle quali si ipotizza la funzione, in base ai personaggi e alle parti, fra canto e recitativo. Le implicazioni storiche suggeriscono relazioni risalenti a Molière e a Lully. Per i temi esistenziali e sociali che attraversano l’opera, lo studioso consiglia l’approfondimento della sua attualità, con l’auspicio del «ritrovamento della partitura del Pomponin o quanto meno del materiale orchestrale» (p. 62).

Il “dramma per musica” Armida abbandonata, di Luigi Cherubini, rappresentato a Firenze nel 1782, induce alla ricerca dell’autore sconosciuto del suo libretto. Quell’origine è inseguita nelle tracce secolari che il poema del Tasso ha lasciato nella cultura musicale europea. L’attribuzione a Giuseppe Foppa di un libretto omonimo del 1781 segna la vicinanza maggiore all’obiettivo. Il percorso appassionante convince appunto della dipendenza dell’ignoto poeta dal lavoro del Foppa, a sua volta in relazione con i precedenti testi di Gamerra, Durandi e De Rogatis. La situazione di quest’opera “seria”, nel contesto degli scambi con la Francia, si precisa in Postfazione.

Sul tema del “salvataggio di un innocente” vertono Mariages samnites, di Grétry e Durosoy (Parigi, 1776) e L’oracolo sannita, di Zingarelli e Del Tufo (Napoli, 1805). Qui, grazie alla congrua disponibilità documentaria, si illustrano le valenze politiche, ideologiche e di costume del tempo, con analisi anche formali delle composizioni, articolate per trama e caratteri umani. Ne viene un segnale sul consolidarsi in “maniera” della «propensione all’uso meccanico di un certo numero di soluzioni, di trovate» e la scelta di libretti con «situazioni-tipo ed effetti sicuri» (pp. 163-164).

Parte dalle recite moderne con Maria Callas protagonista il discorso su La Vestale, di Gaspare Spontini e V.-J. Étienne de Jouy (1807), che suscita interesse per altri due titoli omonimi, di Pacini e Romanelli (1823) e di Mercadante e Cammarano (1840). Notato che «il titolo fatica a ritrovare un posto nel repertorio contemporaneo» (p. 167) si tessono fitti riscontri lessicali (libretto) e compositivi (partitura). Frattanto, nel passaggio dalla tragédie lyrique al melodramma serio, si può verificare la crescente funzione sociale e politica dei generi nell’adattarsi a nuovi gusti e mutati valori.

“Caina attende chi a vita ci spense” introduce due opere dedicate a Francesca da Rimini, di Feliciano Strepponi / Felice Romani (1823) e di Pietro Generali / Paolo Pola (1828), scelte fra le innumerevoli ispirate al poema dantesco. Sullo sfondo, la musica di Saverio Mercadante (1831?) su libretto di Romani (rappresentata soltanto nel 2016). L’articolo verifica le varianti di tre testi, due dei quali (riferibili alla tragedia di Silvio Pellico) divenuti libretto. Ancora comparazioni per interpretare con arduo discernimento gli apporti autoriali specifici e rilevare la «dimensione onirica [...] la qualità “formulare” dei versi di Romani e Cammarano, capace di riflettere una temperie romantica» (p. 491).   

Torna protagonista il Romani, librettista di Saul, musicato dal Vaccaj (1828), motivo di distinzioni sul genere, se oratorio o tragedia lirica alfieriana. La disamina degli elementi pro e contro giunge a sentenza: «Possiamo affermare senza remore che il Saul non è affatto un oratorio», ma con una sorpresa: «La fonte letteraria va ricercata più in Soumet che non in Alfieri» (p. 287). Ines de Castro di Persiani e Cammarano (1835) dà lo spunto per inquadrare la figura della “Mater dolorosa” nella storia letteraria e musicale, fino a Suor Angelica di Puccini e Forzano. La valutazione di tre versioni di La Regina di Cipro, di Fromental Halévy e Vernoy de Saint-Georges (1841); Donizetti e Sacchero (1844); Pacini e Guidi (1846), soprattutto nelle strutture musicali, giunge a riabilitare il lavoro, sullo stesso soggetto, di Giovanni Pacini.

Fino in fondo l’autore non smette di porsi delle domande, fruttuose anche mancandogli risposte definitive. Così studia il Re Lear, progetto verdiano incompiuto (1850-1855) accanto alla realizzazione di Cagnoni e Ghislanzoni (1900). E dopo l’indagine sulla “vera fonte del libretto”, nel passaggio (traduzione) dall’originale shakespeariano al poema musicato, deve accontentarsi di approssimazioni motivate e rilanciare in altra ipotesi: «Possiamo quindi considerare il Re Lear di Cagnoni come la realizzazione sempre procrastinata del sogno di Verdi?» (p. 483).      

L’autore raccoglie, classifica statisticamente e illustra fenomeni stilistici ed estetici, indizi e conoscenze sui problemi drammaturgici, se non d’allestimento, altrimenti trascurati. In specifico, le novità delle numerose scoperte e rettifiche della storiografia acquisita appaiono nel capitolo Di un foglio furtivo apportator e nella Postfazione. L’insolito procedimento critico, asseverato da uno strutturalismo penetrante l’opera in concreto, implica una semiologia globale della performance, utile ad aggiornare il bilancio sulla materia e acuire la sensibilità degli artisti (teatranti, specialmente) oltre che dei ricercatori.                                                                                                                                                             

di Gianni Poli

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